Santità e parresía nel ministero diaconale


Il diaconato in Italia n° 214
(gennaio/febbraio 2019)

SPIRITUALITÀ


Santità e parresía nel ministero diaconale
di Andrea Spinelli

Comincia con un'affermazione diretta: fra santità e parresía non c'è opposizione, anzi c'è uno stretto rapporto, che possiamo confermare con due esortazioni di Gesù stesso. «Siate perfetti (misericordiosi) come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48; Lc 6,36). «Il vostro parlare sia sì, sì; no, no, il resto viene dal maligno» (Mt 5,37). L'invito alla perfezione, ossia alla santità, va di pari passo con la parresía, ossia la franchezza di parola, la sincerità assoluta accompagnata dalla misericordia.
Mi spiego: non tutto quello che diciamo, può essere definito parresía, perché sempre Gesù ci mette in guardia dal maligno, che è menzognero per natura e vuole farci cadere nella trappola della menzogna, certamente camuffata da diritto di giustizia, per di più corporativa. La chiamata alla santità è universale, tutti siamo incamminati su tale strada, come ci ricorda l'Apostolo: «Questa è la volontà di Dio: la vostra santificazione» (1Ts 4,3). Siamo santi perché battezzati, perché figli di Dio, ma tale condizione oggettiva deve tradursi nella realtà, nella concretezza, nella soggettività di ciascuno: diventare santi! Papa Francesco ci invita a non spaventarci di fronte a simile traguardo, poiché la santità si nutre soprattutto della quotidianità, dei pensieri, delle parole e delle azioni di ogni giorno. Le occasioni, meglio i doveri e le relazioni quotidiane non possono e non devono essere minimizzate, quasi fossero un ostacolo alla santità, infatti sono l'humus della santità, il terreno primario e fecondo, nel quale con fiducioso abbandono deporre i semi della santità e coltivarli nella semplicità, "godendo ed esultando".
Ciò vale per tutti, quindi anche per il diacono! Perché dovrebbe essere altrimenti? La famiglia, il lavoro, le amicizie, la comunità: ecco gli ambiti privilegiati, dove il ministero diaconale si esplica come "custode del servizio". Un capovolgi mento di prospettiva rispetto al sentire comune, il cosiddetto buon senso, che sembra suggerire una logica di giusto diritto: dare a ciascuno il suo! Gesù è stato, anzi è esplicito quando agli apostoli, presi dalla discussione su chi di loro poteva essere considerato il più grande, dichiara: «I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,25-27).
Allora, mi pare di sentire qualcuno obbiettare, bisogna tacere? Tacere come sotto i regimi totalitari, se si vuoi salvarsi, per paura più che per convinzione? No, la paura del servo blocca e non realizza certo, ma il servitore per amore non sperimenta la paura e nella gioia del servizio realizza se stesso, mentre serve Dio nelle sorelle e nei fratelli. La parresía esige il primato della verità, ma la verità non si identifica con il dire tutto a tutti senza ritegno, senza prima fare un esame di coscienza personale, senza mettere sulla bilancia ciò che si può e ciò che non si può dire, ciò che si deve e ciò che non si deve.
La parresía non deve concedere un potere illimitato alla lingua, piccolo membro del nostro corpo, ma che, al dire dell'Apostolo Giacomo, può suscitare grandi e gravi incendi. Dalla bocca di ognuno, ancor più dalla bocca del diacono non devono uscire parole rozze e offensive, per nessuno, nemmeno per chi sembra meritarsele, poiché non spetta a noi il giudizio insindacabile. «Se uno non manca nel parlare, è un uomo perfetto, capace di tenere a freno tutto il corpo» (Gc 3,2). C'è un detto popolare, che maldestramente afferma: «Quando le parole sono dette, sono dette e basta! Il problema però è a monte, ossia prima di dire parole inopportune è bene pensarci seriamente e l'abitudine a tale autocontrollo produrrà senza dubbio la virtù necessaria: solo parole belle, buone, positive, utili a guarire e a non ferire, con il risultato (bisogna farne l'esperienza) di sperimentare una vera dolcezza di sentimenti, preziosi più per chi li prova ancora prima che per coloro a cui sono diretti».
Mentre rifletto su tale argomento, come ambrosiano il mio pensiero corre subito al diacono Arialdo, santo della Chiesa milanese, vissuto nell'XI secolo. Così lontano nel tempo? Dirà qualcuno. Lontano e vicino contemporaneamente: sono passati tanti secoli, è vero, ma la temperie umana e spirituale della società e della Chiesa di allora non molto differiva da quella di oggi. Molti conflitti esasperavano gli animi e portavano molti a lottare con la parola e con l'azione contro i "nemici" e la Chiesa ambrosiana era in gran fermento in tutti i suoi membri. Non così Arialdo, uomo colto e santo, che non cedette al richiamo della violenza, soccombendo alla stessa come mite agnello sacrificato. IL beato Andrea da Strumi, monaco vallombrosano e biografo del santo, così afferma: «Come Arialdo ogni giorno procurava con ogni mezzo di difendere ed esaltare la causa di Cristo, così Cristo stesso faceva continuamente progredire Arialdo di virtù in virtù. Infatti non mi ricordo di aver mai visto alcun altro così capace di pregare. Se mi accingo a parlare di questa qualità, è perché spero che essa risulti gradita e di giovamento a coloro che amano Dio. Infatti dalle sue labbra sentivo proferire, come invocazione, così numerosi nomi di santi, e non solo una volta al giorno, ma anche due o tre volte, senza che li avessi mai visti scritti su qualche libro né avessi sentito che qualcun altro glieli suggerisse».
«Benché possedesse una buona cultura teologica e letteraria, tanto che a stento si riusciva a trovar qualcuno che gli fosse pari, tuttavia non confidava troppo nella sua scienza, come se fosse del tutto ignorante. Ma quando doveva dibattere in pubblico con qualcuno su argomenti di fede, prima che si tenesse il confronto, si dava da fare, da solo o grazie ai suoi confratelli inviati in ogni parte all'intorno, per trovare reliquie di santi: infatti ne desiderava ardentemente il patrocinio, perché in essi aveva riposto ogni speranza. E così ogni giorno, circondato dalla schiera dei suoi confratelli, si recava a visitare i corpi dei santi, e davanti alle loro reliquie elevava a Dio, fra i gemiti, la sua preghiera».
Nel cammino della santità la compagnia, l'esempio e non di meno l'intercessione dei santi sono necessarie. Conoscere e venerare i santi, la loro vita, il loro impegno quotidiano di santificazione nell'umiltà, stimando gli altri superiori a se stessi, non offusca la conoscenza ai Gesù Cristo, al quale soltanto si deve adorazione. Anzi come si dice "A Gesù per mezzo di Maria", così si può dire a Gesù per mezzo dei santi, poiché essi ci sono di esempio nell'imitazione di Cristo e la loro intercessione ci è grandemente di aiuto, poiché sono i nostri veri amici nel cammino di conoscenza e di amore per Gesù, il Santo per eccellenza.
Se in passato l'agiografia forse ha esagerato nel raccontare la vita dei santi, quasi avessero solo virtù e non umani difetti, in buona fede si intende, oggi abbiamo a disposizione testi meritevoli di lettura accurata, perché documentati rigorosamente e capaci di far emergere la vera umanità del santo o della santa in questione. Venerare i santi, ricorrere a loro per capire sempre meglio i passi da fare ogni giorno, non solo non è tempo perso o distolto all'adorazione del Padre in spirito e verità (Gv 4,24), ma è una possibilità umana, accessibile a tutti, "una scorciatoia" nel senso più bello e positivo del termine.


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