IV Domenica di Pasqua (C)




Omelie - Il Vangelo della domenica
a cura di Antonio Savone, presbitero della diocesi di Potenza-Muro Lucano-Marsico Nuovo
Vita Pastorale (n. 5/2022)


ANNO C – 8 maggio 2022
IV Domenica di Pasqua

Atti 13,14.43-52 • Salmo 99 • Apocalisse 7,9.14b-17 • Giovanni 10,27-30
(Visualizza i brani delle Letture)


«LE MIE PECORE ASCOLTANO LA MIA VOCE»

Era stato accerchiato proprio nel cortile del tempio durante la festa della dedicazione. Gesù si era trovato come di fronte a un branco di lupi minacciosi, eppure era gente sicura di essere dalla parte di Dio. In realtà, non esistono luoghi (siamo nel tempio) o momenti (una festa religiosa) in grado di preservare di per sé da logiche solo mondane: si può essere lontani da Dio proprio mentre si è convinti di essere alla sua presenza, si può non condividere nulla con lui pur avendo continuamente il suo nome sulla bocca.
Come a volersi smarcare da chi sta nella vita soltanto per trovare capi d'accusa, Gesù stabilisce con chiarezza il criterio per verificare quando si è "di" Dio. Non è "di" Dio chi continua a opporre resistenza all'inviato di Dio, come stavano facendo i giudei e come accade a noi quando Dio è oltre le nostre aspettative.
«Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono». È solo l'ascolto inteso come coinvolgimento e capacità di mettersi in gioco secondo lo stile di Dio, a stabilire se siamo dei suoi o meno. Non c'è altro criterio: quand'anche si appartenga all'antico popolo dell'alleanza come nel caso degli interlocutori o, nel nostro caso, si sia iscritti in un'anagrafe religiosa, non basta per rivendicare un'appartenenza. La linea di demarcazione non è la circoncisione (come per loro) e non è il battesimo (come per noi), o meglio, non sono sufficienti. A far la differenza è l'ascolto reciproco, la conoscenza confidente e la fedeltà nel cammino di sequela. A far la differenza è una vita che diffonde il buon profumo di Cristo.
Non si è "di" Dio per ciò che sappiamo di lui ma perciò che di lui portiamo impresso nel cuore e nella vita, per i pensieri che nutriamo e i gesti che siamo in grado di operare.
A poco serve una bocca che fa una professione di fede se il cuore non crede.
Ci sono persone che le riconosci dalla voce, da ciò che dicono e dal modo in cui lo dicono. Per questo Gesù avrà ragione: «Le mie pecore ascoltano la mia voce».
Chi lo ascoltava riconosceva che il suo non era il parlare accademico, non era il ripetere qualcosa di appreso mediante chissà quali studi:«Mai nessuno ha parlato come parla quest'uomo».
Accadeva addirittura - e i due di Emmaus se lo ripeteranno l'un altro - che mentre parlava, il cuore ardesse nel petto. Ci sono parole in grado di far giocare d'anticipo il cuore: avverti un fascino che, coinvolgendoti, non ti lascia come ti trova. Non era stato così quando, invitati a seguirlo, alcuni erano stati in grado di lasciare tutto?
Accadeva che quanto egli proferiva si compiva: sarà così per la risurrezione di Lazzaro, per la guarigione del cieco, per i lebbrosi, per il paralitico e per molti altri.
Le sue parole non erano un suono vuoto: prima ancora di essere proferite, aveva già parlato la sua vita. Dirà a Nicodemo che pure era ritenuto maestro in Israele: «Noi parliamo di quel che sappiamo e testimoniamo quel che abbiamo veduto». Non il parlare della chiacchiera, ma il parlare di ciò che è stato visto e conosciuto. Forse si radica qui la dissociazione tra parole e vita: dal non essersi mai lasciati raggiungere da una esperienza d'amore che ha toccato il cuore.


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