Letture Patristiche della Domenica
Le letture patristiche sono tratte dal CD-Rom "La Bibbia e i Padri della Chiesa", Ed. Messaggero - Padova, distribuito da Unitelm, 1995.
ANNO C - VII Domenica del Tempo Ordinario
DOMENICA DEL«SIATE MISERICORDIOSI»
1 Samuele 26,2.7-9.12-13.22-23 • Salmo 102 • 1 Corinzi 15,45-49 • Luca 6,27-38
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1. Amare i nemici (Ambrogio, In Luc., 6,73-77)
2. La liberazione operata dal Verbo (Ireneo di Lione, Adv. haer., 4,13,2-3)
3. Non giudicare (Giovanni Crisostomo, In Matth., 23, 1 s.)
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1. Amare i nemici
La carità ci viene ordinata, quando ci viene detto: "Amate i vostri nemici" (Lc 6,27), e così si realizza quella parola della Chiesa di cui abbiamo parlato prima: "Ordinate in me la carità" (Ct 2,4), poiché la carità viene ordinata quando sono formulati i precetti della carità stessa. Osserva come si cominci dalle cose più elevate, e si volga le spalle alla legge dopo le beatitudini.
La legge comanda il ricorso alla vendetta (cf. Es 21,23-26); il Vangelo richiede per i nemici carità, bontà per l'odio, benedizioni per le maledizioni, invita a dare soccorso a chi ci perseguita, diffonde la pazienza tra gli affamati e la grazia della rimunerazione. Quanto è più perfetto di un atleta colui che non si risente per l'offesa.
E, per non apparire come il distruttore della legge, il Signore ordina per le buone azioni la reciprocità che invece proibisce per le offese. Tuttavia, dicendo: "E come volete che gli uomini facciano a voi, cosi fate voi a loro" (Lc 6,31), mostra che il bene reso è maggiore, in quanto il valore dell'altro è adeguato alle intenzioni.
Il cristiano si è formato a questa buona scuola e, non soddisfatto del diritto della natura, ne cerca anche la grazia. Se tutti anche i peccatori, sono d'accordo nel ricambiare l'affetto, colui che ha convinzioni più elevate deve applicarsi con maggiore generosità all'esercizio della carità, al punto da amare anche coloro che non lo amano. Infatti, benché l'assenza di ogni titolo a essere amati escluda l'esercizio dell'amore, non tuttavia esclude l'esercizio della virtù. E come tu ti vergogneresti di non ricambiare l'amore a uno che ti ama, e per ricambiare il bene ricevuto ti metti ad amare, così per virtù devi amare chi non ama, affinché, amando, per virtù, tu incominci ad amare chi non amavi. Poiché, mentre è futile e vuota la ricompensa dell'affetto, duratura è la ricompensa della virtù.
Cosa c'è di più ammirevole che porgere l'altra guancia a chi ti colpisce? Questo, non significa spezzare l'impeto dell'uomo adirato e calmare la sua collera? Non puoi tu giungere forse, per mezzo della pazienza, a colpire più forte colui che ha colpito te, suscitando in lui il rimorso? Così tu respingerai l'offesa e otterrai l'affetto. Spesso grandi amicizie nascono per la dimenticanza d'una insolenza, o per un favore fatto in risposta ad una ingiuria.
Ed ecco che le parole dell'Apostolo: "La carità è paziente, benigna, non è invidiosa, non si gonfia d'orgoglio" (1Cor 13,4), appaiono perfette in questi precetti. Se essa è paziente, deve sopportare chi offende; se è benigna, non deve rispondere a chi maledice; se non cerca il bene per sé, non deve resistere a chi toglie; se non è invidiosa, non deve odiare il nemico. E tuttavia i precetti della carità divina vanno oltre quelli dell'Apostolo; dare è più che cedere, amare i nemici è ben più che non essere invidiosi. Tutto questo il Signore lo ha detto e fatto, egli che, oltraggiato, non ha restituito l'oltraggio; schiaffeggiato, non ha restituito gli schiaffi; spogliato, non ha opposto resistenza; crocifisso, ha chiesto perdono per gli stessi suoi persecutori, dicendo: "Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno" (Lc 23,34), scusava del loro crimine i suoi accusatori: quelli preparavano la croce, ed egli diffondeva grazia e salvezza.
(Ambrogio, In Luc., 6, 73-77)
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2. La liberazione operata dal Verbo
La Legge, perché imposta agli schiavi, educava l'anima attraverso cose esteriori e corporali, conducendola quasi a catena verso la sottomissione ai comandamenti, affinché l'uomo potesse apprendere l'obbedienza a Dio. Il Verbo, però, liberando l'anima, insegnò del pari a purificare il corpo per suo tramite, in modo volontario. Fatto questo, si rese necessario sopprimere le catene del servaggio, alle quali ormai l'uomo era avvezzo, per seguire Dio senza catene, con la contemporanea amplificazione dei precetti della libertà e l'accresciuta sottomissione al Re, affinché nessuno, volgendosi indietro, si mostri indegno del suo Liberatore: infatti, se la pietà e l'obbedienza nei riguardi del padrone di casa sono le stesse per gli schiavi e per gli uomini liberi, questi ultimi ne traggono peraltro una maggiore sicurezza, perché il servizio della libertà è più grande e più glorioso della docilità nel servaggio.
Per questo il Signore ci ha dato come parola d'ordine, al posto di "non commettere adulterio", di "non desiderare neppure" (Mt 5,27-28); al posto di "non uccidere", di "non adirarsi" (Mt 5,21-22); al posto di pagare semplicemente le decime, di distribuire tutti i nostri averi ai poveri (cf. Mt 19,21), di amare non solo i nostri prossimi, ma anche i nemici (cf. Mt 5,43-44); di essere non solo generosi e pronti a condividere (cf. 1Tm 6,18), ma di più, di dare graziosamente i nostri beni a coloro che ce li prendono: "A chi ti sottrae la tunica, tu lascia anche il mantello; a chi ti prende un bene, non reclamarlo; e ciò che volete che gli uomini facciano nei vostri confronti, voi fatelo per loro" (Mt 5,40; Lc 6,30-31): in tal modo, non ci rattristeremo come persone derubate loro malgrado, ma ci rallegreremo al contrario come persone che avranno dato di buon animo, poiché faremo un dono gratuito al prossimo più che una concessione alla necessità.
"E se uno ti costringe a fare un miglio - aggiunge - "tu fanne con lui due" (Mt 5,41), per non seguirlo come uno schiavo, bensì precedendolo come un uomo libero, rendendoti in ogni cosa utile al tuo prossimo, non considerando la sua cattiveria, ma sovrabbondando in bontà alla stregua del Padre "che fa sorgere il suo sole sui giusti e sugli ingiusti e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti" (Mt 5,45).
Tutto ciò, lo abbiamo detto più sopra, non era questione di uno venuto ad abolire la Legge, quanto piuttosto di uno che la compiva e l'amplificava in noi. Come dire che è più grande il servizio della libertà, ed una sottomissione e una pietà più piene si sono radicate in noi nei riguardi del nostro Liberatore. Infatti, egli non ci ha liberati perché ci distaccassimo da lui - nessuno può, se posto fuori dai beni del Signore, procurarsi il nutrimento di salvezza -, ma perché, avendo ricevuto più abbondantemente la sua grazia, noi lo amassimo maggiormente; e, avendolo amato maggiormente, ricevessimo da lui una gloria ancor più grande, quando saremo per sempre alla presenza del Padre.
(Ireneo di Lione, Adv. haer., 4, 13, 2-3)
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3. Non giudicare
Non giudicate, affinché non siate giudicati (Mt 7,1).
Ma come? Non dovremo, dunque, rimproverare chi pecca? Anche Paolo ci vieta di farlo, o meglio ce lo vieta Gesù Cristo per mezzo di Paolo, con queste parole: "Tu poi perché giudichi il tuo fratello? E perché tu disprezzi il tuo fratello?" (Rm 14,10). "E chi sei tu che ti fai giudice del servo di un altro?" (Rm 14,4). E ancora: "Perciò non giudicate di nulla prima del tempo, finché non venga il Signore" (1Cor 4,5). Ma perché, poi, in un'altra circostanza lo stesso Apostolo aggiunge: "Riprendi, correggi, esorta" (2Tm 4,2)? E altrove ripete: "Quelli che peccano, riprendili alla presenza di tutti" (1Tm 5,20). E Cristo dice a Pietro: "Se il fratello tuo ha peccato contro di te, va' e ammoniscilo fra te e lui solo. Se poi non ascolta, prendi con te un'altra persona se neppure così dà ascolto, dillo alla Chiesa" (Mt 18,15-17). Perché Cristo invita tante persone, non soltanto a rimproverare, ma anche a punire coloro che peccano? Egli ordina, infatti, di considerare il peccatore ostinato, che non dà ascolto a nessuno, come il gentile e il pubblicano (cf. Mt 18,17). E perché ha dato anche le chiavi del cielo ai suoi apostoli? Se essi non possono giudicare, non hanno nessuna autorità su alcuno e, perciò, invano hanno ricevuto il potere di legare e di sciogliere. E d'altra parte se ciò prevalesse, la libertà cioè di peccare senza che nessuno ci rimproveri, tutto precipiterebbe in rovina, sia nella Chiesa, come nelle città e nelle famiglie. Se il padrone non giudicasse il suo servo, e la padrona la sua domestica, il padre il proprio figlio e l'amico il suo amico, la malvagità di certo aumenterebbe. E non soltanto l'amico deve giudicare l'amico, ma noi dobbiamo giudicare anche i nemici, poiché non facendolo non potremo mai sciogliere ed eliminare l'inimicizia esistente fra loro e noi, e tutto sarebbe sconvolto.
Qual è dunque il senso preciso di queste parole del Vangelo? Esaminiamole con cura, in modo che nessuno sia tentato di vedere in questo comando, che costituisce un rimedio di salvezza e di pace, uno strumento di sovversione e di turbamento. Soprattutto attraverso le parole che seguono, Cristo dimostra la forza e l'efficacia di questo precetto: «Perché - egli chiede - osservi la pagliuzza che è nell'occhio del tuo fratello e non badi alla trave che è nell'occhio tuo?». Può darsi che questa spiegazione appaia ancora oscura a molti spiriti pigri: io cercherò per questo di chiarirla, prendendo in esame il discorso. Mi sembra dunque che Cristo non vieti in senso assoluto di giudicare qualsiasi peccato, che non neghi questo diritto genericamente a tutti, ma a coloro che, pieni di un'infinità di vizi, condannano insolentemente gli altri per lievi colpe. E a me pare che qui egli voglia riferirsi anche ai Giudei, che erano severi censori delle più piccole colpe del prossimo, mentre essi non si accorgevano di essere colpevoli di peccati ben più gravi. Questa stessa cosa, infatti, Cristo ripete verso la fine del Vangelo, rimproverando i Giudei: "Affastellano carichi gravi e difficili a portarsi, e li impongono sulle spalle degli altri; ma essi non vogliono smuoverli con un dito" (Mt 23,24). E ancora: "Voi pagate la decima della menta, dell'aneto e del comino, e avete tralasciato le cose più gravi della legge: la giustizia, la misericordia, la fedeltà" (Mt 23,23). Contro questi stessi Giudei - mi sembra - Cristo parla ora con forza, reprimendo in anticipo le accuse che essi lanceranno anche contro i suoi discepoli. I farisei, infatti, li accusarono di peccato per delle cose che non erano affatto peccati, come il non osservare il sabato, mangiare senza lavarsi le mani e sedersi alla stessa mensa con i pubblicani; il che fu stigmatizzato altrove: "Col filtro togliete il moscerino e ingoiate il cammello" (Mt 23,24). Ma Cristo stabilisce qui, contro tali giudizi, una legge comune e valida per tutti.
Anche Paolo non vietava ai Corinti di giudicare genericamente, ma proibiva soltanto di giudicare chi era loro preposto e li guidava, e su questioni ancora incerte e non chiare. Non vietava loro di correggere i peccatori. Il divieto che egli formulava non si rivolgeva a tutti indistintamente, ma solo a quei discepoli che osavano giudicare e condannare i loro maestri, e a coloro che, colpevoli di mille colpe, ardivano lanciare accuse atroci contro persone innocenti.
È proprio questo che Gesù Cristo vuol far capire qui: e non soltanto lo fa capire, ma con queste altre parole incute pure un grande timore e minaccia l'inevitabile supplizio: "Poiché con il giudizio con il quale giudicate, sarete giudicati" (Mt 7,2). Non è vostro fratello - egli dice - che voi condannate, ma voi stessi; siete voi che vi preparate un temibile tribunale, davanti al quale dovrete rendere conto rigoroso del vostro comportamento. Come Dio ci perdonerà i nostri peccati nella misura in cui noi avremo perdonato agli altri, così anche ci giudicherà nella misura in cui avremo giudicato gli altri. Non dobbiamo, quindi, né ingiuriare, né insultare coloro che peccano, ma dobbiamo avvertirli. Non bisogna dirne male e diffamarli, ma consigliarli. Dobbiamo correggerli con amore e non insorgere contro di loro con arroganza. Se trattate il vostro prossimo senza rispetto e senza pietà quando dovrete decidere dei suoi errori e determinare le sue colpe, non sarà lui, ma voi a essere condannati all'estremo supplizio.
Vedete come sono lievi questi due comandi di Gesù, e come essi costituiscono in effetti una sorgente di grandi beni per coloro che li praticano e, per conseguenza, di mali per quanti li trascurano? Chi perdona suo fratello, libera se medesimo da ogni accusa, prima ancora che suo fratello, senza che gli costi alcun sacrificio. Chi giudica le colpe degli altri con moderazione e con indulgenza, accumula in tal modo per se stesso un grande tesoro di misericordia. Qualcuno potrebbe dirmi a questo punto: Ma se un uomo cade nella fornicazione, non gli si dovrà dunque dire che la fornicazione è un male e non si dovrà correggerlo con energia per il suo peccato? Correggilo, certo, però, non come se tu fossi un nemico che chiede giustizia, ma comportandoti come un medico che prepara il rimedio per guarire il malato. Cristo non ti disse di non impedire al prossimo di peccare, ma ti ordinò di non giudicare, cioè di non diventare un giudice aspro e severo. Inoltre egli non parla qui, come ho già cercato di chiarire, dei grandi peccati, dei delitti gravissimi, ma di quelle colpe che paiono tali e non lo sono.
Ecco infatti che dice: "Perché osservi la pagliuzza che è nel l'occhio del tuo fratello?" (Mt 7,3). Questa è una colpa in cui cadono tuttora molti uomini. Se vedono che un religioso ha un abito in più, subito gli rinfacciano la regola di povertà che il Signore ha dato; ma non tengono conto che essi rubano a più non posso e ogni giorno accumulano ingiuste ricchezze. E se vedono che prende un po' più di cibo, subito assumono il ruolo dei severi accusatori, essi che passano tutta la loro vita negli eccessi del bere e del mangiare. Non si accorgono che così facendo attirano sul loro capo, oltre a quanto già meritano per i loro delitti, un fuoco ancor più intenso e che, giudicando gli altri in tal modo, privano se stessi di ogni scusa e attenuante.
(Giovanni Crisostomo, In Matth., 23, 1 s.)
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