Il diaconato in Italia n° 220
(gennaio/febbraio 2020)
SERVIZIO
Servire la Parola: nel Nome di Gesù, segno sacramentale nel mondo
di Giovanni Chifari
Non è certamente nuovo per i diaconi l'accostamento tra servizio e Parola, poiché tale connessione esprime bene il legame tra l'identità sacramentale e la diaconia ministeriale. Proveremo allora ad esplorare il tema inoltrandoci in alcuni sentieri segnalati dagli Atti degli Apostoli, dove risulta evidente che servire la Parola è testimoniare la fede in Gesù, e quindi essere entrati in relazione con Lui, annunciare e non tacere il suo Nome. Assaporare il gusto tutto cristologico delle divine Scritture per dare sapore alla terra, lasciando che la presenza sacramentale del diacono nel mondo sprigioni tutta la luce che in Cristo porta dentro.
La professione di fede e il contenuto dell'annuncio
L'ordinazione diaconale con il dono singolare dello Spirito, la conformazione a Cristo diacono, l'azione della grazia non avvengono senza interpellare la libertà dell'uomo, e quindi il continuo processo che mediante la conversione conduce ad una fede sempre più matura. Occorre conversione per non limitare il servizio alla Parola ad una diaconia sbilanciata in senso funzionale e per sfuggire da ogni ritualismo che spegne la profezia insita nella svolta diaconale del Concilio Vaticano II. Servire la Parola è infatti una diaconia che non sottrae chi diaconizza dalla relazione intima e sorgiva con la Persona che s'incontra nella Parola e poi si riconosce nell'Eucarestia, Gesù, il Signore.
Ecco perché servire la Parola vuoi dire testimoniare la propria fede in Gesù, come hanno fatto gli apostoli dopo pentecoste, quando non soffocando l'azione dello Spirito Santo, percepirono con forza che non era possibile tacere il Nome di Gesù.
Il libro degli Atti degli Apostoli ci trasmette il crescendo di questa professione di fede, che già nel primo discorso di Pietro è il contenuto dell'annuncio, ciò che sostiene la diaconia sacramentale (il battesimo nel Nome di Gesù - At 2,38), e l'azione terapeutica e salvifica (le guarigioni nel corpo e nello spirito accadono per e nella forza del Nome di Gesù che dona salute e salvezza - cf. At 3,16; At 4,10). Con un'aggiunta decisiva: «In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (At 4,12), cioè il Nome di Gesù.
Perché non poterono tacere?
È significativo che il testo registri a questo punto la scesa in campo delle forze ostative, rappresentate dal sinedrio, riunito in seduta plenaria, e dalla dura e severa proibizione che esso sentenzia imponendo di non parlare ad alcuno «in quel nome» (At 4,17), né «di insegnare nel nome di Gesù» (At 4,18). Parlare e insegnare nel Nome di Gesù è considerato infatti pericoloso e destabilizzante nei confronti di una religiosità abitudinaria e standardizzata. La risposta data all'unisono da Pietro e Giovanni manifesta la fede corale della Chiesa, ma anche l'oggettivazione di un incontro personale, che li ha resi testimoni del Risorto: «Se sia giusto dinanzi a Dio obbedire a voi invece che a Dio, giudicatelo voi. Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (At 4,20). La preghiera della Chiesa apostolica, nei versetti successivi, esprimendo l'autocoscienza dei primi discepoli di essere dei servi, chiamati al servizio della Parola, ad annunciare con parresia, tra resistenze, minacce e persecuzioni, che Gesù è risorto, facendo coincidere kerygma e vangelo, non prescinde dalla professione di fede nel Nome di Gesù: «Ed ora Signore, volgi lo sguardo alle loro minacce e concedi ai tuoi servi di annunciare con tutta franchezza la tua parola. Stendi la mano perché si compiano guarigioni, miracoli e prodigi nel nome del tuo santo servo Gesù» (At 4,30).
La relazione con la Parola
Servire la Parola quindi è in primo luogo testimoniare la propria fede in Gesù e non tacere il suo Nome. Ma significa anche avere una relazione continua con la Parola che si serve. Un'attenta pedagogica biblica suggerisce le "tappe" attraverso le quali si rende fecondo questo processo. Innanzitutto il silenzio. La Parola viene dal silenzio e si accoglie nel silenzio. Un silenzio sia esteriore che interiore.
Quindi ascoltare la Parola, accoglierla e custodirla, tenerla a mente, lasciando che essa purifichi in noi la memoria del peccato e formi la coscienza, introducendo un nuovo principio interiore. Innescando continuamente la conversione, questa Parola modifica i comportamenti e lo stesso modo di pensare sia al livello dei singoli credenti che a livello della comunità ecclesiale. Movimento da leggere sempre secondo l'ascolto docile dello Spirito, della sua potente manifestazione che rinnova, riforma e ringiovanisce la sua Chiesa, e non, come precisa l'Apostolo ai Corinzi, secondo discorsi persuasivi di sapienza umana (cf. 1Cor 2,1-5). L'egemonia della Parola di Dio interpella anche la riflessione biblico teologica. Diaconizzare la Parola vuoi dire appunto servire la Parola e non "giocare" con essa. Solo la divina Sapienza "gioca" dilettandosi con la Parola, esprimendo a suo modo la sua diaconia verso di essa. Ma accade che anche il demonio, da sempre attento "imitatore" delle cose divine, giochi con la Parola, ma non per servirla, bensì per scagliarla contro, per disorientare e creare dubbi e confusione.
La Sapienza e la tentazione
C'è un passaggio prezioso in un'omelia di don Giuseppe Dossetti che esprime mirabilmente tutto ciò. È un commento del 20 febbraio del 1972 alla prima domenica di quaresima, quella che presenta il tema delle tentazioni di Gesù. Il monaco di Monteveglio presenta il tempo di quaresima come un'occasione per «esorcizzare il nostro rapporto con la Parola», realtà che non avviene senza "lotta", poiché - spiega Dossetti - «il demonio può benissimo giocare con la Scrittura», «ci gioca dentro», tanto da farla apparire come «segno di contraddizione». Accade che paradossalmente possano sorgere delle divisioni, basta ripercorrere la storia della Chiesa, anche per una sola parola della Scrittura travisata e non ben interpretata.
Le parole stravolte
Questo perché, per dirla con Dossetti, il demonio ama mettersi dentro la Parola di Dio, come ha fatto con Adamo ed Eva e poi con il Figlio di Dio aggredito con la Parola divina. Aggiunge ancora Dossetti: «i turbamenti della vita della Chiesa, da che cosa nascono? Da una frase della Scrittura adoperata in un certo modo [ ... ] da una sola parola della Scrittura stravolta, dentro la quale abbia operato il nemico». Il rapporto con la Parola di Dio è dunque decisivo.
Professare la fede in Gesù, non tacere il suo Nome, è allora un servizio di mediazione che si pone come costante e graduale oggettivazione della configurazione a Cristo del diacono, della sua piena accoglienza dell'esemplarità normativa di Gesù. Aspetto che mostra l'intreccio tra essenza ed esistenza diaconale, riempiendo di senso, in un tempo di progressiva secolarizzazione, la presenza sacramentale del diacono in mezzo alla gente e al popolo santo di Dio. Il diacono dunque è "segno", mediatore e testimone narratore. Qualità diaconali interconnesse se ancorate alla relazione personale con Gesù. Per precisare ulteriormente la dimensione narrativo-testimoniale del diacono, potremmo richiamare le illuminanti riflessioni sulla poetica narrativa di Paul Ricoeur, per esempio in Tempo e racconto, e in particolar modo il rapporto tra figurazione, configurazione e rifigurazione, applicate al contesto di un servizio narrativo alla Parola di Dio. Per figurazione s'intende l'evento in sé, per configurazione la narrazione dell'evento vissuto come esperienza di un incontro, per rifigurazione la possibilità dell'uditore di recepire l'evento che gli è stato narrato come esperienza personale.
La profezia del Concilio
Fattore decisivo per vivere quella contemporaneità oggi apparentemente preclusa ma desiderata dal Concilio. Ad oltre cinquant'anni dal Vaticano II appare forse più chiara la profezia diaconale. Essa riesce ad esprimere il volto più autentico della Chiesa, segnato da un'inconfondibile indole materna e al femminile, intesa nel senso della diaconia, e da uno sguardo luminoso che contempla il servizio diaconale come "luogo" istruttivo, formativo e modello permanente anche per quanti sono chiamati al sacerdozio.
La professione di fede e il contenuto dell'annuncio
L'ordinazione diaconale con il dono singolare dello Spirito, la conformazione a Cristo diacono, l'azione della grazia non avvengono senza interpellare la libertà dell'uomo, e quindi il continuo processo che mediante la conversione conduce ad una fede sempre più matura. Occorre conversione per non limitare il servizio alla Parola ad una diaconia sbilanciata in senso funzionale e per sfuggire da ogni ritualismo che spegne la profezia insita nella svolta diaconale del Concilio Vaticano II. Servire la Parola è infatti una diaconia che non sottrae chi diaconizza dalla relazione intima e sorgiva con la Persona che s'incontra nella Parola e poi si riconosce nell'Eucarestia, Gesù, il Signore.
Ecco perché servire la Parola vuoi dire testimoniare la propria fede in Gesù, come hanno fatto gli apostoli dopo pentecoste, quando non soffocando l'azione dello Spirito Santo, percepirono con forza che non era possibile tacere il Nome di Gesù.
Il libro degli Atti degli Apostoli ci trasmette il crescendo di questa professione di fede, che già nel primo discorso di Pietro è il contenuto dell'annuncio, ciò che sostiene la diaconia sacramentale (il battesimo nel Nome di Gesù - At 2,38), e l'azione terapeutica e salvifica (le guarigioni nel corpo e nello spirito accadono per e nella forza del Nome di Gesù che dona salute e salvezza - cf. At 3,16; At 4,10). Con un'aggiunta decisiva: «In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (At 4,12), cioè il Nome di Gesù.
Perché non poterono tacere?
È significativo che il testo registri a questo punto la scesa in campo delle forze ostative, rappresentate dal sinedrio, riunito in seduta plenaria, e dalla dura e severa proibizione che esso sentenzia imponendo di non parlare ad alcuno «in quel nome» (At 4,17), né «di insegnare nel nome di Gesù» (At 4,18). Parlare e insegnare nel Nome di Gesù è considerato infatti pericoloso e destabilizzante nei confronti di una religiosità abitudinaria e standardizzata. La risposta data all'unisono da Pietro e Giovanni manifesta la fede corale della Chiesa, ma anche l'oggettivazione di un incontro personale, che li ha resi testimoni del Risorto: «Se sia giusto dinanzi a Dio obbedire a voi invece che a Dio, giudicatelo voi. Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (At 4,20). La preghiera della Chiesa apostolica, nei versetti successivi, esprimendo l'autocoscienza dei primi discepoli di essere dei servi, chiamati al servizio della Parola, ad annunciare con parresia, tra resistenze, minacce e persecuzioni, che Gesù è risorto, facendo coincidere kerygma e vangelo, non prescinde dalla professione di fede nel Nome di Gesù: «Ed ora Signore, volgi lo sguardo alle loro minacce e concedi ai tuoi servi di annunciare con tutta franchezza la tua parola. Stendi la mano perché si compiano guarigioni, miracoli e prodigi nel nome del tuo santo servo Gesù» (At 4,30).
La relazione con la Parola
Servire la Parola quindi è in primo luogo testimoniare la propria fede in Gesù e non tacere il suo Nome. Ma significa anche avere una relazione continua con la Parola che si serve. Un'attenta pedagogica biblica suggerisce le "tappe" attraverso le quali si rende fecondo questo processo. Innanzitutto il silenzio. La Parola viene dal silenzio e si accoglie nel silenzio. Un silenzio sia esteriore che interiore.
Quindi ascoltare la Parola, accoglierla e custodirla, tenerla a mente, lasciando che essa purifichi in noi la memoria del peccato e formi la coscienza, introducendo un nuovo principio interiore. Innescando continuamente la conversione, questa Parola modifica i comportamenti e lo stesso modo di pensare sia al livello dei singoli credenti che a livello della comunità ecclesiale. Movimento da leggere sempre secondo l'ascolto docile dello Spirito, della sua potente manifestazione che rinnova, riforma e ringiovanisce la sua Chiesa, e non, come precisa l'Apostolo ai Corinzi, secondo discorsi persuasivi di sapienza umana (cf. 1Cor 2,1-5). L'egemonia della Parola di Dio interpella anche la riflessione biblico teologica. Diaconizzare la Parola vuoi dire appunto servire la Parola e non "giocare" con essa. Solo la divina Sapienza "gioca" dilettandosi con la Parola, esprimendo a suo modo la sua diaconia verso di essa. Ma accade che anche il demonio, da sempre attento "imitatore" delle cose divine, giochi con la Parola, ma non per servirla, bensì per scagliarla contro, per disorientare e creare dubbi e confusione.
La Sapienza e la tentazione
C'è un passaggio prezioso in un'omelia di don Giuseppe Dossetti che esprime mirabilmente tutto ciò. È un commento del 20 febbraio del 1972 alla prima domenica di quaresima, quella che presenta il tema delle tentazioni di Gesù. Il monaco di Monteveglio presenta il tempo di quaresima come un'occasione per «esorcizzare il nostro rapporto con la Parola», realtà che non avviene senza "lotta", poiché - spiega Dossetti - «il demonio può benissimo giocare con la Scrittura», «ci gioca dentro», tanto da farla apparire come «segno di contraddizione». Accade che paradossalmente possano sorgere delle divisioni, basta ripercorrere la storia della Chiesa, anche per una sola parola della Scrittura travisata e non ben interpretata.
Le parole stravolte
Questo perché, per dirla con Dossetti, il demonio ama mettersi dentro la Parola di Dio, come ha fatto con Adamo ed Eva e poi con il Figlio di Dio aggredito con la Parola divina. Aggiunge ancora Dossetti: «i turbamenti della vita della Chiesa, da che cosa nascono? Da una frase della Scrittura adoperata in un certo modo [ ... ] da una sola parola della Scrittura stravolta, dentro la quale abbia operato il nemico». Il rapporto con la Parola di Dio è dunque decisivo.
Professare la fede in Gesù, non tacere il suo Nome, è allora un servizio di mediazione che si pone come costante e graduale oggettivazione della configurazione a Cristo del diacono, della sua piena accoglienza dell'esemplarità normativa di Gesù. Aspetto che mostra l'intreccio tra essenza ed esistenza diaconale, riempiendo di senso, in un tempo di progressiva secolarizzazione, la presenza sacramentale del diacono in mezzo alla gente e al popolo santo di Dio. Il diacono dunque è "segno", mediatore e testimone narratore. Qualità diaconali interconnesse se ancorate alla relazione personale con Gesù. Per precisare ulteriormente la dimensione narrativo-testimoniale del diacono, potremmo richiamare le illuminanti riflessioni sulla poetica narrativa di Paul Ricoeur, per esempio in Tempo e racconto, e in particolar modo il rapporto tra figurazione, configurazione e rifigurazione, applicate al contesto di un servizio narrativo alla Parola di Dio. Per figurazione s'intende l'evento in sé, per configurazione la narrazione dell'evento vissuto come esperienza di un incontro, per rifigurazione la possibilità dell'uditore di recepire l'evento che gli è stato narrato come esperienza personale.
La profezia del Concilio
Fattore decisivo per vivere quella contemporaneità oggi apparentemente preclusa ma desiderata dal Concilio. Ad oltre cinquant'anni dal Vaticano II appare forse più chiara la profezia diaconale. Essa riesce ad esprimere il volto più autentico della Chiesa, segnato da un'inconfondibile indole materna e al femminile, intesa nel senso della diaconia, e da uno sguardo luminoso che contempla il servizio diaconale come "luogo" istruttivo, formativo e modello permanente anche per quanti sono chiamati al sacerdozio.
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