VI Domenica del Tempo Ordinario (A)
Letture Patristiche



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Letture Patristiche della Domenica
Le letture patristiche sono tratte dal CD-Rom "La Bibbia e i Padri della Chiesa", Ed. Messaggero - Padova, distribuito da Unitelm, 1995.


ANNO A - VI Domenica del Tempo Ordinario

DOMENICA «DELLA GIUSTIZIA NUOVA»

Siracide 15,15-20 • Salmo 118 • 1 Corinzi 2,6-10 • Matteo 5,17-37
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1. La parola di Dio è sorgente inesauribile di vita, (Sant'Efrem, diacono, dai «Commenti dal Diatessaron»)
2. La giustizia voluta da Dio (Lattanzio, L'ira di Dio, 14)
3. Per custodire l'innocenza nel cuore (Agostino, dai «Discorsi», Disc. 1,9.21)
4. Il rancore (Doroteo di Gaza, Instruct. 8,89-91)
5. La responsabilità della volontà (Tertulliano, De Poenit. III, 11-16)
6. Quando è lecito punire (Giovanni Crisostomo, Hom. in annum novum, 4)
7. Spiegazione della celebrazione eucaristica (Cirillo di Gerusalemme, Catechesi mistag. 5, 2-11.19-20)
8. L'intenzione del cuore (Ambrogio, De Paenit. 1, 70-71)
9. La giustizia di colui che regge l'universo (Pseudo-Dionigi Areopagita, I nomi divini, 8,7-9)
10. Sulle parole del Vangelo di Mt 5,22: "Chi dirà a un suo fratello: pazzo! sarà condannato al fuoco dell'inferno" (Agostino, Discorso 55, PL 38, 375-377)


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1. La parola di Dio è sorgente inesauribile di vita

Chi è capace di comprendere, Signore, tutta la ricchezza di una sola delle tue parole? È molto più ciò che ci sfugge di quanto riusciamo a comprendere. Siamo proprio come gli assetati che bevono ad una fonte. La tua parola offre molti aspetti diversi, come numerose sono le prospettive di coloro che la studiano. Il Signore ha colorato la sua parola di bellezze svariate, perché coloro che la scrutano possano contemplare ciò che preferiscono. Ha nascosto nella sua parola tutti i tesori, perché ciascuno di noi trovi una ricchezza in ciò che contempla.
La sua parola è un albero di vita che, da ogni parte, ti porge dei frutti benedetti. Essa è come quella roccia aperta nel deserto, che divenne per ogni uomo, da ogni parte, una bevanda spirituale. Essi mangiarono, dice l'Apostolo, un cibo spirituale e bevvero una bevanda spirituale (cfr. 1Cor 10,2).
Colui al quale tocca una di queste ricchezze non creda che non vi sia altro nella parola di Dio oltre ciò che egli ha trovato. Si renda conto piuttosto che egli non è stato capace di scoprirvi se non una sola cosa fra molte altre. Dopo essersi arricchito della parola, non creda che questa venga da ciò impoverita. Incapace di esaurirne la ricchezza, renda grazie per la immensità di essa. Rallegrati perché sei stato saziato, ma non rattristarti per il fatto che la ricchezza della parola ti superi. Colui che ha sete è lieto di bere, ma non si rattrista perché non riesce a prosciugare la fonte. È meglio che la fonte soddisfi la tua sete, piuttosto che la sete esaurisca la fonte. Se la tua sete è spenta senza che la fonte sia inaridita, potrai bervi di nuovo ogni volta che ne avrai bisogno. Se invece saziandoti seccassi la sorgente, la tua vittoria sarebbe la tua sciagura. Ringrazia per quanto hai ricevuto e non mormorare per ciò che resta inutilizzato. Quello che hai preso o portato via è cosa tua, ma quello che resta è ancora tua eredità. Ciò che non hai potuto ricevere subito a causa della tua debolezza, ricevilo in altri momenti con la tua perseveranza. Non avere l'impudenza di voler prendere in un sol colpo ciò che non può essere prelevato se non a più riprese, e non allontanarti da ciò che potresti ricevere solo un po' alla volta.

(Sant'Efrem, diacono, dai «Commenti dal Diatessaron»)

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2. La giustizia voluta da Dio

Come Dio ha creato il mondo per l'uomo, così ha creato l'uomo per se stesso, quasi preposto del tempio divino, osservatore delle opere e delle realtà celesti. Egli solo infatti, dotato di sensi e capace di ragione, può comprendere Dio, ammirare le sue opere, scrutarne la forza e la potestà: per questo è dotato di ragione, di mente e prudenza. Per questo egli solo fra tutti gli altri animali è stato creato col corpo eretto, tanto da innalzare viso e occhi alla contemplazione del suo Creatore. E così egli solo ebbe il dono della parola, una lingua interprete del pensiero, per poter annunciare la maestà del suo Signore. Infine tutto è stato a lui sottomesso, perché egli si assoggettasse a Dio, suo creatore e fattore.
Dio dunque volle che l'uomo fosse tutto dedicato alla sua glorificazione; per questo gli attribuì tanto onore da dominare tutte le cose: è sommamente giusto infatti che l'uomo ami colui che tanto gli ha donato; e che ami anche il prossimo unito a lui in una comunità di diritto divino. Non è ammissibile infatti che uno dedicato al culto di Dio sia danneggiato da un altro, allo stesso culto dedicato.
Da tutto ciò si comprende che l'uomo è stato strutturato in vista della religione e della giustizia... Dio dunque ha voluto che tutti gli uomini siano giusti, che cioè amino e onorino Dio e gli uomini: onorino Dio come Padre, amino gli uomini come fratelli; su questi due precetti, infatti, si fonda tutta la giustizia. Chi dunque non conosce Dio e danneggia il prossimo, vive nell'ingiustizia, è in contraddizione con la sua stessa natura e sconvolge l'ordine e la legge di Dio.

(Lattanzio, L'ira di Dio, 14)

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3. Per custodire l'innocenza nel cuore

«Io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5,20); se non osserverete, cioè non solo quei minimi precetti della legge che incominciano a formare l'uomo, ma anche questi aggiunti da me, che non sono venuto ad abolire la legge ma a perfezionarla, non entrerete nel regno dei cieli.
Ma tu mi dirai: «Se prima, parlando di quei minimi precetti, ha detto che nel regno dei cieli sarà chiamato minimo chiunque avrà trasgredito uno di essi e insegnato agli altri ad agire così, mentre verrà chiamato grande chiunque li avrà osservati e avrà insegnato a farlo - quindi sarà già nel regno dei cieli dal momento che è grande- che bisogno c'è di aggiungere altri precetti a quelli minimi della legge, se chi li osserva e li insegna può già entrare nel regno dei cieli, perché è grande»? Quella sentenza: «Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini,sarà considerato grande nel regno dei cieli» (Mt 5, 19). si deve interpretare nel senso che ora dirò.
Che la vostra giustizia superi, egli dice, quella degli scribi e dei farisei,perché se non sarà maggiore non entrerete nel regno dei cieli. Chi trasgredirà dunque quei precetti minimi e insegnerà così, sarà chiamato minimo: chi invece osserverà quei piccoli precetti e in tal modo insegnerà, non è da ritenersi già grande e adatto al regno dei cieli, ma tuttavia non tanto piccolo come colui che li trasgredisce. Perché egli sia grande e idoneo al regno, deve fare e insegnare come Cristo ora insegna, occorre cioè che la sua giustizia sia maggiore di quella degli scribi e dei farisei. La giustizia dei farisei è di non uccidere; la giustizia di coloro che entreranno nel regno di Dio è di non adirarsi senza ragione. Non uccidere perciò è il minimo e chi lo trasgredisce sarà chiamato minimo nel regno dei cieli. Chi poi lo osserverà non sarà subito grande e adatto al regno dei cieli, però salirà già di qualche grado.
Sarà invece perfetto se non si adirerà senza ragione; e se osserverà questo sarà ben lontano dall'uccidere. Per cui chi insegna a non adirarsi non trasgredisce la legge che comanda di non uccidere,ma piuttosto la perfeziona,affinché custodiamo l'innocenza all'esterno non ammazzando, e nel cuore non dando campo all'ira.

(Agostino, dai «Discorsi». Disc. 1,9. 21).

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4. Il rancore

Evagrio ha detto: "È cosa estranea ai monaci adirarsi, come pure rattristare qualcuno"; e ancora: "Se uno ha vinto l'ira, costui ha vinto i demoni; se invece è sconfitto da questa passione, del tutto estraneo alla vita monastica", con quel che segue. Che dobbiamo dunque dire di noi stessi, che non ci fermiamo neppure alla collera e all'ira, ma che talvolta ci spingiamo fino al rancore? Che altro, se non piangere questa nostra miserabile e disumana condizione? Vegliamo dunque, fratelli, e veniamo in aiuto a noi stessi, dopo Dio, per esser liberati dall'amarezza di questa rovinosa passione. Talora uno fa una "metania" al proprio fratello perché tra i due, evidentemente, c'è stato turbamento o attrito, ma anche dopo la "metania" rimane rattristato e con pensieri contro di lui. No, egli non deve considerarli di poca importanza, ma deve tagliarli via al più presto. Si tratta di rancore, e c'è bisogno di molta vigilanza, come ho detto, di penitenza, di lotta per non soffermarsi a lungo in questi pensieri e per non correre pericolo. Infatti, facendo la "metania" per adempiere al precetto, si è, sì, posto rimedio all'ira sul momento, ma non si è ancora lottato contro il rancore; e per questo si è rimasti con risentimento contro il fratello, perché altra cosa è il rancore, altra l'ira, altra la collera e altra il turbamento.
Vi dico un esempio, perché capiate meglio. Chi accende un fuoco dapprima ha solo un carboncino, che è la parola del fratello che lo ha rattristato; ecco, è appena un carboncino: che è mai la parola del tuo fratello? Se la sopporti, spegni il carbone. Se invece continui a pensare: «Perché me l'ha detto? Posso ben rispondergli! Se non avesse voluto affliggermi, non l'avrebbe detto. Vedrai! Anch'io posso affliggerlo», ecco, hai messo un po' di legnetti o simile materiale, come chi accende il fuoco, e hai fatto fumo, che è il turbamento. Il turbamento è questo sommovimento e scontro di pensieri, che risveglia e rende aggressivo il cuore. Aggressività è l'impulso a rendere il contraccambio a chi ci ha rattristato, che diventa anche audacia, come ha detto l' "abbas" Marco: "La cattiveria intrattenuta nei pensieri rende aggressivo il cuore, mentre allontanata con la preghiera e la speranza lo rende contrito". Se infatti avessi sopportato la piccola parola del tuo fratello, avresti potuto spegnere, come ho detto, anche quel piccolo carboncino, prima che nascesse il turbamento. Ma anche questo, se lo vuoi, puoi spegnerlo facilmente, appena inizia, col silenzio, con la preghiera, con una "metania" fatta di tutto cuore; se invece continui a far fumo irritando ed eccitando il tuo cuore a forza di pensare: «Perché me lo ha detto? Posso ben rispondergli!», per lo scontro stesso, diciamo così e la collisione dei pensieri il cuore si logora e si surriscalda, e allora divampa la collera. La collera è un ribollimento del sangue che si trova intorno al cuore, come dice san Basilio. Ecco, è nata la collera: è quella che chiamiamo irascibilità. Ma se lo vuoi puoi spegnere anch'essa, prima che diventi ira; ma se continui a turbare e a turbarti, ti vieni a trovare come chi ha messo legna al fuoco, e il fuoco divampa sempre più, e così poi viene la brace, che è l'ira.
Questo è quanto diceva l' "abbas" Zosima, quando gli fu chiesto che cosa vuol dire la sentenza che dice: "Dove non c'è collera, si acquieta la battaglia. All'inizio del turbamento, quando comincia, come abbiamo detto, a far fumo e a mandare qualche scintilla, se subito uno rimprovera se stesso e fa una "metania" prima che si accenda e diventi collera, se ne rimane in pace. Ma dopo che è venuta la collera, se non se ne sta tranquillo, ma continua a turbarsi e ad irritarsi, si viene a trovare, come abbiamo detto, come uno che dà legna al fuoco, e continua a bruciare finchè non produce grossa brace. Come dunque i tizzoni di brace diventano carboni e si mettono via e durano per anni interi senza guastarsi e marcire, nemmeno se vi si butta sopra acqua, così anche l'ira, se dura nel tempo, diventa rancore e poi, se non si versa sangue, non si riesce ad allontanarsene. Ecco, vi ho detto la differenza, attenti bene; avete sentito che cos'è il primo turbamento, che cos'è la collera, l'ira, il rancore. Vedete come da una sola parola si arriva ad un male così grande? Se fin da principio si fosse rivolto il rimprovero su sé stessi, se non si fosse voluto giustificarsi e in cambio di una parola sola dirne due o cinque e restituire male per male, si sarebbe potuto sfuggire a tutti questi mali. Per questo vi dico sempre: quando le passioni sono giovani, tagliatele via prima che s'irrobustiscano a vostro discapito e dobbiate poi penare. Una cosa infatti è strappar via una piccola pianta e un'altra sradicare un grande albero.

(Doroteo di Gaza, Instruct. 8,89-91)

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5. La responsabilità della volontà

Perché l'origine del fatto è la volontà? Giudichino infatti se sono attribuite al caso o alla necessità o all'ignoranza quelle cose eccettuate le quali non si sbaglia più se non con la volontà. Stante perciò l'origine del fatto, non è essa maggiore rispetto alla pena quanto più importante rispetto alla colpa? Ma neppure allora può essere liberata da questa colpa, dal momento che qualche difficoltà impedisce che venga effettuata: essa infatti è attribuita a se stessa, né può essere scusata di quella incapacità di portare a termine, per il fatto che aveva sacrificato il suo.
Infine, in che modo il Signore dimostra di costruire un'aggiunta alla legge, se non col vietare le colpe anche della volontà? Quando definisce adultero non solo colui che è andato a compromettersi effettivamente in un matrimonio altrui, ma anche colui che si è contaminato con la concupiscenza degli occhi?
Pertanto, ciò che non è permesso fare, l'animo se lo rappresenta con molto pericolo e sconsideratamente manda a vuoto l'effetto per mezzo della volontà. Poiché la forza di questa volontà è così grande che, riempiendoci del suo sollievo, cede a motivo del fatto, sia punita proprio a motivo del fatto.
È cosa del tutto inutile dire: «Volevo farlo e tuttavia non l'ho fatto»; al contrario, devi fare perché vuoi, oppure non devi volere perché non fai. Ma tu stesso attesti con la tua coscienza; infatti, se fossi stato bramoso del bene, avresti desiderato compierlo; e d'altra parte, se non fai il male, non dovresti neppure desiderarlo: comunque la metti ti sei reso colpevole in quanto o hai voluto il male o non hai compiuto il bene!

(Tertulliano, De Poenit. III, 11-16)

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6. Quando è lecito punire

Per la gloria di Dio è anche lecito punire. In qual modo, di grazia? Verso i nostri servi spesso ci commuoviamo; come perciò è lecito punire per Dio? Se vedi uno ubriaco o furibondo - si tratti di un servo, di un amico o di un prossimo qualsiasi - o uno che corre al teatro, o che non si prende alcuna cura della sua anima, o che giura, o spergiura, o mentisce: adirati, punisci, richiama, correggi ed avrai fatto tutto questo per Dio. Se vedrai uno peccare contro di te o che ha trascurato parte dei suoi compiti, perdonagli ciò, ed avrai perdonato per Dio. Ora, molti, a dire il vero, fanno così quando si tratta di amici, o di servi; quando invece sono loro stessi gli offesi, si mostrano giudici acerbi e inesorabili; quando poi offendono Dio, o perdono le loro stesse anime, non si fanno di ciò alcuna ragione. Per contro, devi conquistarti degli amici? Conquistali per Dio. Devi catturare dei nemici? Catturali per Dio. Ma in che modo amici e nemici si possono conquistare per Dio? Se non collezioniamo tali amicizie per conquistare ricchezze, avere inviti a banchetti, o per poter conseguire una protezione umana: bensì manteniamo e acquistiamo quegli amici che possono apportare moderazione al nostro spirito, consigliare cose oneste, riprendere i peccatori, redarguire i delinquenti, risollevare gli spiantati, recar consiglio o preghiere, e possano ricondurre a Dio.
Viceversa, è lecito farsi dei nemici per Dio. Se vedi uno che è intemperante, empio, pieno di nequizia, infarcito di opinioni impure, che ti spianta o nutre il desiderio di nuocerti distaccati e ritraiti da lui: così infatti ordina Cristo: "Se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo e gettalo lontano da te" (Mt 5,29). Questo appunto prescrisse, che proprio quegli amici che tieni caro quanto gli occhi, indispensabili in ogni bisogna della vita, tu tagli e getti via.

(Giovanni Crisostomo, Hom. in annum novum, 4)

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7. Spiegazione della celebrazione eucaristica

Poi il diacono dice ad alta voce: «Riconoscetevi l'un l'altro e baciatevi a vicenda». Non credere che quel bacio sia pari a quello che ci si dà tra amici in piazza. Non è un bacio di tal sorta: fonde le anime e promette l'oblio di ogni offesa. Questo bacio è dunque segno che le anime sono unite e han deciso di dimenticare ogni oltraggio. Per questo Cristo disse: "Se offri il tuo dono all'altare e ivi ti ricordi che il tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì il tuo dono all'altare, e va' prima a riconciliarti con tuo fratello; poi torna ed offri il tuo dono" (Mt 5,23s). Il bacio dunque è segno di riconciliazione, e perciò è santo, come in un altro passo esclama san Paolo, dicendo: "Salutatevi l'un l'altro con il bacio santo" (1Cor 16,20), e Pietro: "Salutatevi l'un l'altro col bacio dell'amore" (1Pt 5,14).

(Cirillo di Gerusalemme, Catechesi mistag. 5, 2-11.19-20)

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8. L'intenzione del cuore

Ammettiamolo pure: l'occhio si casualmente posato. L'animo, però non si soffermi con desiderio. Non è colpa il vedere, ma dobbiamo guardarci che da esso scaturisca il peccato. L'occhio corporale vede, il pudore dell'animo, tuttavia, tenga a freno gli occhi del cuore. Abbiamo il Signore maestro di spiritualità e, a un tempo, di dolcezza. Il profeta ha detto: "Non guardare alla bellezza di una cortigiana" (Pr 5,3). Il Signore, tuttavia, ha affermato: "Chiunque guarderà una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" (Mt 5,28). Non ha detto: «Chiunque guarderà» ha commesso adulterio, ma «chiunque guarderà per desiderarla». Non vuole imporre limiti di sorta alla vista, bensì fa questione di sentimento. Santo il pudore che ama tenere a freno gli occhi del corpo, così che spesso non vediamo addirittura ciò che ci è innanzi. Apparentemente, l'occhio vede ogni cosa che gli si pari davanti, ma se non si aggiunge l'intenzione, questo nostro vedere, di cui la carne ci dà la possibilità, riesce vano.
Dunque, vediamo con la mente più che con il corpo. La carne abbia pure veduto il fuoco, non teniamoci, però, la fiamma stretta in grembo, nel segreto, cioè, della mente nell'intimo dell'animo. Non facciamo penetrare il fuoco nelle ossa, non incateniamoci da noi stessi, non parliamo con gente da cui emani ardente la fiamma della colpa. L'eloquio della ragazza è nodo che avvince i giovani. Le parole dell'adolescente sono lacci d'amore per la giovinetta.

(Ambrogio, De Paenit. 1,70-71)

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9. La giustizia di colui che regge l'universo

Dio è lodato per la sua giustizia; a tutte le cose, infatti, giusto com'è, egli conferisce la giusta misura e la bellezza e la conveniente disposizione, determinando per ciascuna tutte le regole e gli ordinamenti secondo il criterio realmente più giusto ed essendo per tutti l'autore delle loro proprie azioni. La giustizia divina, infatti, ordina e determina tutte le cose, preservandole da qualsivoglia mescolanza o confusione e attribuendo loro quanto conviene a ciascuna di esse, conformemente alla sua dignità.
Se noi affermiamo queste cose giustamente, coloro i quali dileggiano la giustizia divina, manifestamente condannano, senza rendersene conto, la propria ingiustizia; costoro, infatti, sostengono che nelle cose mortali è intrinseca l'immortalità, nelle cose imperfette la perfezione, in quelle che si muovono da sole una causa esterna che ne provocherebbe il movimento, in quelle mutevoli il rimanere sempre identiche a se stesse, nelle cose limitate la possibilità di divenire perfette, nelle cose temporanee l'eternità; essi ritengono, altresì, che le cose che si muovono per natura siano immutabili, che i piaceri temporanei durino in eterno e, in generale, attribuiscono a certe cose quelle caratteristiche inerenti ad altre. Si deve invece sapere che la giustizia divina è realmente e autenticamente tale, in quanto distribuisce a tutte le cose ciò che è loro proprio, secondo il valore di ciascuna di esse, potenziandole e custodendole ognuna nel suo proprio ordine.
Direbbe tuttavia qualcuno: «Non è giusto consentire che gli uomini buoni vengano perseguitati, senza ricevere alcun aiuto, da quelli più cattivi». A costui si deve rispondere che se davvero coloro che lui chiama «buoni» amano le cose terrene, ardentemente desiderate da tutti gli estimatori delle realtà materiali, già soltanto per questo motivo essi si allontanano dall'amore di Dio. Né comprendo come possano definirsi «buoni» coloro che disprezzano le cose veramente amabili e divine, anteponendo a queste, che empiamente oltraggiano, le cose che si dovrebbero fuggire ed esecrare. Se invece costoro amassero ciò che veramente vale, allora ne godrebbero realmente, poiché diverrebbero pienamente appagati del loro desiderio. Forse che, infatti, non si avvicinano maggiormente alle virtù angeliche quando, attraverso lo studio delle cose divine, per quanto possono, si allontanano dalla passione di quelle materiali e si rivolgono alle cose buone, esercitandosi virilmente nei rischi che queste comportano? Si può davvero affermare, perciò, che è realmente conforme alla giustizia divina che la virile forza degli uomini probi non permetta mai di essere indebolita e corrotta dall'abbondanza dei beni materiali; anzi, se qualcuno sarà tentato di cadere in questo modo, la giustizia di Dio non lo lascerà senza aiuto, ma lo reintegrerà nella sua condizione bella e incorrotta, ricompensandolo dei suoi meriti.
Questa divina giustizia è celebrata anche come salvezza di tutti, poiché conserva e custodisce di ciascuna cosa la sua genuina essenza e costituisce la vera causa dell'operare proprio di tutte le cose. Se qualcuno loda la salvezza poich'essa difende opportunamente tutte le cose dal loro deterioramento, approveremo questo panegirista della salvezza universale.

(Pseudo-Dionigi Areopagita, I nomi divini, 8,7-9)

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10. Sulle parole del Vangelo di Mt 5,22: "Chi dirà a un suo fratello: pazzo! sarà condannato al fuoco dell'inferno"

Il timore utile
1. 1. Il passo del santo Vangelo, che abbiamo udito poco fa quando veniva letto, ci ha riempito di spavento, se abbiamo fede; non ha spaventato coloro che non han fede. E poiché non li spaventa, vogliono essere falsamente sicuri non sapendo fare un'esatta distinzione tra il tempo del timore e il tempo della sicurezza. Cerchi dunque d'aver paura chi adesso conduce una vita che avrà fine, affinché possa avere nell'altra vita la sicurezza che non avrà fine. Abbiamo dunque avuto paura. Chi infatti non dovrebbe temere la Verità che parla e dice: Chi dirà a un suo fratello: "Pazzo" sarà condannato al fuoco dell'inferno (Mt 5,22)? La lingua invece nessuno è capace di domarla (Gc 3,8). Eppure l'uomo doma le belve, ma non riesce a domare la lingua; doma i leoni, ma non riesce a frenare la lingua; egli è capace di domare [le belve], ma non è capace di domare se stesso; doma le belve di cui ha paura, ma per domare se stesso non teme ciò di cui dovrebbe aver paura. Ma che dire se questa massima è vera? È uscita da un oracolo della verità: La lingua invece nessun uomo può domarla.

Necessità dell'aiuto di Dio per domare la lingua
2. 2. Che faremo dunque, fratelli miei? So bene che io parlo, è vero, a una moltitudine, ma poiché tutti noi siamo uno solo in Cristo, prendiamo una decisione, per così dire, nel segreto della coscienza. Non ci sente nessun estraneo, siamo una sola cosa poiché siamo nell'uno. Che faremo? Chi dirà a un suo fratello: "Pazzo!" sarà condannato al fuoco dell'inferno. Ma la lingua nessun uomo può domarla. Andranno dunque tutti al fuoco dell'inferno? Niente affatto! O Signore, tu sei diventato nostro rifugio di generazione in generazione (Sal. 89,1). La tua collera è giusta, non mandi nessuno ingiustamente all'inferno. Dove andrò lontano dal tuo spirito, dove potrei fuggire lontano da te, se non verso di te? (Sal 138,7). Cerchiamo dunque, carissimi, di capire che, se la lingua non può domarla nessuno, dobbiamo ricorrere a Dio perché domi la nostra lingua. Se infatti tu vorrai domarla, non ci riuscirai, perché sei un uomo. La lingua non può domarla nessun uomo. Considera la similitudine presa dagli animali, che noi domiamo. Né il cavallo, né il cammello, né l'elefante, né l'aspide, né il leone domano se stessi; così neppure l'uomo doma se stesso. Ma per domare un cavallo, un bue, un cammello, un elefante, un leone, un aspide, si cerca un uomo. Si cerchi dunque Dio perché sia domato l'uomo.

Dio domatore della lingua
3. 3. Signore, tu dunque sei diventato per noi un rifugio. Noi ci rifugiamo da te e da te ci verrà il bene, poiché da noi soli deriva il male. Noi infatti abbiamo abbandonato te, e tu ci hai abbandonati a noi stessi. Ci auguriamo d'essere ritrovati in te, poiché c'eravamo perduti in noi. O Signore, tu sei diventato per noi un rifugio. Perché dunque, miei fratelli, dobbiamo dubitare che il Signore ci renderà mansueti, se ci offriremo a lui per essere domati? Hai domato il leone che tu non hai creato; non ti domerà colui che ti ha creato? In qual modo infatti hai potuto domare bestie tanto feroci? Sei forse uguale a loro per le forze del corpo? Con quale potere hai dunque potuto domare bestie di grande potenza? Sono bestie anche quelle che noi chiamiamo bestie da soma, poiché non sarebbe possibile servirsene se non fossero domate. Ma poiché siamo abituati a vederle condotte dalla mano dell'uomo e soggiogate dai freni loro posti dagli uomini e sotto il loro potere, credi forse che sono potute nascere mansuete? Considera almeno le belve più crudeli. Il leone ruggisce, chi non sarebbe preso da spavento? E tuttavia perché ti riconosci più forte di esso? Non per le tue forze fisiche, ma per la facoltà della ragione insita nel tuo spirito. Sei più forte d'un leone a causa di ciò per cui sei stato creato a immagine di Dio. L'immagine di Dio doma le belve, e non domerà Dio la propria immagine?

Si deve sopportare la sferza di Dio che ci doma
4. 4. In lui è la nostra speranza: sottomettiamoci a lui e imploriamo la sua misericordia. In lui riponiamo la nostra speranza e finché non saremo domati, interamente domati, finché cioè non saremo perfezionati, sopportiamo la sua mano che ci doma. Spesso infatti il nostro domatore usa anche la sferza. Se tu infatti per domare le tue bestie da soma usi il bastone o impieghi la sferza, non potrà forse usarli per domare i suoi giumenti che siamo noi, Dio, che da giumenti ci farà suoi figli? Tu domi il tuo cavallo; quale ricompensa darai al tuo cavallo, quando comincerà a portarti mansueto, a sopportare le tue nerbate, a ubbidire ai tuoi comandi, a essere giumento, cioè sostegno della tua debolezza? Che cosa gli darai in compenso, se nemmeno lo seppellirai quando sarà morto, ma lo getterai per essere sbranato dai volatili? Per te invece Dio dopo averti domato, riserva un'eredità che non è se non lui stesso, e ti risusciterà dopo un certo tempo dalla tua morte. Ti renderà la tua carne con tutti i tuoi capelli e ti farà stare in eterno con gli angeli dove non avrai più bisogno d'essere domato, ma solo d'essere posseduto dal più tenero dei padri. Dio allora sarà tutto in tutti (1Cor 15,28). Lì non ci sarà nessuna sventura che ci metta alla prova, ma la sola felicità che sarà il nostro nutrimento. Nostro pastore sarà lo stesso nostro Dio, la nostra bevanda sarà lo stesso nostro Dio, l'onore nostro il nostro Dio, la nostra ricchezza il nostro Dio. Quali che siano e di qualunque specie siano i beni che tu cerchi quaggiù, tutti li avrai in lui solo.

Per quale speranza siamo domati quaggiù
5. 5. Per la speranza di tale felicità viene domato l'uomo, e il domatore sarà forse considerato intollerabile? Per la speranza di questa felicità viene domato l'uomo, e si mormora contro questo benefico domatore se per caso ricorre all'impiego della sferza? Avete udito l'esortazione dell'Apostolo: Se voi non siete sottoposti alla correzione, voi siete dei bastardi e non dei veri figli (Eb 12,8). I bastardi sono i figli nati dall'adulterio. Chi è infatti il figlio che non è castigato da suo padre? D'altronde - continua Paolo - noi come correttori abbiamo avuto i nostri padri secondo la carne e li abbiamo rispettati; non ci sottometteremo quindi a maggior ragione al Padre degli spiriti, per avere la vita? (Eb 12,9). Che cosa ti ha potuto dare tuo padre correggendoti, bastonandoti, usando la sferza e dandoti nerbate? Ti ha forse potuto dare il mezzo per vivere in eterno? Come avrebbe potuto dare a te ciò che non avrebbe potuto dare a se stesso? Se ti correggeva con la sferza, lo faceva in vista del denaro, per poco che esso fosse, accumulato con l'usura e il lavoro, per evitare che a causa della tua vita scapestrata andassero dispersi i frutti delle sue fatiche, che ti avrebbe lasciati in eredità. Picchiò il figlio per timore che andassero perdute le proprie fatiche, poiché ti lasciò quello che quaggiù non avrebbe potuto né mantenere né portar via. Infatti quaggiù non ti ha lasciato qualcosa che potesse rimanere a lui; te lo cedette affinché tu potessi accedere all'eredità. Il tuo Dio, al contrario, il tuo Redentore, il tuo domatore, il tuo castigatore, tuo padre, ti castiga. A quale scopo? Perché tu riceva l'eredità, non quando tu seppellirai tuo padre, ma per avere in eredità proprio il Padre. Vieni avviato, col castigo, alla speranza di un tal bene e mormori? e se ti capiterà qualche sventura forse lo bestemmi? Dove andrai lontano dal suo Spirito? Ecco: ti lascia perdere e non ti castiga. Egli abbandona te che lo bestemmi, ma credi tu di sfuggire alla sua giustizia? Non è forse meglio ch'egli ti castighi e tu sii a lui accetto (Cf. Eb 12,6; Prv 3,13), piuttosto che ti perdoni e ti abbandoni?

Dio nostro rifugio
6. 6. Diciamo dunque al Signore Dio nostro: Signore, di generazione in generazione tu sei diventato per noi un rifugio (Sal 89,1). Nella prima e nella seconda generazione tu sei stato per noi un rifugio. Tu sei stato rifugio affinché nascessimo, poiché prima non esistevamo; tu sei stato nostro rifugio affinché rinascessimo, poiché eravamo cattivi: tu sei stato rifugio per nutrire i tuoi disertori, tu sei rifugio per erigere e dirigere i tuoi figli; tu sei il nostro rifugio. Da te non ci allontaneremo quando ci avrai liberati da tutti i nostri mali e ci avrai riempiti dei tuoi beni. Tu ci dai i beni, ci accarezzi perché non ci affatichiamo nella via: tu ci punisci, ci picchi, ci percuoti, ci guidi perché non andiamo fuori dal retto sentiero. Sia dunque quando ci accarezzi perché non ci affatichiamo nella via, sia quando castighi perché non andiamo fuori strada: O Signore, tu sei diventato per noi un rifugio.

(Agostino, Discorso 55, PL 38, 375-377)


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