XXVI Domenica del Tempo ordinario (A)




Omelie - Il Vangelo della domenica
a cura di Antonio Savone, presbitero della diocesi di Potenza-Muro Lucano-Marsico Nuovo
Vita Pastorale (n. 9/2023)


ANNO A – 1 ottobre 2023
XXVI Domenica del Tempo ordinario

Ezechiele 18,25-28 • Salmo 24 • Filippesi 2, 1-11 • Matteo 21,28-32
(Visualizza i brani delle Letture)


SALVARE LA FACCIA O METTERCI IL CUORE?

La faccia o il cuore? La forma o il contenuto? Se al mondo si viene senza averlo deciso, non ci si rimane se non decidendo come. Un modo non vale l'altro. Quel gran sognatore che è il Padre desidererebbe avessimo a cuore quello che egli ci affida, perché quella che chiamiamo "realizzazione" passa attraverso il fare nostro ciò che sta a cuore al Padre.
Eppure, di fronte alla proposta di un coinvolgimento personale, c'è chi, pur di salvare la faccia, dà il suo assenso nozionale (per dirla con Newman), ma poi finisce per ritirare il suo assenso reale. Dice sì e fa no. Da non dimenticare che la parabola è rivolta a chi spetterebbe avere a cuore le sorti di quella vendemmia e, invece, a fronte di una religiosità di facciata, finisce per non accogliere un reale coinvolgimento. Altre sono le logiche che li animano e le priorità rivendicate. Quel modo di rivelarsi di Dio, proprio non va giù: salvata la facciata, il cuore rimugina altri pensieri. Si diventa compiacenti ma incapaci di condividere qualsiasi cosa con questo Dio.
Per contro, invece, c'è chi in modo affatto velato – anzi, a volte in modo pure violento e scontroso, comunque irriverente e capriccioso – preferisce percorrere altri sentieri e, tuttavia, non ha mai spento il desiderio di qualcosa di vero, di bello, di unico. Tanto è vero che, nonostante le amare esperienze annoverate, d'improvviso si ritrova ad accogliere quanto il Signore suggerisce.
Era proprio quello che Gesù registrava: il rifiuto di chi avrebbe dovuto riconoscerlo e accoglierlo, l'accoglienza, invece, di chi sembrava essere lontano anni luce da quella sua proposta. Per questo la conclusione non tarda ad arrivare: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio». La precedenza non è data da quel diritto di primogenitura che ci ostiniamo a vantare perché fa parte del nostro pedigree religioso; diritto di sorpasso ce l'ha non chi ha salvato l'immagine ma chi non ha lasciato spegnere il cuore. Talvolta, infatti, dietro certa ritrosia c'è ancora tanta disponibilità, mentre dietro tanta rigidità c'è doppiezza, malanimo, disaffezione, incapacità a lasciarsi coinvolgere fino in fondo.
La differenza la fa un verbo: pentirsi, ossia, iniziare a pensare le cose in un modo diverso, ritornare sui propri passi, non sentirsi arrivati.
Tutto era partito da un invito a riflettere e a esporsi: «Che ve ne pare?», ossia, «siete capaci di mutare opinione?».
C'è un'ipocrisia che finisce per ergersi a giudice dei peccati altrui e una rigidità che è indisponibilità a guardare sé stessi. Certa nostra voglia di fare gli epuratori non radica, forse, in una inconfessata incapacità a chiamare per nome le nostre fragilità?
Nel regno di Dio si entra per conversione, non per diritto acquisito, non per meriti sul campo (che se ci sono restano comunque un buon corredo), ma per grazia. Sono degni di farne parte tutti coloro che non sono sordi alla chiamata che Dio continua a rivolgere a noi.
Non ci accada quello che accadde alla generazione di Gesù: di vedere la salvezza senza riconoscerla, di aver di fronte le proprie mancanze e non comprenderle, di essere redarguiti e non accorgersi che Gesù parlava proprio di loro.


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