VIII Domenica del Tempo Ordinario (C)
Letture Patristiche

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Letture Patristiche della Domenica
Le letture patristiche sono tratte dal CD-Rom "La Bibbia e i Padri della Chiesa", Ed. Messaggero - Padova, distribuito da Unitelm, 1995.


ANNO C - VIII Domenica del Tempo Ordinario

DOMENICA DEL«TESORO DEL CUORE»

Siracide 27,4-7 • Salmo 91 • 1 Corinzi 15,54-58 • Luca 6,39-45
(Visualizza i brani delle Letture)


1. Anche i cattivi possono dir cose buone, ma... (Agostino, Sermo Guelferb. 32,10)
2. La reciprocità dell'amore verso il Maestro divino (Clemente di Alessandria, Paedagogus, 1, 3, 9)
3. I frutti dello Spirito (Ambrogio, In Luc., 5,81)
4. A proposito di coloro che hanno mal rinunciato (Giovanni Cassiano, Collationes, 4,20)
5. La Scrittura è il nostro paradiso terrestre (Ambrogio, Epist., 49, 3)
6. Non giudicate (Mt 7,15) (Nerses Snorhalí, Jesus, 426)
7. La Parola di Dio è impegnativa (Socrate lo Scolastico, Hist. Eccles., 4,23)
8. L'uomo semplice e retto, timorato di Dio (Gregorio Magno, dal «Commento al libro di Giobbe»)


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1. Anche i cattivi possono dir cose buone, ma...

Se, dunque, anche i cattivi possono dir cose buone, chiediamo un po' al Cristo, non per contestarlo, ma proprio per imparare da lui: Signore, se i cattivi possono dir cose buone - per cui ci ordinasti: fate quello che dicono, ma non fate quello ch'essi fanno - se possono dir cose buone, com'è che altrove dici: "Ipocriti, non potete dir nulla di buono, perché siete cattivi" (Mt 12,34)?
Riflettete sul problema, perché con l'aiuto del Signore possiate vederne la soluzione. Vi ripeto la domanda. Il Cristo dice: "Fate ciò che dicono, ma non fate ciò che fanno, perché dicono e non fanno". Essi stessi non fanno quello che insegnano. Perciò dobbiamo fare quello che dicono, ma ciò ch'essi fanno, noi non lo dobbiamo fare. Altrove è detto: "Che forse si raccoglie uva dalle spine o fichi da un cespuglio? L'albero lo si riconosce dai suoi frutti" (Mt 7,16). Che dobbiamo fare, allora? Come dobbiamo interpretare queste parole? Ecco qua rovi e spine. Fate. Mi chiedi di raccogliere uva dalle spine: qua comandi, là proibisci, come farò a ubbidire? Senti, cerca di capire. Quando dico: "Fate ciò che dicono, non fate ciò che fanno", devi ricordarti di quella mia parola: "Si son seduti sulla cattedra di Mosè". Quando dicono cose buone, non son loro a dirle, è la cattedra di Mosè che le dice. La cattedra sta per la dottrina, è la dottrina di Mosè che parla; e la dottrina di Mosè sta nella loro memoria, ma non sta nelle loro opere. Quando però son loro a parlare, quando esprimono se stessi, qual è il commento? "Come potete dir cose buone voi, che siete cattivi?". Sentite l'altra similitudine. Non andate a cercar uva tra le spine; perché l'uva non viene sulle spine. Ma non vi siete accorti del tralcio che, crescendo, si spinge nella siepe, si mescola alle spine e lí fiorisce e tira fuori un grappolo? Hai fame, passi e vedi un grappolo tra le spine. Hai fame e vorresti prenderlo: prendilo, allunga la mano con cautela: guardati dalle spine, prendi il frutto. Cosi quando un uomo, sia pur pessimo, ti offre la dottrina di Cristo: ascoltala prendila, non rigettarla. Se lui è cattivo, le spine son sue, se dice cose buone, il grappolo pende tra le spine, non nasce dalle spine. Se hai fame, prendilo, ma guarda le spine. Se ti metti a imitar le sue azioni, stendi incautamente la mano: hai afferrato le spine prima del frutto: ne resti ferito, graffiato: non è il frutto che ti nuoce, esso viene dall'uva, sono le spine, che hanno un'altra radice. Per non sbagliarti, guarda dove prendi il frutto: c'è la vite. C'è un tralcio e vedi che appartiene alla vite, vien dalla vite, ma è capitato tra le spine. Dovrebbe forse la vite trattenere i suoi tralci? Cosi capita alla dottrina di Cristo: cresce, si spande e s'innesta su alberi buoni e su spine cattive e vien poi annunziata da buoni e da cattivi. Ti tocca guardare da dove viene il frutto, da dove nasce ciò che ti alimenta e da dove viene ciò che ti punge; si presentano insieme, ma la radice è diversa.

(Agostino, Sermo Guelferb. 32,10)

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2. La reciprocità dell'amore verso il Maestro divino

È conveniente che noi si pratichi un amore di reciprocità verso chi, per amore, ci guida ad una vita migliore; che noi si viva secondo i dettami della sua volontà, non solo in adempienza di quanto egli ordina di fare o astenendoci da quanto egli vieta, ma fuggendo altresì taluni esempi e imitando il più possibile gli altri; è così che compiremo, per similitudine, le opere del Pedagogo e che si realizzerà appieno la parola: "Ad immagine e somiglianza" (Gen 1,26).
Impegnati in questa vita come in una notte profonda, abbiamo bisogno effettivamente di una guida infallibile e precisa. Ora, la migliore guida non è certo il cieco che, secondo la Scrittura, portato per mano da un altro cieco, conduce al precipizio (cf. Mt 15,14 e parr.); è invece il Logos il cui sguardo penetrante arriva al fondo dei cuori (cf. Ger 17,20; Rm 8,27).
E come non può esistere luce che non illumini, né oggetto in movimento che non si muova, né essere amante che non ami, cosí non può darsi un bene che non sia benefico e non conduca alla salvezza.
Amiamo dunque i precetti del Signore traducendoli nelle azioni: il Logos, facendosi carne (cf. Gv 1,14), ha manifestamente indicato che una stessa virtù concerne ad un tempo la vita pratica e la contemplazione. Sì, assumiamo il Logos come legge; riconosciamo che i suoi precetti e i suoi consigli sono sentieri accorciati e rapidi verso l'eternità: infatti, i suoi comandi sono pieni di forza persuasiva, e non di paura.

(Clemente di Alessandria, Paedagogus, 1, 3, 9)

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3. I frutti dello Spirito

Ecco poi una grande lezione di virtù, che ci insegna a non attendere la fertilità da ciò che è sterile, né aspettare un abbondante raccolto da un terreno non lavorato. A ciascuno la terra dà il frutto per quanto l'ha coltivata: tra le spine di questo mondo non potrai trovare il fico che, eccellendo per il sapore dei suoi frutti, è ben scelto per raffigurare l'immagine della risurrezione. Tu hai letto: "I fichi hanno dato frutti non maturi" (Ct 2,13), cioè i frutti della sinagoga sono apparsi fin da principio immaturi, inutili e caduchi; anche la nostra vita non è matura in questo corpo, lo sarà nella risurrezione.
Per questo dobbiamo tener lontane da noi le sollecitudini terrene, che logorano l'anima e inaridiscono lo spirito, se vogliamo raccogliere i frutti maturi di una diligente coltivazione. Tutto questo non possiamo trovarlo nei campi incolti di questo mondo, poiché "da spini non si colgono fichi, né da rovi si vendemmia l'uva" (Lc 6,44). Il primo detto si riferisce al mondo e alla risurrezione; l'altro, all'anima e al corpo: sia perché nessuno raggiunge con i peccati la maturazione della sua anima, la quale come l'uva, si corrompe se sta vicina alla terra e matura bene se sta in alto; sia perché nessuno può sfuggire alla condanna della carne se non colui che è stato redento da Cristo che come l'uva, fu sospeso al legno.

(Ambrogio, In Luc., 5, 81)

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4. A proposito di coloro che hanno mal rinunciato

Provo ritegno persino a dirlo, ma tanti di coloro che vediamo aver operato rinunce, lo hanno fatto senza mutare nei vizi precedenti sí che hanno cambiato solo l'apparenza e l'abito secolare. Infatti, si sforzano di acquistare quelle ricchezze che prima non possedevano; certamente, poi, non abbandonano quelle che in precedenza avevano.
Oppure, il che è ancora più lugubre, desiderano persino moltiplicarle, con il pretesto che hanno servi e fratelli da mantenere con quelle, come ne avessero un preciso obbligo. O ancora, siccome presumono di diventare abati, si riservano le ricchezze per fondare in seguito una qualche nuova comunità. Tutti costoro, se cercassero davvero la via della perfezione, si sforzerebbero di aderire a questa con tutte le forze, liberandosi non solo dalle ricchezze, ma altresì dagli affetti di un tempo e da tutte le altre distrazioni. Porrebbero se stessi, soli e spogli di tutto, sotto la potestà degli anziani, per non aver alcuna sollecitudine gravosa per gli altri, ma anche per non dover guidare se stessi.
Capita invece che, mentre si affannano ad eccellere sui fratelli, mai si sottomettono agli anziani. Mossi dalla superbia, mentre bramano ammaestrare gli altri, né apprendono per sé, né meritano di fare quelle cose che appartengono a Dio e sono da farsi.
A costoro è opportuno applicare la sentenza del nostro Salvatore, secondo la quale è inevitabile che dei ciechi divenuti guide di altri ciechi, finiscano insieme in un fossato (cf. Mt 15,14).

(Giovanni Cassiano, Collationes, 4,20)

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5. La Scrittura è il nostro paradiso terrestre

Anche ora Dio passeggia nel paradiso, quando leggo la divina Scrittura. Il paradiso è il libro della Genesi, nel quale pullulano le virtù dei Patriarchi. È paradiso il Deuteronomio, in cui germinano i precetti della Legge. È paradiso il Vangelo in cui l'albero della vita fa buoni frutti e diffonde tra tutti i popoli le direttive dell'eterna speranza.

(Ambrogio, Epist., 49, 3)

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6. Non giudicate (Mt 7,15)

La vista mia accorciata dal peccato,
non scorgo più la trave nel mio occhio;
la pagliuzza dell'altro con acume vedo,
così all'ipocrita divenendo affine.

(Nerses Snorhalì, Jesus, 426)

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7. La Parola di Dio è impegnativa

Pambos, essendo un analfabeta, chiese a un tale che gl'insegnasse un Salmo. Ma sentito appena il primo verso del Salmo 38 che dice: «Ho detto: Seguirò la mia via, per essere fedele alla mia parola», se ne andò senza neanche sentire il resto, dicendo che questo verso era sufficiente, purché si fosse impegnato a praticarlo con le opere. Lamentandosi poi colui che gli aveva insegnato il primo verso, che dopo sei mesi non si era fatto più vedere, rispose ch'egli ancora non era riuscito a metterlo veramente in pratica. Poi dopo molti anni, interrogato da un amico se avesse ormai imparato quel verso, disse: Diciannove anni interi a stento bastano per imparare a praticarlo.

(Socrate lo Scolastico, Hist. Eccles., 4,23)

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8. L'uomo semplice e retto, timorato di Dio

C'è un genere di semplicità che meglio sarebbe chiamare ignoranza. Essa consiste nel non sapere neppure che cosa sia rettitudine. Molti abbandonano l'innocenza della vera semplicità, proprio perché non sanno elevarsi alla virtù e all'onestà. Poiché sono privi della vera prudenza che consiste nella vita buona, la loro semplicità non sarà mai sinonimo di innocenza.
Perciò Paolo ammonisce i discepoli: «Voglio che siate saggi nel bene e immuni dal male» (Rm 10,19). E soggiunge: «Non comportatevi da bambini nei giudizi; siate come bambini quanto a malizia» (1Cor 14, 20).
Per questo anche la stessa Verità ingiunge ai discepoli: «Siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (Mt 10, 16). Ha unito necessariamente l'una e l'altra cosa nel suo ammonimento, in modo che l'astuzia del serpente ammaestri la semplicità della colomba, e la semplicità della colomba moderi l'astuzia del serpente.
Per questo lo Spirito Santo ha manifestato la sua presenza agli uomini sotto forma non soltanto di colomba, ma anche di fuoco. Nella colomba viene indicata la semplicità, nel fuoco l'entusiasmo per il bene. Si mostra nella forma di colomba e nel fuoco perché quanti sono ricolmi di lui, praticano una forma tale di mitezza e di semplicità da infiammarsi d'entusiasmo per le cose sante e belle e di odio per il male.
«Uomo integro e retto, temeva Dio ed era alieno dal male» (Gb 1,1). Chiunque tende alla patria eterna vive indubbiamente con semplicità e rettitudine: è semplice cioè nell'operare, retto nella fede; semplice nel bene materiale che compie, retto nei beni spirituali che percepisce nel suo intimo. Vi sono infatti certuni che non sono semplici nel bene che fanno, poiché ricercano in esso non la ricompensa all'interno, ma il plauso all'esterno. Perciò ha detto bene un sapiente: «Guai al peccatore che cammina su due strade!» (Sir 2,12). Ora il peccatore cammina su due strade, quando compie quello che è di Dio, ma desidera e cerca quello che è del mondo.
Bene anche è detto: «Temeva Dio ed era alieno dal male»; perché la santa Chiesa degli eletti intraprende nel timore le strade della sua semplicità e rettitudine, ma le conduce a termine nella carità. Uno si allontana completamente dal male, quando per amore di Dio comincia a non voler più peccare. Se invece fa ancora il bene per timore, non si è del tutto allontanato dal male; e pecca per questo, perché sarebbe disposto a peccare, se lo potesse fare impunemente.
Perciò quando si dice che Giobbe teme Dio, giustamente è detto anche che si teneva lontano dal male, poiché mentre la carità sostituisce il timore, la colpa che viene abbandonata dalla coscienza, viene pure calpestata dal proposito della volontà.

(Gregorio Magno, dal «Commento al libro di Giobbe»)




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