XVII Domenica del Tempo ordinario (C)




Omelie - Il Vangelo della domenica
a cura di Antonio Savone, presbitero della diocesi di Potenza-Muro Lucano-Marsico Nuovo
Vita Pastorale (n. 7/2022)


ANNO C – 24 luglio 2022
XVII Domenica del Tempo ordinario

Genesi 18,20-32 • Salmo 137 • Colossesi 2,12-14 • Luca 11,1-13
(Visualizza i brani delle Letture)


NESSUNO BASTA A SE STESSO

Lo avevano visto appartarsi per guadagnare uno spazio e un tempo da sottrarre all'andirivieni della folla, tanto che i discepoli gli chiesero se esistesse un proprium che caratterizzasse quella sua intimità. Lo avevano visto frequentare come ogni buon israelita la sinagoga, rispettava il sabato e le varie tradizioni religiose del suo popolo e, tuttavia, c'era qualcosa che marcava la differenza rispetto a quelle abitudini. E non poteva non essere così: se tutti vivevano la preghiera in funzione di un bisogno da presentare a Dio, per Gesù essa era inveramento della sua stessa relazione e perciò era vissuta come alimento del suo essere Figlio. Un giorno, a chi gli chiederà ragione delle sue opere, non faticherà a riconoscere di compiere sempre ciò che aveva visto compiere dal Padre. La preghiera, perciò, era l'ambito in cui riscoprire la certezza della paternità di Dio da far sperimentare a chiunque avesse incrociato i suoi passi.
«Signore, insegnaci a pregare…».
Cosa c'è dietro questa richiesta? Il riconoscere che, da soli, non siamo in grado di vivere fino in fondo il nostro essere figli. Per il peccato originale, infatti, abbiamo dimenticato di essere stati creati a immagine e somiglianza di una relazione d'amore e, perciò, necessitiamo di qualcuno che ci impresti di nuovo il codice per avere accesso a quella esperienza. E chi più del Figlio stesso di Dio? Compito del Figlio, infatti, è quello di ricucire la relazione infranta attraverso una vera e propria opera di guarigione. Compito del Figlio è permetterci di vivere la sua stessa relazione con il Padre. A riscattare tante mie giornate non è il sapere che Dio esiste, ma che io sono amato da Dio proprio come un figlio e che il suo cuore non conosce mai rigetto.
Chiedere al Signore che ci insegni a pregare significa imparare a chiamare per nome tutto ciò che blocca le nostre relazioni in una sorta di autoreferenzialità che impedisce la vita. Perché questo accada, è necessario riconciliarsi con il nostro strutturale bisogno della presenza dell'altro nella nostra vita, sia esso l'uomo come me sia esso Dio.
«Signore, insegnaci a pregare», non significa insegnaci una preghiera, ma insegnaci a ritrovare ciò per cui siamo fatti. Siamo fatti per Dio, siamo fatti per il Padre: per questo non ci sarà realtà alcuna che, una volta raggiunta, possa saziarci definitivamente. Che cos'è quel senso di insoddisfazione che proviamo continuamente pur raggiungendo obiettivi e risultati da far invidia, talvolta? È il segno di essere fatti per Qualcun altro: non accontentarsi di nulla che sia meno di Dio. Per questo Gesù ci insegna a chiedere l'unica cosa che il Padre concede senz'altro: lo Spirito santo.
Che Gesù risponda ai discepoli dicendo: «Quando pregate dite: Padre», significa: «Imparate a farvi accoglienza di una identità che vi deriva da un altro».
Comprendiamo, così, che pregare non è, anzitutto, dire preghiere ma vivere una relazione proprio come un figlio con il padre.
Perché chiedere? Perché cercare? Perché bussare? Gesù non specifica cosa chiedere. Si tratta, infatti, di un chiedere per diventare capaci di ricevere non ciò che voglio ma ciò di cui ho bisogno, Dio stesso.


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