IV Domenica del Tempo ordinario (B)




Omelie - Il Vangelo della domenica
a cura di Antonio Savone, presbitero della diocesi di Potenza-Muro Lucano-Marsico Nuovo
Vita Pastorale (n. 1/2021)


ANNO B – 31 gennaio 2021
IV Domenica del Tempo ordinario

Deuterònomio 18,15-20 • Salmo 94 • 1 Corinzi 7,32-35 • Marco 1,21-28
(Visualizza i brani delle Letture)

«CRISTO, MIA DOLCE ROVINA»

Quel sabato, nella sinagoga di Cafarnao, ci si accorse subito di trovarsi di fronte a uno che non parlava a vanvera. Le parole che uscivano dalla bocca di Gesù avevano uno spessore impareggiabile, un'autorità senza eguali: erano in grado di alimentare la vita di tanti perché nascevano da una relazione, quella col Padre suo, la cui volontà era diventata suo cibo quotidiano. Quelle parole aprivano a sensi reconditi, indicavano l'oltre di ogni cosa, permettevano di non vivere ripiegati, aiutavano a comprendere che il quotidiano è sacramento dell'eterno. Per questo erano stupiti di quell'insegnamento dato con autorità: quelle parole erano in grado di leggere il vissuto e di far vibrare le corde del cuore. Mai accaduto finora.
Autorità, parola usata e abusata. A volte si crede che a conferirtela sia un titolo, un ruolo, un mandato, un'abilitazione. Sì, anche, ma essa ha una cartina di tornasole che risiede non nella ripetizione monotona di un testo ma nella capacità di allargare gli orizzonti, se è vero che il latino augere significa proprio alimentare, dilatare.
Ha autorità non chi si limita a impartire ordini, bensì chi è in grado di farti intravvedere letture inedite, chi apre spiragli là dove sembra esserci solo una coltre spessa, chi - come quel giorno - non identifica uomo e peccato. Ha autorità chi, sulla scia del Cristo, è in grado di ingaggiare una vera e propria lotta contro tutto ciò che sfigura nomi e volti. Ha autorità chi ha il cuore immerso in Dio e perciò accoglie la sua parola con stupore e la traduce con la vita nelle cose del mondo.
«Tu solo hai parole di vita eterna». Il primo segno che noi cerchiamo non è il miracolo, ma qualcuno che col suo dire sia capace di restituire un senso alla vita.
Nella sinagoga di Cafarnao, quella parola pronunciata con autorità «svelerà i pensieri e i sentimenti del cuore» di un uomo abituato a una stanca ritualità e non più in grado di lasciarsi toccare da ciò che pure con assiduità veniva proclamato.
«Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?». Cristo è mia dolce rovina, per usare le parole di padre Turoldo. Se accolto, manda in frantumi tutto ciò che non riluce di bellezza, tutto ciò che dice chiusura, tutto ciò che ha a che fare con la recita e con la paura, con la mediocrità e con il volare basso.

Perché questa rovina è dolce? Di che rovina si tratta? Della rovina del seme che, marcendo nella terra, fiorisce e germoglia, la rovina della notte che cede il posto alle prime luci dell'alba, la rovina di tutto ciò che chiede di nascere e per questo manda in frantumi quanto è solo un involucro, la rovina del bozzolo che permette al bruco di trasformarsi in farfalla.
La fede non è mai un sottrarre qualcosa: Dio non toglie ma aggiunge, moltiplica in abbondanza. Accade sovente di sentirci più figli di una sottrazione che di una intensificazione del vivere.
Accogliere Cristo non è mai un processo indolore, ma non accoglierlo significa precludersi ogni possibilità di vita.
Accogliere Cristo è ciò che permette di fare me a misura di Dio, non accoglierlo è fare Dio a mia misura.


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