Nella kenosi di Cristo il nostro cammino di santità


Il diaconato in Italia n° 214
(gennaio/febbraio 2019)

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Nella kenosi di Cristo il nostro cammino di santità
di Luigi Vidoni

Papa Francesco, nell'omelia pronunciata in occasione del Giubileo dei Diaconi il 29 maggio del 2016, ha detto: «Chi annuncia Gesù è chiamato a servire e chi serve annuncia Gesù. Il Signore ce lo ha dimostrato per primo: Egli, la Parola del Padre, Egli, che ci ha portato il lieto annuncio (cf Is 61,1), Egli, che "è" in se stesso il lieto annuncio (cf Lc 4,18), si è fatto nostro servo (Fil 2,7), "non è venuto per farsi servire, ma per servire" (Mc 10,45). "Si è fatto diacono di tutti", scriveva un Padre della Chiesa (Policarpo, Ad Phil. V,2). Come ha fatto Lui, così sono chiamati a fare i suoi annunciatori. Il discepolo di Gesù non può andare su una strada diversa da quella del Maestro, ma se vuole annunciare deve imitarlo. È suo testimone chi fa come Lui: chi serve i fratelli e le sorelle, senza stancarsi di Cristo umile, senza stancarsi della vita cristiana che è vita di servizio».

La santità della diaconia
Anche nelle Norme fondamentali per la formazione dei diaconi, al n. 11, possiamo cogliere la stessa esigenza di conformazione a Cristo, in una spiritualità tipicamente diaconale: «Dall'identità teologica del diacono, scaturiscono con chiarezza i lineamenti della sua specifica spiritualità, che si presenta essenzialmente come spiritualità del servizio. Il modello per eccellenza è il Cristo servo, vissuto totalmente al servizio di Dio, per il bene degli uomini. Egli si è riconosciuto annunciato nel servo del primo carme del Libro di Isaia (cf Lc 4,18-19), ha qualificato espressamente la sua azione come diaconia (cf Mt 20,28; Lc 22,27; Gv 13,1-17; Fil 2,7-8; 1Pt 2,21-25) ed ha raccomandato ai suoi discepoli di fare altrettanto (cfr Gv 13,34-35; Lc 12,37).
La spiritualità del servizio è una spiritualità di tutta la Chiesa, in quanto tutta la Chiesa, ad immagine di Maria, è la "serva del Signore" (Lc 1,38), a servizio della salvezza del mondo. Proprio perché tutta la Chiesa possa meglio vivere questa spiritualità di servizio, il Signore le dona un segno vivente e personale del suo stesso essere servo. Perciò, in modo specifico, essa è la spiritualità del diacono. Egli, infatti, con la sacra ordinazione, è costituito nella Chiesa icona vivente di Cristo servo. Il Leitmotiv della sua vita spirituale sarà dunque il servizio; la sua santità consisterà nel farsi servitore generoso e fedele di Dio e degli uomini, specie dei più poveri e sofferenti; il suo impegno ascetico sarà volto ad acquisire quelle virtù che sono richieste dall'esercizio del suo ministero».

«Ecco il mio servo»
Nello specificare meglio questo cammino di vita spirituale il documento fa riferimento alla figure del Servo di JHWH, in particolare del primo carme di Isaia, come stile di vita nell'annuncio del vangelo: «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni. Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta; proclamerà il diritto con verità. […] Io, il Signore, […] ti ho formato […] perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre» (Is 42,1 ss).
Nel quarto carme, poi, viene descritto con tutti i particolari come il Servo porterà a compimento la sua missione: «Chi avrebbe creduto al nostro annuncio? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore? È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti. Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca» (Is 53,1-7).
San Paolo, infine, ci descrive questo particolare modo di essere del Figlio di Dio, manifestando così, in Lui, il modo stesso dell'essere di Dio, della Trinità: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall'aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,5-8).
Gesù diventa così il modello per ognuno di noi. Cos'è allora questo "svuotarsi"? Cosa vuol dire per noi e in che modo è il nostro modello? Sappiamo: «il Figlio dell'uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (cf. Mt 20,28). Ha dato la sua vita… non solo fisica: ha dato tutto se stesso, cioè la sua Vita divina, la sua unione col Padre. Leggiamo in Matteo: «A mezzogiorno si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio. Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: «Elì, Elì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,45-46).

La sofferenza di Dio
«Gesù - scrive Chiara Lubich ne Il Grido -, dopo aver dato il proprio sangue, la propria morte naturale, dà anche (non "dopo" nel senso del tempo, ma come valore) la propria morte spirituale, la propria morte divina, e dà Dio. Si svuota anche di Dio. […] Abbandono reale per l'umanità di Gesù, perché Dio lo lascia nel suo stato senza intervenire. Abbandono irreale per la sua divinità, perché Gesù, essendo Dio, è uno col Padre e con lo Spirito Santo e non può dividersi; semmai può distinguersi. Ma questo non è più dolore, ma amore. La sofferenza - scrive J. Maritain - "esiste in Dio in modo infinitamente più vero di quanto esista la sofferenza in noi, ma senza alcuna imperfezione, poiché in Dio essa fa assoluta unità con l'amore"».

L'iniquità di noi tutti
Giovanni Paolo II, nella Salvifici Doloris (n. 18), scrive: «Quando Cristo dice: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?", le sue parole non sono solo espressione di quell'abbandono che più volte si faceva sentire nell'Antico Testamento, specialmente nei Salmi e, in particolare, in quel Salmo 22 (21), dal quale provengono le parole citate. Si può dire che queste parole sull'abbandono nascono sul piano dell'inseparabile unione del Figlio col Padre, e nascono perché il Padre "fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti" (Is 53,6) e sulla traccia di ciò che dirà San Paolo: "Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore" (2Cor 5,2). Insieme con questo orribile peso, misurando "l'intero" male di voltare le spalle a Dio, contenuto nel peccato, Cristo, mediante la divina profondità dell'unione filiale col Padre, percepisce in modo umanamente inesprimibile questa sofferenza che è il distacco, la ripulsa del Padre, la rottura con Dio. Ma proprio mediante tale sofferenza egli compie la Redenzione, e può dire spirando: "Tutto è compiuto"(Gv 19,30)».
E nella Novo millennio ineunte (n. 26): «Il grido di Gesù sulla croce non tradisce l'angoscia di un disperato, ma la preghiera del Figlio che offre la sua vita al Padre nell'amore, per la salvezza di tutti. Mentre si identifica col nostro peccato, "abbandonato" dal Padre, egli si "abbandona" nelle mani del Padre. I suoi occhi restano fissi sul Padre. Proprio per la conoscenza e l'esperienza che solo lui ha di Dio, anche in questo momento di oscurità egli vede limpidamente la gravità del peccato e soffre per esso. Solo lui, che vede il Padre e ne gioisce pienamente, misura fino in fondo che cosa significhi resistere col peccato al suo amore. Prima ancora, e ben più che nel corpo, la sua passione è sofferenza atroce dell'anima».

Nella notte di Dio
Chiara Lubich, nel suo intervento al Congresso internazionale della Fondazione svizzera per la famiglia, il 16 maggio 1996, a Lucerna (Svizzera), ebbe a dire, riferendosi al grido di abbandono di Gesù: «In quel perché, rimasto per lui senza risposta, trova risposta ogni grido dell'uomo. E allora, non è simile a lui l'angosciato, il solo, il fallito, il condannato? Non è immagine di lui ogni divisione familiare, tra gruppi, tra popoli? Non è figura di Gesù abbandonato chi perde, per così dire, il senso di Dio e del suo disegno sull'uomo, chi non crede più all'amore e ne accetta qualsiasi surrogato? Non c'è tragedia umana o fallimento familiare che non sia contenuto nella notte dell'Uomo-Dio. Con quella morte Gesù ha già pagato tutto; ha firmato una cambiale in bianco, capace di contenere il dolore e il peccato dell'umanità che è stata, che è, che sarà. In quella terribile esperienza, quasi chicco divino di grano che marcisce e muore per ridarci la vita, egli ci svela anche la verità dell'amore più grande: essere capaci di dare tutto di sé, di farsi nulla per gli altri.

Come trovare il senso del non-senso?
Attraverso quel vuoto, quel nulla, è rifluita la grazia, la vita, da Dio all'uomo. Cristo ha rifatto unità tra Dio e il creato, ha ricomposto il disegno originario di Dio, ha fatto uomini nuovi. […] Se guardiamo con occhio solamente umano la sofferenza, i casi sono due: o finiamo in una analisi senza via d'uscita, perché dolore e amore fanno parte del mistero della vita umana; oppure cerchiamo di rimuovere quello scomodo ingombro, che è la sofferenza, fuggendo in altre direzioni. Ma se crediamo che dietro la trama dell'esistenza c'è Dio col suo amore, e se, forti di questa fede, scorgiamo nelle piccole e grandi sofferenze quotidiane, nostre e altrui, un'ombra del dolore di Cristo crocifisso e abbandonato, una partecipazione al dolore che ha redento il mondo, è possibile comprendere significato e prospettiva anche delle situazioni più assurde. Davanti a qualsiasi sofferenza grande o piccola, davanti alle contraddizioni ed ai problemi insoluti, Gesù ci invita a entrare in noi stessi e a guardare in faccia l'assurdità, l'ingiustizia, il dolore innocente, l'umiliazione, l'alienazione, la disperazione... Vi riconosceremo uno dei tanti volti dell'Uomo dei dolori. È l'incontro con lui, che da Persona divina si è fatto individuo senza rapporti; con lui, il Dio dell'uomo contemporaneo, che tramuta il nulla in essere, il dolore in amore. Sarà il nostro "sì", il nostro gesto d'amore e d'accoglienza a lui, che sgretolerà i nostri individualismi, facendoci uomini nuovi capaci di risanare e rivitalizzare con l'amore le situazioni più disperate».
Gesù nel suo grido di abbandono si mostra come la "chiave" del nostro "essere per gli altri", che è il nostro cammino di santità. Questo dono, accolto nella fede, diventa via all'unione con Dio e diventa cammino che ci porta a partecipare della vita stessa di Dio, in Gesù. Ora, per accogliere in sé bisogna essere il "nulla", come Gesù nel suo abbandono. E sul nulla tutti possono scrivere... Questo è il modo genuino di accostarci agli altri, il segreto della nostra carità: essere "nulla" di fronte ad ogni prossimo per stringere a sé in lui Gesù che ha detto: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25,40). E come scrive san Paolo: «Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti per salvare ad ogni costo qualcuno» (1Cor 9,22).

La kenosi del Figlio
È seguire Gesù, che ci ha indicato la strada quando si è fatto uno di noi. Scrive san Fulgenzio di Ruspe: «nel mistero dell'Incarnazione del Signore, […] il Figlio di Dio "pur essendo di natura divina, spogliò se stesso assumendo la condizione di servi", cioè "si umiliò facendosi obbediente fino alla morte" (Fil 2,6-8) e si abbassò rendendosi "inferiore agli angeli" (Eb 2,7), senza perdere tuttavia l'uguaglianza della divinità con il Padre… Il Figlio, pur restando uguale al Padre, si è reso inferiore, perché si degnò di diventare simile all'uomo. Egli poi si rese inferiore, quando spogliò se stesso prendendo la condizione di servo.
L'umiliazione di Cristo dunque è il suo stesso annientamento; e tuttavia il suo annientamento null'altro è se non il rivestirsi della condizione di servo. Cristo dunque, pur rimando Dio, Unigenito di Dio, al quale offriamo sacrifici come al Padre, diventando servo si è fatto sacerdote e così per mezzo suo possiamo offrire una vittima viva, santa, gradita a Dio. Tuttavia Cristo non avrebbe potuto essere offerto da noi come vittima, se non fosse diventato vittima per noi. In lui la nostra stessa natura umana è vera vittima di salvezza». Come Gesù, nel suo farsi uno di noi, non perde il suo essere Dio, così noi, perché amiamo (con quell'amore che tutto dà) noi raggiungiamo la pienezza del nostro essere, la nostra vera identità; realizziamo il disegno di Dio su di noi, la nostra santità. Seguire Gesù così, in questo modo, diventa il nostro modo di "essere per gli altri", portando quei frutti che possono generare la vita nella comunità e far sì che la nostra diaconia possa essere presenza della diaconia di Cristo.

Per ascoltare il soffio di una voce
Ora si può entrare nell'altro in vari modi: spingendovisi come uno grande volesse entrare per una porta piccola... E fa così colui che non sa abbassarsi al suo interlocutore e non sa ascoltare fino in fondo il prossimo morendo del tutto in lui, volendo dare risposte raccolte via via nella propria testa che possono essere anche ispirate ma non sono quel soffio di Spirito Santo che darà la vita al fratello.
Vi è chi, invece, amante appassionato di Gesù nel suo "farsi vuoto", più volentieri muore ed ascolta il fratello fino in fondo non preoccupandosi della risposta; risposta che alla fine darà mosso dallo Spirito Santo, magari con parole semplici, spontanee, come una medicina appropriata per quell'anima.
Nelle Norme, citate all'inizio, abbiamo letto: «Il Leitmotiv della vita spirituale [del diacono] sarà dunque il servizio; la sua santità consisterà nel farsi servitore generoso e fedele di Dio e degli uomini, specie dei più poveri e sofferenti; il suo impegno ascetico sarà volto ad acquisire quelle virtù che sono richieste dall'esercizio del suo ministero». La nostra santità, dunque, il nostro personale rapporto con il Signore, si realizzerà attraverso questa strada, nell'amore al fratello nel quale vediamo realmente il volto di Cristo, e di Cristo sofferente, cercando di acquisire quelle virtù che sono tipiche di chi "ama Dio, che non vede, nel fratello che vede". E questo "farsi nulla" esige umiltà, povertà di spirito e tutte quelle virtù che ci rendono dono per gli altri.
Questa è la nostra santità. Questa è la strada per acquisire quelle "virtù che sono richieste dall'esercizio del nostro ministero", quell'«avere gli stessi sentimenti di Cristo, che svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo» (Fil 2,5.7).


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