Diaconi ordinati per servire la Parola




Il diaconato in Italia n° 220
(gennaio/febbraio 2020)

CONTRIBUTO


Diaconi ordinati per servire la Parola
di Giulio Michelini


Papa Francesco ha dedicato molta attenzione al ruolo della Bibbia . nella vita della Chiesa. Già nella Evangelii gaudium esortava alla lettura, allo studio, alla predicazione della Sacra Scrittura, soprattutto nella forma liturgica dell'omelia (cf. nn. 135-159). Ora, con la Lettera Apostolica Aperuit Illis torna sull'argomento, preoccupato che quanto auspicato già dal Concilio Vaticano II - ovvero il ritorno della Bibbia nella vita dei credenti - tardi ad essere messo in atto. L'istituzione per la Chiesa universale di una "Domenica della Parola di Dio" è uno strumento importante, che potrà efficacemente riattivare il desiderio di conoscere le Scritture e metterne in pratica i contenuti.

«Ascoltare le Scritture per praticare la misericordia»
Nell'Aperuit Illis - sul cui tredicesimo paragrafo ci soffermeremo - Francesco anzitutto prende in esame e commenta brevemente il testo di riferimento che dà il titolo al documento, cioè la pagina dell'incontro tra il Risorto e i due discepoli che stanno andando a Emmaus (Lc 24,13-35). In quel contesto, Francesco puntualizza come «la relazione tra il Risorto, la comunità dei credenti e la Sacra Scrittura è estremamente vitale per la nostra identità» (AI 1), pena il non comprendere la missione di Gesù e della sua Chiesa. Parimenti si può dire che anche per coloro che sono chiamati al servizio diaconale non è pensabile auto-comprendersi senza una relazione con Cristo nella Chiesa, e senza una conoscenza adeguata delle Scritture.
Se guardiamo ancora alla pagina di Emmaus, mentre l'omelia che i due discepoli si scambiano (cf. il verbo homileo al v. 24,15) non permette loro di comprendere il mistero della passione e morte e risurrezione di Gesù, invece con la rilettura che il Risorto opera delle Scritture (Lc 24,27: «cominciando da Mosè...»), e il dono del pane spezzato, ai due si aprono gli occhi e riconoscono Gesù come vivente.
Più avanti, al n. 2 dell'Aperuit Illis, Francesco ricorda il «grande valore che la Parola di Dio occupa nell'esistenza quotidiana della comunità cristiana»: tra le cose che accadono nel quotidiano, vi è certamente l'incontro coi poveri e coi bisognosi. Anche a loro riguardo si può parlare di un "carattere performativo" della Scrittura, simile a quello che essa esercita - scrive Francesco, citando l'Esortazione Apostolica Verbum Domini di Benedetto XVI - quando «nell'azione liturgica emerge il suo carattere propriamente sacramentale» (AI 2). In questo modo, la Parola agisce sì nei sacramenti della Chiesa, ma è ugualmente performativa anche quando permette al credente di uscire da sé e incontrare l'altro, in particolare il povero.

L'opera di misericordia che era in principio
Prima di arrivare al tredicesimo paragrafo della Aperuit Illis si può dire che anche l'offerta della Parola al popolo di Dio sia un'opera di misericordia. Nel n. 5 del "motu proprio", Francesco afferma infatti che «i Pastori in primo luogo hanno la grande responsabilità di spiegare e permettere a tutti di comprendere la Sacra Scrittura. Poiché essa è il libro del popolo, quanti hanno la vocazione di essere ministri della Parola devono sentire forte l'esigenza di renderla accessibile alla propria comunità».
Come «ministri della Parola» anche i diaconi, pertanto, possono compiere quello che è certamente un grande gesto di amore che scaturisce dal vangelo stesso, permettendo di far conoscere la Bibbia.

La fame e il cibo
Potremmo a riguardo ripensare al fatto che anche Gesù, seguito dalle folle che cercano di vederlo e di essere guarite da lui, si commuove per esse e ancor prima di condividere con i bisognosi il pane e i pesci (cf. Mt 14,13-21; 15,32-39), offre ad esse la sua Parola. È l'incipit del "Discorso della montagna", dove si legge che Gesù, «vedendo le folle» (Mt 5,1), iniziò a parlare e a istruirle. Come nella situazione commentata da Papa Francesco in Aperuit Illis 4, a proposito del popolo disperso con la deportazione a Babilonia (ma che ora è radunato nuovamente davanti alla Legge; cf. Ne 8), così Gesù viene rappresentato dall'evangelista Matteo come colui che ancor prima di sfamare chi lo segue, lo istruisce con il cibo della sua Parola.
Così si compie quanto aveva annunciato nella risposta alla prima tentazione di Satana: «Sta scritto: "Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio"» (Mt 4,4). Gesù richiama in questo modo la situazione di Israele nel deserto, che non ha potuto fare a meno della manna e si è nutrito della Parola di Dio: «Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant'anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che l'uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,2-3).

Lo sguardo e la vista
Arriviamo ora al paragrafo 13 della Lettera Apostolica Aperuit Illis, che iniziamo a commentare però a partire da un'altra affermazione di Papa Francesco, che si legge poco sopra all'interno dello stesso documento: «Abbiamo bisogno di entrare in confidenza costante con la Sacra Scrittura, altrimenti il cuore resta freddo e gli occhi rimangono chiusi, colpiti come siamo da innumerevoli forme di cecità» (AI 8). Potremmo vedere in queste parole come una prolessi della parabola di "Lazzaro e del ricco epulone" di cui al paragrafo 13, perché la Scrittura viene qui descritta come un antidoto alle chiusure dello sguardo, alle quali siamo purtroppo facilmente inclini. La Parola di Dio diventa così l'unico modo per attuare un «riconoscimento fra persone che si appartengono» (AI 8), riconoscimento che altrimenti diventa troppo difficile se non impossibile da compiere.
Ci torna alla mente una scena narrata soltanto dal Quarto vangelo, che inizia proprio con lo sguardo di Gesù, sguardo diverso da quello dei suoi discepoli e di altri del suo popolo, che invece non riconoscono affatto l' ''appartenenza'' a cui si riferisce il Papa. Alludiamo al racconto della guarigione del cieco nato, che prende l'avvio dal fatto che Gesù «ha visto» quell'uomo: «Passando, Gesù vide un uomo cieco dalla nascita» (Gv 9,1).

Il dibattito teologico del tempo
Mentre Gesù si è accorto di quel povero, e sta per ridargli la vista, i discepoli si pongono domande e non vedono se non superficialmente le implicazioni della sua cecità: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?» (Gv 9,2). Si noti che la questione sollevata dai discepoli poteva essere fondata, e infatti rifletteva un dibattito documentato nella tradizione rabbinica: si credeva che si potesse peccare anche prima della nascita, come dimostrerebbero le storie di due fratelli gemelli, Giacobbe ed Esaù (Esaù sarebbe stato nemico di Giacobbe ancora prima di venire al mondo, secondo quanto si poteva leggere nel Sal 58,4, «Sono traviati i malvagi fin dal seno materno, sono pervertiti dalla nascita i mentitori»).
Altre discussioni riguardavano poi la possibilità che la cecità di una persona derivasse da peccati commessi dai genitori prima della sua nascita: se questi avessero peccato gravemente, i figli sarebbero nati zoppi, o con disabilità. Ma la pagina di Giovanni sembra voler mostrare che queste discussioni allontanano sempre più quell'uomo «che stava seduto a chiedere l'elemosina» (Gv 9,8) dallo sguardo di riconoscimento di cui parla Papa Francesco nella Aperuit Illis. I farisei e gli altri che poi interrogheranno il cieco guarito arriveranno addirittura ad espellere quell'uomo dal loro gruppo: è appunto in Gv 9,22 che compare l'aggettivo aposynagogos, «escluso dalla sinagoga» (cf. anche Gv 12,42; 16,2). Quelle che dovevano essere «persone che si appartengono» sono ormai divise da una distanza incolmabile, perché quell'uomo espulso non è nemmeno più considerato come parte della sinagoga.

Da dove viene "l'amarezza delle viscere"?
Nel numero dodici della Aperuit Illis Francesco ha anche aggiunto che «la Sacra Scrittura svolge la sua azione profetica anzitutto nei confronti di chi l'ascolta. Essa provoca dolcezza e amarezza» (AI 12), riferendosi al testo di Ezechiele che, chiamato a "nutrirsi" della Parola, disse: «Fu per la mia bocca dolce come il miele»» (Ez 3,3), e a Giovanni di Patmos: «In bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l'ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l'amarezza» (Ap 10,10). Più precisamente, l'amarezza, scrive il Papa, «è spesso offerta dal verificare quanto difficile diventi per noi dover vivere la Parola di Dio con coerenza» (AI 12). Ecco perché - come si diceva sopra, usando l'immagine dell' "antidoto" - la Scrittura permette, se la si ascolta senza assuefarsi, di «scoprire e vivere in profondità la nostra relazione con Dio e i fratelli» (AI 12). Veniamo finalmente al nostro tema, che abbiamo però già affrontato con la lettura intratestuale dell'intero "motu proprio". Anzitutto, come si è visto, il primo atto di misericordia o di amore nei confronti degli altri è la partecipazione della Parola di Dio, che può essere offerta nella catechesi, nell'omelia, nell'insegnamento e nell'annuncio; poi, la lettura della Scrittura permette di "vedere" l'altro, che altrimenti sarà marginalizzato e misconosciuto; infine, ed è l'ultima osservazione appena formulata sopra, la Scrittura è il mezzo che ci permette di vivere correttamente le relazioni con Dio e gli altri.
Ora, Francesco quasi alla fine della Lettera Apostolica scrive che «Un'ulteriore provocazione che proviene dalla Sacra Scrittura è quella che riguarda la carità» (AI 13), e offre come esempio la parabola di Lazzaro e dell'uomo ricco. La parabola, esclusivamente lucana, si trova nel capitolo sedicesimo del Terzo vangelo, all'interno di una sezione dedicata all'insegnamento itinerante di Gesù che prende l'avvio con la sua partenza per Gerusalemme (Lc 9-51-24,53); più precisamente, è collocata nella seconda sezione del viaggio, caratterizzata proprio dall'alto numero di parabole e dall'invito ad accogliere il Regno (Lc 13,22-17,10).
Per comprenderla, si dovrà ricordare che essa è «lo sviluppo teologico di quella precedente (cf. Lc 16,1-9)», detta dell' "amministratore scaltro", ed «è interamente giocata su un esempio contrario, perché quanto il ricco compie contraddice l'insegnamento di Gesù. Il denaro può diventare un idolo ed esercitare una signoria riservata solo a Dio» [1]. Matteo Crimella prosegue il confronto tra le due parabole in questo modo: «il lettore è condotto dalla narrazione stessa a stabilire un paragone fra l'epulone e l'amministratore astuto: essi sono agli antipodi, perfettamente speculari. L'amministratore, infatti, arriva al paradosso della spregiudicatezza per assicurarsi un futuro, l'epulone è invece chiuso nella torre d'avorio della propria ricchezza, concentrato sull'oggi e sulla sua breve durata; per l'amministratore il tempo è breve, ma c'è spazio di manovra; per il ricco è ormai troppo tardi» [2].

IL rapporto tra scrittura e carità
Per quanto riguarda il rapporto tra la Scrittura e la carità, sviluppato nel n. 13 dell'Aperuit Illis, si può quindi aggiungere qualcos'altro, proprio a partire da quanto scritto da Crimella: il"ricco epulone" evidentemente non ha ascoltato l'insegnamento di Gesù sulla ricchezza veicolato appena sopra - nella trama del Vangelo lucano - ovvero la parabola dell'amministratore disonesto. Cioè, il ricco ha chiuso gli occhi al povero Lazzaro, e contemporaneamente ha chiuso le orecchie alla Parola di Dio. Scrive Papa Francesco: «Quando Lazzaro e il ricco muoiono, questi, vedendo il povero nel seno di Abramo, chiede che venga inviato ai suoi fratelli perché li ammonisca a vivere l'amore del prossimo, per evitare che anch'essi subiscano i suoi stessi tormenti. La risposta di Abramo è pungente: «Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro» (Lc 16,29).

L'individualismo conduce all'asfissia
Ascoltare le Sacre Scritture per praticare la misericordia: questa è una grande opportunità posta dinanzi al lettore della parabola e davanti a tutti i credenti. La Parola di Dio - scrive Francesco - «è in grado di aprire i nostri occhi per permettere di uscire dall'individualismo che conduce all'asfissia e alla sterilità mentre spalanca la strada della condivisione e della solidarietà» (AI 13).
La parabola del ricco e di Lazzaro, allora, non è un'accusa nei confronti della ricchezza o dei ricchi, ma una messa in guardia circa l'atteggiamento di quel ricco e dei suoi fratelli che non ascoltano «Mosè e i profeti». Questa espressione, una variante della frase più comune «Legge e Profeti», si trova solo nel Vangelo secondo Luca e mai negli altri vangeli (vedi però Gv 1,45) o nell'intero Antico Testamento o nei testi rabbinici, ma si legge negli scritti di Qumran (1 QS 1,3, ad es.: «come ha ordinato per mezzo di Mosè e per mezzo di tutti i suoi servi i Profeti»). Poiché essa sembra descrivere in forma metonimica l'intera Scrittura ebraica, in tal modo nella parabola viene ribadito il valore perenne della Torà e del suo commento attraverso i Profeti, come anche la lettura sinagogale che di tali libri si praticava abitualmente [3] (cf. Lc 4,16-30).

La via buona è Cristo
A cosa sta alludendo Abramo, quando cita «Mosè e i profeti»? È chiaro, dal contesto della parabola, che il riferimento è a quei molti testi ebraici nei quali si insegna ad avere cura del prossimo, e specialmente dei poveri. Tra questi, sono certamente da segnalare i seguenti: Dt 14,2829; 15,1-3; 7-12; 22,1-2; 23,19; 24,7-15, 25,13-14; Is 3,14-15; 5,7-8; 10,1-3; 32,6-7; 58,3,6-7.10; Ger 5,26-28; 7,5-6; Ez 18,12-18; 33,15; Am 2,6-8; 5,11-12; 8,4-6; Mic 2,1-2; 3,1-3; 6,10-11; Zc 7,9-10; Ml 3,5.
In conclusione: nella Scrittura è detto tutto ciò che è necessario per la salvezza, [4] e vi sono espresse chiaramente le indicazioni per porsi in modo giusto di fronte agli altri. Sono le Scritture Sacre di Israele, rilette e confermate nel vangelo di Gesù Cristo, a segnare la via buona per compiere le opere di misericordia.

(C. Michelini è presbitero e docente di Esegesi neotestamentaria presso l'Istituto Teologico di Assisi)



Note
[1] M. Crimella, Luca. Introduzione, traduzione e commento, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2015, p. 266.
[2Ib., p. 266-267.
[3] Cf. I.H. Marshall, The Gospel of Luke. A commentary on the Greek Text, Eerdmans, Grand Rapids, MI 1978, p. 639.
[4] Cf. a riguardo la Dei Verbum, 11: "Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, bisogna ritenere, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle Sacre Scritture. Pertanto ogni Scrittura divinamente ispirata è anche utile per insegnare, per convincere, per correggere, per educare alla giustizia, affinché l'uomo di Dio sia perfetto, addestrato ad ogni opera buona.



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