La diaconia del Servo di Jahwè


Il diaconato in Italia n° 178
(gennaio/febbraio 2013)

FOCUS


La diaconia del Servo di Jahwè
di Ortensio Da Spinetoli

Per una lettura intrabiblica
La storia, si suole dire, è maestra della vita; è una scuola da cui tutti imparano, piccoli e grandi, individui e collettività. Anche Israele ha visto, maturare la sua, singolare, unica esperienza religiosa attraverso le varie, alterne vicende che ha registrato nel suo percorso nel tempo. Quando i bené Israel (Figli di Israele) sono a malapena inseriti nella terra di Canaan anche le prospettive verso un loro futuro sono fievoli e imprecise. Abramo porta con sé una «benedizione» (Gn 12,1-3) di cui non si conoscono né i primi né gli ultimi risvolti. L'esperienza egiziana, la schiavitù e la liberazione o esodo, a cui è associata la peregrinazione sinaitica porta i protagonisti a pensare che Jahwé li aveva sottratti dalla "servitù" faraonica per portarli a suo "servizio" (alleanza). Ma è con l'affermazione monarchica che gli ideali del passato cominciano ad avere una più precisa configurazione. Il «regno di David» avrà un'esistenza che non conoscerà tramonti (2Sm 7,14). Una grande speranza (messianismo dinastico) che tuttavia, alla fine si risolverà in una grande illusione.
L'esperienza che veramente segna una svolta nella mentalità e nella spiritualità israelitica è l'esilio. Qui il "popolo eletto" apprende il giusto modo di porsi davanti al suo Dio e davanti ai propri simili, non con le pretese del primogenito o del principe, bensì con l'attitudine umile e dimessa del dipendente. Come si era prostrati ed afflitti davanti al re di Babilonia, così ci si doveva sentire davanti a Dio e agli uomini, umili, piccoli, senza pretese, disponibili a tutti. «Non lascerò in mezzo a te che un popolo povero», ammonisce il profeta (cf. Is 25,1-3). L'umiltà (tapeinosis) e la povertà (anawah) costituiscono il distintivo i reduci, il nuovo popolo di Dio, «i poveri (gli anawim), del Signore», porteranno impresso nella mente e nel cuore.
La nuova spiritualità biblica si trova incarnata in una figura ideale che compare nella seconda parte del libro di Isaia, il "Servo di Jahwé", solo che la specificazione che lo distingue ("di Jahwé") sembra far capire che le sue prestazioni siano di ordine sacro, riguardano la salvaguardia dell'onore dovuto alla divinità, il ricupero del suo prestigio davanti ai torti, alle offese ricevute, dagli uomini. E così anche il Deutero-Isaia si è lasciato suggestionare dalla teologia del "capro espiatorio", nata dal l'immaginario religioso di tutti i popoli i quali hanno pensato a Dio come a un monarca terreno, avido di plauso e di tributi, ha visto il servo «percosso da Dio per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità» (53, 4-5), dimenticando che secondo tradizioni profetiche più antiche e più genuine, il Dio d'Israele non è né un Moloch (che ama reggere sulle sue braccia roventi vittime innocenti), né un Baal (sempre alle prese con i rivali), e neppure un uomo (Nu 23,8; Os 11,9) che per sua natura è facile agli scatti d'ira e alle vendette, ma un Dio, cioè un Signore che non attende nulla da nessuno perché ha tutto e non è adirato con alcuna delle sue creature, perché «tutto ciò che ha fatto vide che era molto buono», bello, e quindi dilettevole» (Gn 1,31).
Forse anche la prima, vera missione del "servo" si trova delineata in queste tradizioni delle origini in cui si racconta che Iddio pose la coppia umana al vertice della creazione non tanto perché dall'alto ne contemplasse la bellezza, ma perché ne «dominasse» la crescita (Gn 1,28). Egli non attende un contemplativo, ma un collaboratore attivo, fino al sudore e alle lacrime (Gn 3,15). E anche dopo il trasferimento nel giardino non si accontenta che stia a guardare la bellezza degli alberi, di cui, esso è pieno ma che lo coltivi e lo custodisca (Gn 2,15). Il lavoro con tutto il suo peso, in questo contesto, non appare un hobby ma un obbligo, una virtù come la pigrizia non può ritenersi un trastullo innocente, ma una colpa, un peccato, il primo a cui il credente, distratto o disimpegnato, va incontro. Certo è vero che il Signore avrebbe potuto portare avanti il progetto da solo come da solo l'aveva avviato, ma ha saggiamente voluto coinvolgervi gli esseri intelligenti e volitivi, «fatti appositamente a sua immagine e somiglianza» (Gn 1,27) affinché ridondasse anche su di essi il merito e il vanto della realizzazione e vi trovasse un motivo di compiacimento, soddisfazione e gioia. Se l'uomo non si mette all'opera i triboli e le spine, simboli di tutte le lacune e imperfezioni, lasciate a bell'apposta nel progetto, messo all'esistenza allo stato embrionale e non finale, nessuno si mette a rimuoverle al suo posto. E la creazione non avanza, il giardino non appare, la terra rimane arida e vuota. L'eden non è dietro le spalle è stato posto davanti agli occhi delle creature razionali quale programma da realizzare nel corso della loro lunga, laboriosa esistenza. La felicità di ognuno e di tutti, se in parte è regalata, è pure frutto delle loro fatiche e conquiste.
La diaconia cristiana se si risolve in un servizio sacro, cioè in una diversa partecipazione al culto e non cerca di ricalcare quella di Gesù che è passato per le contrade della Galilea facendo del bene a tutti e guarendo gli uomini da ogni infermità (At 10,38) non può dirsi allineata con l'opera che Dio in primo luogo attende dalle sue creature. In altre parole se il servizio si riduce a parate liturgiche, a cui secondo Amos, Dio neanche sembra prestare attenzione (5,21-22), più che ad opere di bene, cioè offrire pane agli affamati (servizio delle mense: At 6,2-3), a vestire gli ignudi, accogliere i forestieri, ecc. (Mt 25,35-46) esso non sarà registrato nel libro della vita bensì nel cerimoniale dei giocolieri.

(O. Da Spinetoli è frate cappuccino, docente e specialista in Scienze Bibliche)

----------
torna su
torna all'indice
home