XXX Domenica del Tempo Ordinario (C)
Letture Patristiche

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Letture Patristiche della Domenica
Le letture patristiche sono tratte dal CD-Rom "La Bibbia e i Padri della Chiesa", Ed. Messaggero - Padova, distribuito da Unitelm, 1995.


ANNO C - XXX Domenica del Tempo Ordinario

DOMENICA «DEL FARISEO E DEL PUBBLICANO»

Siracide 35,15-17.20-22 • Salmo 33 • 2 Timoteo 4,6-8.16-18 • Luca 18,9-14
(Visualizza i brani delle Letture)


1. Sii umile e avrai sciolto i legami del peccato (Giovanni Crisostomo, La penitenza, Om. 2,4-5.)
2. L'umiltà ottiene il perdono (Agostino, Sermo 115, 2)
3. Pensa a te stesso (Basilio di Cesarea, Hom. «Attende tibi ipsi», 5)
4. Dio non preferisce il peccatore a chi non ha peccato (Origene, Contra Celsum, 3, 64)


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1. Sii umile e avrai sciolto i legami del peccato

Ho descritto molte forme di penitenza per renderti facile l'accesso alla salvezza attraverso la varietà delle vie. Qual è dunque la terza via? L'umiltà: sii umile e avrai sciolto i legami del peccato. Anche di questo ci porta una prova la Scrittura nel racconto del pubblicano e del fariseo.
Salirono al tempio, dice, un fariseo e un pubblicano per pregare e il fariseo cominciò a elencare le sue virtù, lo non sono, disse, peccatore come gli altri, né come questo pubblicano. Misera e infelice anima: hai condannato tutto il mondo, perché hai contristato anche il tuo prossimo? Non ti bastava tutto il mondo senza voler condannare anche quel pubblicano?
E che fece il pubblicano? Adorò a capo chino con gli occhi fissi in terra, dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore», (Lc 18,13) e poiché si mostrò umile fu giustificato.
Quando dunque il fariseo uscì dal tempio aveva perduto la sua giustizia, il pubblicano invece l'aveva ottenuta: le sue parole furono più forti delle opere. Quello, nonostante le sue opere, perse la giustizia; questo invece con parole di umiltà la conquistò, benché la sua non fosse propriamente umiltà. Infatti è umiltà quando uno che è grande si fa piccolo; l'atteggiamento del pubblicano non fu umiltà, ma verità: erano! vere quelle parole, perché egli era peccatore.
Chi peggiore di un pubblicano? Cercava il suo vantaggio nelle disgrazie del prossimo, approfittava delle fatiche altrui e senza rispetto per le loro pene giungeva a procurarsi il guadagno. È dunque grandissimo il peccato del pubblicano. Perciò se il pubblicano, pur essendo peccatore, dando prova di umiltà ha ricevuto così gran dono, quanto maggiore potrà riceverlo chi sia virtuoso e umile? Se riconosci i tuoi peccati e sei umile, diventi giusto.
Desideri conoscere chi sia veramente umile? Guarda Paolo, Maestro delle nazioni, predicatore ricolmo dello Spirito, vaso d'elezione, porto tranquillo, che nonostante un fisico modesto girò tutto il mondo e lo percorse quasi avesse le ali: guarda con quanta umiltà e modestia egli si definisce inesperto e amante della sapienza, indigente e ricco.
Era umile quando diceva: «io sono l'infimo degli apostoli, e non sonò degno neppure di essere chiamato apostolo» (1COR 15,9): questa è la vera umiltà, abbassarsi in tutto e chiamarsi il più piccolo. Pensa chi era colui che pronunciava queste parole: Paolo, concittadino del cielo sebbene ancora rivestito del corpo, colonna della Chiesa, uomo celeste.
È tale infatti la potenza della virtù da trasformare l'uomo in angelo e far sì che l'anima, quasi avesse le ali, si protenda verso il cielo. Questa virtù c'insegni Paolo. Di questa virtù sforziamoci di diventare imitatori.

(Giovanni Crisostomo, La penitenza, Om. 2,4-5.)

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2. L'umiltà ottiene il perdono

Poiché la fede non è dei superbi, ma degli umili, "disse per alcuni che credevano di essere giusti e disprezzavano gli altri, questa parabola. Due uomini andarono al tempio a pregare; un fariseo e un pubblicano. Il fariseo diceva: Ti ringrazio, Dio, che non sono come tutti gli altri uomini" (Lc 18,9s). Avesse detto almeno: come molti uomini. Che cosa dice questo "tutti gli altri", se non tutti, eccetto lui? Io, afferma, sono giusto; gli altri son tutti peccatori. "Non sono come tutti gli altri uomini, ingiusti, ladri, adulteri". Ed eccoti dalla vicinanza del pubblicano un motivo di orgogliosa esaltazione.
Dice, infatti: "Come questo pubblicano". Io sono solo, dice; questo è uno come tutti gli altri. Non sono come costui, per la mia giustizia, per cui non posso essere un cattivo, io. "Digiuno due volte la settimana, pago le decime su tutte le mie cose". Cerca nelle sue parole, che cosa abbia chiesto. Non trovi niente. Andò per pregare; ma non pregò Dio, lodò se stesso. Non gli bastò non pregare, lodò se stesso; e poi insultò quello che pregava davvero.
"Il pubblicano se ne stava invece lontano"; ma si avvicinava a Dio. Il suo rimorso lo allontanava, ma la pietà lo avvicinava. "Il pubblicano se ne stava lontano; ma il Signore lo aspettava da vicino. Il Signore sta in alto", ma guarda gli umili. Gli alti, come il fariseo, li guarda da lontano; li guarda da lontano, ma non li perdona. Senti meglio l'umiltà del pubblicano. Non gli basta di tenersi lontano; "neanche alzava gli occhi al cielo".
Per essere guardato, non guardava. Non osava alzare gli occhi; il rimorso lo abbassava, la speranza lo sollevava. Senti ancora: "Si percoteva il petto". Voleva espiare il peccato, perciò il Signore lo perdonava: "Si percuoteva il petto, dicendo: Signore, abbi compassione di me peccatore". Questa è preghiera. Che meraviglia che Dio lo perdoni, quando lui si riconosce peccatore? Hai sentito il contrasto tra il fariseo e il pubblicano, senti ora la sentenza; hai sentito il superbo accusatore, il reo umile, eccoti il giudice. "In verità vi dico". È la Verità, Dio, il Giudice che parla. "In verità vi dico, quel pubblicano uscì dal tempio giustificato a differenza di quel fariseo". Dicci, Signore, il perché. Chiedi il perché? Eccotelo. "Perché chi si esalta, sarà umiliato, e chi si umilia, sarà esaltato". Hai sentito la sentenza, guardati dal motivo; hai sentito la sentenza, guardati dalla superbia.

(Agostino, Sermo 115, 2)

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3. Pensa a te stesso

Mi verrebbe meno il giorno, se volessi elencare gli studi di quelli che s'interessano del Vangelo e quanto esso si adatti a tutti. Pensa a te stesso; sii sobrio, ascolta i consigli, controlla il presente, prevedi il futuro. Non trascurare, per indolenza, il presente e non t'illudere d'aver già in mano cose future, che ancora non sono e forse non si avvereranno mai. Non è questa la malattia propria dei giovani, che per leggerezza di mente credono di avere già le cose che sperano?
Infatti in un momento di riposo o nella pace della notte costruiscono delle immagini di cose inesistenti e si ripromettono splendore di vita, illustri matrimoni, figli fortunati, lunga vecchiaia, tributi di onore. Poi, incapaci come sono di fermarsi a una qualsiasi speranza si lasciano trasportare dall'ardore del loro animo alle cose più grandi della terra. Comprano case belle e grandi e le riempiono di preziosa e vaga suppellettile; e aggiungono tutto quanto è fuori del mondo. Aggiungono greggi, folle di servi, magistrature civili, principati, comandi militari, guerre, trofei, regno. Passate queste cose in rassegna, per eccesso di stoltezza, credono presenti queste cose sperate e se le vedono già innanzi ai piedi.
È la malattia dell'ignavo, veder nella veglia gli oggetti d'un sogno. Per reprimere questa sfrenatezza di mente, la Scrittura enunzia il sapiente precetto: "Pensa a te stesso" e non promette mai ciò che non esiste e dirige le cose presenti alla tua utilità. Penso che il legislatore si sia servito di questo monito, per eliminare un tal vizio dalle abitudini degli uomini. Perché a noi è più facile curiosare nelle cose altrui, che pesare le proprie cose. Perciò finiscila di andare a scovare nei mali altrui, guardati dal frugare nelle malattie altrui, volgi gli occhi e scruta te stesso. Non son pochi coloro che, secondo la parola del Signore (Mt 7,3), vedono la pagliuzza nell'occhio del fratello e non s'accorgono della trave che è nel loro occhio.
Non cessar mai di esaminarti se la tua vita si attiene al precetto; ciò che è intorno a te, non lo guardare, perché non ti si presenti l'occasione di imitare quel fariseo, che giustificava se stesso e disprezzava il pubblicano (Lc 18,11). Chiediti sempre se hai peccato in pensieri, se la lingua sia stata troppo facile, se la mano sia stata temeraria. E se troverai che hai peccato molto (e lo troverai, perché sei uomo), usa le parole del pubblicano: "Dio, abbi pietà di me peccatore" (Lc 18,13).
Bada a te stesso. Questa parola ti starà bene nel felice successo, quando la tua nave è portata dalla corrente, e ti gioverà nei momenti difficili, in modo che non diventi orgoglioso nel fasto e non disperi nell'avversità. Ti senti grande perché sei ricco? T'inorgoglisci per la nobiltà dei tuoi antenati? Ti glorii della tua nazione, bellezza, onori ricevuti? Pensa a te stesso: Sei mortale; vieni dalla terra e tornerai nella terra (Gen 3,19).

(Basilio di Cesarea, Hom. «Attende tibi ipsi», 5)

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4. Dio non preferisce il peccatore a chi non ha peccato

Dato che egli aggiunge: «Perché dunque questa preferenza accordata ai peccatori?» e cita opinioni analoghe, per rispondere dirò: il peccatore non è assolutamente preferito a chi non ha peccato.
Capita che un peccatore che ha preso coscienza della sua colpa, e per tal motivo progredisce sulla via della conversione umiliandosi per i suoi peccati, venga preferito ad un altro che si riguarda come meno peccatore, e che, lungi dal credersi peccatore, si gonfia di orgoglio per certe qualità superiori che crede di possedere. E' quel che rivela a chi legge lealmente il vangelo la parabola del pubblicano che dice: "Abbi pietà di me peccatore", mentre il fariseo, con sufficienza perversa, si gloriava dicendo: "Ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri, e neppure come quel pubblicano".
Gesù, infatti, conclude il suo discorso sui due uomini: "Il pubblicano scese a casa sua giustificato, al contrario dell'altro, poiché chi si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato" (Lc 18,13; 1,14).
Siamo ben lontani, perciò, «dal bestemmiare Dio e dal mentire», insegnando ad ogni uomo, chiunque esso sia, a prendere coscienza della propria umana piccolezza in rapporto alla grandezza di Dio, e a chiedere incessantemente ciò che manca alla nostra natura a colui che solo può colmare le nostre insufficienze.

(Origene, Contra Celsum, 3, 64)




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