XV Domenica del Tempo ordinario (C)




Omelie - Il Vangelo della domenica
a cura di Goffredo Boselli
Vita Pastorale (n. 7/2025)


ANNO C – 13 luglio 2025
XV Domenica del Tempo ordinario

Deuteronomio 30,10-14 • Salmo 18 • Colossesi 1,15-20 • Luca 10,25-37
(Visualizza i brani delle Letture)


NOI FERITI DALLA VITA

«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico»: il primo personaggio della parabola è l'uomo ferito, aggredito dai briganti e lasciato mezzo morto sul ciglio della strada. Gesù descrive con precisione tutti i personaggi (un sacerdote, un levita, un samaritano), ma l'uomo ferito, senza specificazione, rappresenta ciascuno nella fragilità costitutiva della nostra umanità. Come lui, a volte ci ritroviamo colpiti e abbattuti dalla sofferenza, fisica o psicologica, dal dolore, dalla separazione. E, come lui, restiamo inanimati, abbandonati ai margini della nostra vita. Vivere significa essere sempre esposti al rischio di essere feriti da eventi e relazioni che ci lasciano nella più totale indigenza. Allora non siamo più in grado di fare nulla, né per noi stessi né per gli altri.
Ma accade che ci sono dei passanti, alcuni molto superficiali, passano oltre, senza vedere, come il sacerdote e il levita! Sono entrambi persone religiose e il loro atteggiamento è spiegato da un motivo religioso. Il contatto con un moribondo era fonte di impurità e comportava l'esclusione dal servizio nel Tempio. Questi due sono preoccupati di preservare la loro integrità religiosa. Giustificano la loro indifferenza con l'obbedienza alla Legge. Non è né il rapporto con Dio né quello con il prossimo a preoccuparli, ma la preoccupazione per sé stessi.
Ma succede anche che qualcuno osi assumere un atteggiamento diverso, che si avvicini, che diventi il prossimo di noi che stiamo a terra. Il Samaritano "vide", ma a differenza degli altri due che "passarono oltre", lui "ne ebbe compassione", si commosse fino alle viscere. Ora, cosa molto significativa, questo verbo, è usato nei Vangeli solo riferito a Dio e a Cristo! Questo dettaglio ci fa capire che la compassione è prima di tutto una tenerezza che va incontro a noi, feriti dalla vita.
Ciò che caratterizza il Samaritano – simbolo in Israele dello straniero e dell'eretico – è l'essere, allo stesso tempo, compassionevole e distaccato. È commosso da questo suo simile che giace sul ciglio della strada e nel quale si riconosce. Cogliendo l'urgenza della situazione, fa ciò che è necessario per salvarlo; poi se ne va, lasciando il compito all'oste. Tuttavia, non se ne va senza aver provveduto a saldare il debito del soggiorno, affinché, una volta guarita, la persona ferita sia veramente libera di andare avanti con la sua vita.
Non siamo sempre accanto a tutti. Non possiamo alleviare le sofferenze dell'intera umanità. Ciò che ci viene chiesto è di non perdere chi si trova sul nostro cammino, immobilizzato ai margini della vita, ricordando che anche noi un tempo siamo stati morenti e che abbiamo respirato un po' meglio perché qualcuno si è chinato su di noi a versare olio sulle nostre ferite.
Ciò che la parabola ci insegna è che il prossimo non è una categoria generica, ma un evento di relazione, un avvento d'amore, che richiede per un attimo la nostra responsabilità. Non esiste una definizione preventiva del prossimo. Noi stessi diventiamo il nostro prossimo perché ci lasciamo commuovere dagli altri, perché ci avviciniamo a loro non per dovere morale, ma perché ne siamo toccati nel profondo. Diventiamo prossimi ogni volta che non possiamo evitare la domanda che ci giunge attraverso il volto dell'altro, che è ogni volta la messa in discussione del nostro piccolo io.


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