VI Domenica del Tempo ordinario (B)




Omelie - Il Vangelo della domenica
a cura di Antonio Savone, presbitero della diocesi di Potenza-Muro Lucano-Marsico Nuovo
Vita Pastorale (n. 2/2021)


ANNO B – 14 febbraio 2021
VI Domenica del Tempo ordinario

Levìtico 13,1-2.45-46 • Salmo 31 • 1 Corinzi 10,31-11,1 • Marco 1,40-45
(Visualizza i brani delle Letture)

LA PROSSIMITÀ DI DIO

Un non-uomo, così poteva essere considerato chi portava sul suo corpo piaghe e bubboni. Costretto com'era a vivere ai confini tra il luogo della morte e i pochi scampoli di vita umana, doveva continuamente ricordare a sé e agli altri la sua inesorabile condanna. C'era un limite oltre il quale non era concesso spingersi. Unica compagna la domanda: «Dov'è Dio in questa mia vicenda di dolore e di morte?».
Quel giorno, per la prima volta, qualcuno non scappa ed egli può avvicinarsi.
«Dov'è Dio?». Là, a due passi da lui, per questo quell'uomo aggancia la sua disperazione alla grazia di una vicinanza insperata. C'è Gesù, «l'uomo dei dolori che ben conosce il patire» (Is 53,3). Non è, forse, vero che ci avviciniamo con fiducia solo a chi sia «in grado di comprendere le nostre infermità» (Eb 4,15) e, perciò, condivide la fatica del nostro peso?
Per la prima volta c'è uno che non si rapporta a lui come a un esubero intoccabile ma come a un uomo. Il vero processo di guarigione comincia proprio qui: ancor prima di veder rifiorita la pelle, si vede restituire la dignità di persona. Non basta aver superato una patologia se poi permane il dramma della solitudine.
Quel lebbroso sarebbe guarito già soltanto per il gesto di Gesù il quale, toccando l'intoccabile, lo restituiva a una possibile relazione.
La sua condizione non è più un ostacolo ma addirittura la porta di accesso all'amore di Dio per lui. Perché questo accada è necessario dare un nome al bisogno che mi abita e non temere di compiere il passo di accostarmi al Signore. Se accetto di "venire a Gesù" scopro che nulla è definitivamente perduto. L'incontro con lui accade quando, in tutta umiltà, accetto di consegnargli tutto ciò che in me è espressione di impurità: che nome ha la mia lebbra?
Se vuoi…
Sono parole che dicono una fiducia ed esprimono un'attesa. Non sono parole di pretesa: esse dicono la disponibilità a rimettersi nel giusto rapporto, quello che persino il Figlio di Dio conoscerà nell'ora del Getsemani quando, rivolto al Padre, ripeterà proprio così: «Non ciò che voglio io ma ciò che vuoi tu». Quelle parole attestano che la via verso la vita vera è imparare a fidarsi di Dio e Dio non vuole certo il male.
Quelle parole ridicono che per quanto provato, il lebbroso non aveva smarrito la memoria della sua identità e della sua dignità. La sua condizione di segregato non era volontà di Dio ma frutto della paura degli uomini. Se il peccato, infatti, potrà intaccare la nostra somiglianza, mai potrà scalfire la nostra immagine più vera, quella secondo la quale siamo usciti dalle mani stesse di Dio. Lebbroso, sì, ma figlio, peccatore, sì, ma figlio.
E così il lebbroso diviene apostolo: l'annuncio del Vangelo, infatti, non è sulle sue labbra, anzitutto, ma nel suo corpo. Chi ha avuto la grazia di incrociare Cristo sul suo cammino di smarrimento e di morte, non può non gridare cosa gli è accaduto. Radica qui il divario che tante volte fa cortocircuito nella nostra evangelizzazione: la bocca esprime ciò che la nostra vita smentisce. Nel caso del lebbroso, invece, era la sua vita - il suo corpo - ad attestare la prossimità di Dio.


--------------------
torna su
torna all'indice
home