Il diaconato in Italia n° 178
(gennaio/febbraio 2013)
SPIRITUALITÀ
Quale identità diagonale proviene dall'ascolto?
di Giuseppe Bellia
Alla voce «Diaconia»
L'anno della fede è un'occasione per rivisitare, secondo la verità dell'autorivelarsi divino, il senso del servizio diaconale e più esattamente il percorso spirituale della diaconia ordinata. Ma qui sorge una domanda: esiste una spiritualità diaconale? E questa in che cosa si distingue da una spiritualità presbiterale e laicale? In che modo interagiscono e collaborano per i diaconi sposati la spiritualità ministeriale e quella matrimoniale?
Non conosciamo a riguardo riflessioni compiute e visioni sistematiche, anche se in questi anni sono state presentate alcune interessanti proposte, non si ha ancora una solida teologia del servizio a cui attingere per una spiritualità diaconale di respiro ecclesiale. I tentativi fin qui prospettati si legano per lo più alla tipologia biblica del Cristo Servo sviluppandone però aspetti solo parziali che colgono ed enfatizzano elementi carichi di suggestione morale e ministeriale senza giungere ad una robusta visione d'insieme che coinvolga nella diaconia tutto il popolo di Dio, ognuno per la sua parte. Ne è riprova, infatti, la sistematica assenza della categoria biblico-teologica della «diaconia» nei più recenti dizionari di teologia, di morale e di spiritualità. Questa emblematica lacuna della produzione teologica e il perdurante silenzio della letteratura specialistica a riguardo potrebbe essere segno rivelatore di una sensibilità che insegue altri modelli di sequela e di imitazione.
Ritengo tuttavia che per rispondere alla domanda iniziale si deve prima chiarire il valore dei termini usati, perché nel nostro tempo, al di là della rinnovata attenzione e del ritrovato interesse per questi argomenti, si riscontra una sostanziale ambiguità nell'uso del termine "spiritualità", carico di molti e disparati ammiccamenti filosofici e religiosi, ricco di fascinose suggestioni letterarie ed esperienziali e, a motivo della sua versatilità e indeterminatezza di fondo, soggetto a non pochi fraintendimenti e distorsioni, dentro e fuori la comunità cristiana. Del resto, la recente coniazione del concetto di spiritualità, come ricordava von Balthasar, non si riscontra né nella comune tradizione culturale dell'Occidente cristiano, né scaturisce da categorie biblico-teologiche.
La confusione sul valore da assegnare alla forma sostantivale astratta di spiritualitas è grande. Spesso infatti lo spirituale è identificato con il sentimentale, l'immateriale, l'intellettuale, lo psichico e di conseguenza per "vita spirituale" si intende ciò che è separato dalla corporeità, dall'antropologia, dalla storia, dalla sacramentalità, rendendo in definitiva evanescente ogni riferimento al mistero dell'incarnazione e allo Spirito in essa operante. Con Ireneo si deve riaffermare che l'uomo è spirituale «non grazie alla privazione ed eliminazione della carne», ma «grazie alla partecipazione dello Spirito» (Adv. haer., V, 6,1). In questa prospettiva si può affermare, secondo le Scritture, che l'azione dello Spirito opera nel credente una trasformante conformazione al Figlio, suscitando sia una intensa relazione filiale con Dio, sia una nuova relazione con gli uomini. La spiritualità cristiana, in senso biblico-patristico, è dunque la personale impronta santificatrice lasciata dallo Spirito Santo nella vita dei discepoli e delle comunità cristiane che, a motivo di questa azione, sono resi sempre più conformi a Gesù Cristo.
Spirituale, nell'ottica della fede, ha dunque senso in quanto dice riferimento allo Spirito Santo, alla sua azione discreta ed efficace che non separa l'uomo dal concreto fluire della vita, né rende estraneo Dio al mondo, ma immette il seguace di Cristo nello stesso misterioso operare divino. L'agire dello Spirito è un'opera di immeritata di lezione che trasforma con il cuore la stessa condotta dell'uomo e la sua intelligenza, rendendolo idoneo a discernere ciò che è gradito a Dio per compiere il suo volere (Rm 12,1-2).
In modo più dettagliato, con "vita spirituale" si deve intendere quella conformazione del discepolo a Colui che è venuto per compiere la volontà del Padre fino a dare la sua vita in riscatto per molti (Mc 10,45). La vigile attenzione all'azione dello Spirito dispone all'apertura verso l'altro, diventando gioiosa disponibilità ad essere per il fratello e per ogni uomo segno dello stesso amore divino, realizzando così la stessa pienezza del comandamento di Cristo (v. Gv 13,34). In questo modo lo Spirito, operando una conformazione sempre più prossima e coinvolgente al mistero di colui che per amore si è fatto povero (2Cor 8,9), ultimo e servo di tutti (Mc 10,44-45), realizza quella diaconia sostanziale, segno della trasformazione radicale dell'essere dell'uomo che gli permette di giudicare ogni cosa (1Cor 2,15), incidendo sorprendentemente e profondamente anche nella storia.
Se è proprio dello Spirito la realtà che noi chiamiamo spirituale si deve allora collocare tutta dentro i confini della imprevedibile gratuità divina e perciò non può essere identificata con il frutto di una qualche tecnica, né si deve confondere con le pratiche religiose compiute da quanti praticano forme codificate di osservanza più o meno radicale. Il conformismo può tacitare la coscienza ma non dispone certo il cuore dell'uomo ad aprirsi ad una vera relazione con Dio. Anzi può disporre a giudicare negativamente quanti non aderiscono alle forme praticate dal proprio gruppo. L'atto fondamentale della vita spirituale non consiste nel ripetere schemi astrattamente predisposti, nel riproporre in modo irriflesso gli atteggiamenti devoti del passato (la teologia della scimmia non si addice ai seguaci di Gesù), ma nell'entrare in un autentico rapporto con Dio che dispone a farsi carico dei fratelli e di tutti gli uomini. Più esattamente, il centro della vita spirituale è quell'attitudine vigile del cuore che sa riconoscere la presenza e l'azione dello Spirito in ogni circostanza della vita e in ogni momento della storia, inclinando l'uomo a compiere quelle opere che Dio ha predisposto perché siano praticate (Ef 2,10). Si dà perciò un radicamento storico dell'azione dello Spirito che, nella misura della sua autenticità, diviene riferimento esemplare per ogni uomo della sua generazione.
Nel tempo della diaspora
Diventa perciò inevitabile, parlando oggi di spiritualità, secondo la fede biblica, il cercare di comprendere, nello Spirito, la stagione culturale ed ecclesiale che viviamo perché la fede in Cristo ci chiede di abitare con tutti gli altri uomini il futuro che Dio ci dispensa. In molti hanno già tentato di analizzare e giudicare il difficile tempo di mutazione che con i suoi processi di globalizzazione, di distacco dall'oggettività e di possibilità tecnologiche che non sembrano incontrare limiti, sta travolgendo ogni certezza confluendo in quella sfuggente e pervasiva cultura della postmodernità segnata da frammentarietà, da sincretismo e da una costante ricerca del sensazionale che ha ormai contagiato anche cristiani e chiese.
Senza sottovalutare la sensatezza e la competenza di queste analisi, qui ci interessa piuttosto comprendere il nostro tempo secondo parametri spirituali, giudicandolo secondo l'ottica dello Spirito che scruta ogni cosa (1Cor 2,10) per consegnargli quel senso di cui il cuore inquieto dell'uomo va alla ricerca. Ma come comunicare, come consegnare (tradere), questa intelligenza spirituale del reale in un'epoca in cui il processo del mondo come rappresentazione sembra giunto al termine e l'uomo senza radici si rinchiude dentro le anguste gabbie di snervanti auto-comprensioni? Per evitare la deriva di ermeneutiche infinite si deve fare riferimento non al soggetto e alle sue culture, ma alla memoria oggettiva della Scrittura che sola ci consegna il pensiero di Dio attraverso le sue parole come luce che illumina i fatti.
Che cosa dunque impariamo dall'ascolto assiduo delle Scritture rapportati alla vita per avere una comprensione spirituale di questo nostro tempo? Una lettura docile e leale della Parola ci rivela che, al di là di ogni enfasi autocelebrativa, si è appena conclusa, non solo per la Chiesa italiana, l'eccezionale ed esaltante stagione della profezia aperta dal Concilio. Dove incontrare oggi figure profeti che come quelle di don Mazzolari, di don Milani, di La Pira, di Lazzati e di Dossetti, per citarne solo alcune. Ripetendo il lamento del salmista possiamo dire che nel tempo della diaspora cattolica, anche in Italia, la chiesa si avvia ad essere sempre più minoranza culturale mentre «non ci sono più profeti e tra di noi nessuno sa fino a quando» (Sal 74,9). Ma questo tentativo di comprensione realistica dell'attuale temperie ecclesiale, non vuole affatto indulgere verso il pessimismo o la rassegnazione perché la stessa Parola di Dio ci ammonisce a non giudicare i tempi antichi migliori del presente: un simile atteggiamento, infatti, non viene dalla Sapienza (Qo 7,10). Nelle grandi tappe della storia della salvezza, la Scrittura mostra che dopo il tempo fervido dell'alleanza, dopo quello burrascoso dei profeti, si apre per il popolo di Dio la stagione della quotidianità sapienziale. Certo, in apparenza, sembra un tempo meno esaltante e vivace, dove il piccolo resto di rimpatriati rumina e tramanda la verità della fede non attraverso la vitalità autoritativa dell'istituzione o attraverso la forza suggestiva dell'oracolo, ma solo attraverso la scarna autorevolezza di una argomentazione fonda e paziente.
È questo il fatto storico-religioso sconvolgente che ancora oggi non cessa di colmare di stupore e su cui conviene fissare brevemente la nostra attenzione: per la prima volta, la "parola dell'uomo", senza l'impressionante cornice di teofanie e senza l'autorevole mediazione di teofani maestosi, viene recepita come scrittura che «contamina le mani», come "parola di Dio". La dicibilità della fede in mezzo a culture più forti ed egemoni aveva provocato e contribuito a determinare nel piccolo resto d'Israele una nuova presa di coscienza della propria identità attraverso una rilettura credente che sarebbe divenuta a sua volta parte della tradizione. E tuttavia la sapienza biblica non si radicava nella autonoma capacità di conoscenza dell'uomo, ma nel dono.
La sapienza dello scriba, proprio nella misura in cui era frutto dell'accoglienza ricettiva della parola di Dio e della parola dell'altro, si manifestava come elemento costitutivo della stessa rivelazione e segno culturale che testimoniava una rinnovata intelligenza della presenza di Dio nella storia: la parola dell'uomo a Dio diventava parola di Dio. Era divenuta cioè luogo della continuità storico-salvifica di un dialogo ininterrotto con Dio che dai patriarchi, dai giudici, dai profeti, attraverso gli scribi, stava preparando la rivelazione piena e sconvolgente del Figlio.
Una lettura cristologica della vita spirituale
Nel Nuovo Testamento, fin dalle pagine più antiche, la vita spirituale è presentata come una vita nello Spirito (Gal 5,25), è un'opera dello Spirito che rende il discepolo conforme al suo Signore, unendolo sempre più intimamente alla persona di Gesù Cristo, fino a ripeterne la sua personale esperienza spirituale. C'è accordo tra gli specialisti nel ritenere che il vissuto spirituale del rabbi galileo è riconducibile a due elementi essenziali e normativi di ogni spiritualità che vuole dirsi cristiana. E sono: l'impressionante relazione di intimità di Gesù con il Padre; la sua discreta ed efficace opera di salvezza verso tutti gli uomini a cominciare dalle «pecore perdute della casa d'Israele» (Mt 10,6). I vangeli in modo concorde ci descrivono la vicinanza unica e familiare di Gesù con Dio rivelato come «Abbà», come Padre dolcissimo, come origine e punto attrattivo di tutto, ponendo questa relazione innovativa come segno e certezza di un diverso modo di relazionarsi con i propri simili, ma anche con la storia e con il mondo. La presenza divina, rivelata e testimoniata dalla signoria di Cristo, è svelata dalla fede in tutta la sua potenza salvifica di novità. In questa nuova relazione con Dio e con gli uomini consiste la spiritualità del Regno annunciato da Gesù, è questo il vangelo, la vera "buona notizia" che annuncia un futuro gioioso, irrompendo nel mondo e nella piatta quotidianità della vita umana con la speranza di un cambiamento che richiede ad ogni coscienza di accettare l'invito alla conversione.
Le prime comunità cristiane non si sono allontanate da questo indirizzo. Sintetizzando la tradizione biblico-patristica, come è stata recepita anche dalla tradizione orientale, si può dire che questa nuova conoscenza di Dio, consegnata da Gesù per mezzo di opere e parole, si traduce per il discepolo «in un rapporto personale d'amore con Lui e con tutti i credenti attraverso la preghiera e il servizio». Questa dimensione personale del discepolo con Dio, che ha ormai il volto di Padre, lo orienta nel contempo anche verso il prossimo e verso tutta la creazione in una novità di condotta che unifica tutta la sua vita. la spiritualità biblica è dunque recepita dalla tradizione in modo unitario disponendo il discepolo a relazionarsi, alla maniera di Cristo, nell'amore verso Dio e verso gli uomini.
Questo criterio cristologico di unitarietà della vita spirituale, viene ripreso in quel mirabile capitolo quinto della Lumen Gentium che tratta della universale vocazione alla santità nella Chiesa. L'unità della relazione con il Padre e con i fratelli nella molteplicità e diversità delle situazioni sembra essere il principio teologico cui si ispira il dettato conciliare che vuole per tutti e per ognuno, a seconda del proprio dono, della propria vocazione e del proprio ministero, un camminare dietro il Signore povero, umile e carico della croce fino alla pienezza della vita (LG 40) per poter gioire eternamente con Lui della sua gloria (LG 41). I nostri vescovi, all'inizio degli anni ottanta, hanno recepito questo "primato dello spirituale" per qualificare secondo la radicalità evangelica l'identità e il compito del cristiano nella chiesa e nel mondo.
Certo il particolare momento ecclesiale di quegli anni, in un contesto politico e culturale assai lontano dalle ultime, travagliate, vicende, faceva scrivere ai vescovi che la presenza e l'azione dei cristiani per lo sviluppo della società civile li deve spingere verso l'impegno «di dare sempre più chiaramente il primato alla vita spirituale, da cui dipende tutto il resto», perché dallo Spirito santificatore, dalla sua azione potente e discreta che conforma a Cristo dipende la partecipazione a quella vita divina che ci è chiesto di testimoniare e di consegnare al mondo. È questa vita di comunione con Dio «nella fede, nella speranza e nella carità, in un'incessante preghiera personale e comunitaria» il vero «lievito buono di cui il mondo ha bisogno», e se non si è fatto abbastanza per il mondo «non è perché siamo cristiani, ma perché non lo siamo abbastanza». E di se stessi i vescovi, con chiara volontà di porsi come esempio per tutto il popolo di Dio, affermavano: «sappiamo di dover essere sempre più uomini di profonda vita interiore e ministri della santità della Chiesa». Nei documenti successivi il primato dello spirituale, viene ancora riaffermato, senza però raggiungere la stessa intensità.
Da queste brevi note si può evincere che cosa si deve intendere per vita spirituale e per spiritualità nell'orizzonte della fede. Lo spirituale indica quel primato assoluto dello Spirito nella vita della chiesa e dei cristiani che una corretta visione pneumatologica, comune anche all'ortodossia, interpreta non come un'opera di animazione che interviene nella Chiesa, ma è ciò per cui la Chiesa stessa esiste e opera: non si dà infatti una chiesa preesistente allo Spirito di Cristo. La fede mostra che la spiritualità è opera dell'inafferrabile Spirito e coincide con le tracce storico-salvifiche del suo passare nel mondo e perciò impropriamente indica gli orientamenti e gli impegni religiosi di gruppi, le pie esperienze dei singoli credenti o le pratiche cultuali dei fedeli.
La vita spirituale, come testimonianza della signoria effettiva dello Spirito Santo nel tempo degli uomini, non può essere compresa e vissuta come una comoda e codarda fuga dagli impegni che il cristiano ha verso il mondo, dal momento che proprio lo Spirito porta quell'oltre che sospinge la storia verso il suo compimento nell'èschaton. La vita spirituale dei discepoli di Cristo ricorda il Papa «è opera dello Spirito e impegna la persona nella sua totalità» e consiste in «una sottomissione di tutta la vita allo Spirito».
La formazione spirituale «cuore della formazione» di ogni discepolo deve essere «il principio interiore di unità», secondo un'accezione marcatamente cristologica che vede in Cristo, anche per le condizioni più ordinarie della vita, la fonte di una esemplarità che nel filiale rapporto con Dio alimenta un'autentica vita fraterna tra i discepoli e con tutti gli uomini. Preghiera e diaconia sono allora le rotaie inseparabili di una santità, antica e nuova, che a imitazione di Cristo il discepolo deve saper tradurre nel suo tempo in misura ecclesiale a favore dei fratelli e a testimonianza per il mondo, perché vedendo possa riconoscere l'opera di Dio e rendergli gloria.
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