Il diaconato in Italia n° 214
(gennaio/febbraio 2019)
CONTRIBUTO
Santi in Cristo e nella Chiesa
di Giovanni Chifari
L'Esortazione apostolica sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, Gaudete et exsultate, non si propone di svolgere un trattato esaustivo sulla santità e lo dichiara fin dall'inizio (GE 2). L'obiettivo dello scritto è d'incarnare la chiamata alla santità nel contesto attuale. Si fanno così delle scelte, con delle elezioni (l'analisi di questo tempo, le sfide, i rischi e le opportunità) ed alcune omissioni (per esempio il silenzio sulla via di santità presente nella vita consacrata, monastica e contemplativa). Mi limiterò a segnalare due piste di riflessione spendibili anche in un'ottica diaconale, secondo una prospettiva formativa: il modo in cui l'Esortazione professa la centralità cristologica e la possibile correlazione tra gnosticismo e pelagianesimo (per l'Esortazione "nemici della santità") e una visione ontologica o funzionale del ministero.
Gesù al centro
L'Esortazione presenta la santità come la nostra unione con Gesù e con il Padre (cf. citazione di Gv 17,21 in GE 146): «Il disegno del Padre è Cristo, e noi in Lui»; la santità è «Cristo che ama in noi» per questo essa è «la carità pienamente vissuta» (GE 21). C'è il desiderio di recuperare un'unità perduta, forse come risposta all'individualismo sfrenato di questo tempo e al suo soggettivismo esasperato che tutto divide, atomizza e frammenta. Gli stessi interventi del pontefice si pongono come tentativo di ritessitura di ciò che è infranto, in primis delle relazioni umane, tra gli stati e i popoli, cercando di valorizzare l'operosità artigiana come strumento dei processi di pacificazione e di dialogo. Tutto nel segno dell'ascolto dell' altro e della misericordia.
Una tale tensione verso l'unità si ritrova anche negli scritti del teologo sloveno padre Marco Ivan Rupnik, che riprendendo Solovièv, parla di "tutt'unità", come di un essere "l'uno nell'altro", dalla Trinità a noi. Realtà esemplificata nell'Eucarestia. Anche Romano Guardini, come ha segnalato un recente studio del teologo sistematico don Massimo Naro, Archetipo e immagine, simuoveva in una simile prospettiva ma nella sua Gegensatz (teoria dell'oppositore polare) preferiva esprimersi con l'espressione "l'uno dall'altro" (M. Naro, Archetipo e immagine. Riflessioni teologiche sulla scia di Romano Guardini, Rubettino, Soveria Mannelli 2018). È proprio il rapporto "iconico" che Dio instaura con l'essere umano, fin da quando lo chiama ad esistere con l'atto creativo.
Per conoscere l'uomo è necessario conoscere Dio
La relazione tra Dio e l'uomo va compresa, appunto, dentro la polarità che sussiste fra Archetipo (Dio) e immagine (l'uomo), alla luce della Rivelazione. Per questo Guardini amava ripetere che per conoscere l'uomo è necessario conoscere Dio. Diviene allora decisiva la centralità di Cristo Gesù: è in lui che si realizza l'unità, tra il divino e l'umano; è in lui che il divino e l'umano si esigono a vicenda, senza mai prevaricarsi. In Cristo Gesù Dio non è più immaginabile come un faraone che schiaccia i suoi sudditi; l'uomo - a sua volta - non cede più all'antica tentazione di sostituirsi al suo Creatore.
Il teologo italo-tedesco, il cui capolavoro cristologico è il famoso saggio Il Signore, resta un autore caro a Papa Francesco, come lo stesso Naro spiega in alcuni passaggi del suo libro. Bergoglio, difatti, ha voluto riprendere la "logica" di Guardini, quella delle opposizioni polari, della coincidentia oppositorum, nell'Esortazione programmatica del suo pontificato, la Evangelii Gaudium.
Come riconoscere Gesùnei poveri e nei offerenti?
La centralità di Cristo non è estranea all'Esortazione, che infatti presenta la santità come il «vivere in unione con Lui (Gesù) i misteri della vita» (GE 20), come l' «unirsi alla morte e resurrezione del Signore in modo unico e personale» (GE 20), in sintesi come il «riprodurre nella propria esistenza alcuni aspetti della vita terrena di Gesù». Poiché è Gesù che occorre riconoscere nei poveri e nei sofferenti. È Lui, il suo cuore, «i suoi sentimenti, le sue scelte più profonde, alle quali ogni santo cerca di conformarsi» (GE 96). Tra queste scelte c'è l'accoglienza dello straniero (GE 102.103). Realtà che va liberata da ogni strumentalizzazione politica e da ogni sudditanza verso le suggestioni dei tempi, e vista innanzitutto come sfida profetica del Vangelo, come "parola" d'inciampo, di scandalo (cf. Mt 25,35), che può essere utile come criterio di verifica del nostro cammino di santità: «in che misura la nostra vita si va trasformando alla luce della misericordia?», si chiede Francesco (GE 103).
Quindi non c'è santità senza riferimento a Gesù. È decisiva la relazione con Lui, incontro che determina la conversione. L'Esortazione sceglie di presentare Gesù prevalentemente come "Maestro" (GE 63.66.96.150.156), attributo che dà il titolo al capitolo terzo. Si tratta di un punto di partenza, per gli incipienti, utile per aprire un discorso su Gesù, come del resto fanno anche i Vangeli. Egli è maestro, infatti, se l'uomo riconosce con umiltà di avere qualcosa da imparare: «imparare da Lui, imparare sempre. Se non ascoltiamo, tutte le nostre parole saranno unicamente rumori che non servono a niente» (GE 150). Ma Gesù non è solo il maestro, Egli è la stessa verità che è insegnata, perché essa coincide con la sua persona. Nel testo Gesù è pure il Risorto (GE 137.139.142.145.151.173) che «condivide la sua vita potente con le nostre fragili vite» (GE 18). È inoltre il Cristo e il Signore. Gli Evangeli ci consegnano anche altre dense professioni cristologiche, secondo una graduale oggettivazione della fede: Gesù è sì Maestro, ma poi anche Profeta, il Cristo, il Salvatore, il Risorto, lo Sposo, il Fratello.
Per vivere solo per Lui
Consola la presenza nell'Esortazione di una bella professione di fede di Charles de Foucault: «Appena credetti che c'era un Dio, compresi che non potevo fare altrimenti che vivere solo per Lui» (GE 155). E cosa significa "vivere per Lui" se non «respirare Gesù», essere suo «riflesso», «profumo», «immagine»? (Citazioni tratte da G. Bellia [ed.], La fraternità a costo della vita. Cento pagine di Charles de Foucauld, Città Nuova, Roma 2004, p. 40).
La più chiara indicazione dell'itinerario in Cristo e nella Chiesa è forse offerta al n. 157 del documento: «L'incontro con Gesù nelle Scritture ci conduce all'Eucaristia, dove la stessa Parola raggiunge la sua massima efficacia, perché è presenza reale di Colui che è Parola vivente. Lì l'unico Assoluto riceve la più grande adorazione che si possa dargli in questo mondo, perché è Cristo stesso che si offre. E quando lo riceviamo nella comunione, rinnoviamo la nostra alleanza con Lui e gli permettiamo di realizzare sempre più la sua azione trasformante» (GE 157). Processione alla quale i diaconi sono avvezzi: dalle Scritture all'Eucarestia, tuttavia anche da quest'ultima alla diaconia.
I "nemici" della santità
In un'ottica diaconale sono molto interessanti le riflessioni presenti nel capitolo secondo sui "nemici della santità": gnosticismo e pelagianesimo. L'Esortazione si muove suggerendo dottrina e profili ecclesiali attuali che vi possono corrispondere. Gli gnostici di oggi, secondo il Papa, si sono rinchiusi nel soggettivismo, «disincarnando il mistero». Essi possiedono «una mente senza incarnazione, incapace di toccare la carne sofferente di Cristo negli altri» (GE 37). E quando mente e cuore sono freddi, si enfatizza il primato dell'idea, della conoscenza di una dottrina recepita in modo sterile, manca l'umiltà e si cerca di «dominare tutto» (GE 39). Come antidoto a tale "patologia" il Papa richiama il tema dell'unzione spirituale, riprendendolo da San Bonaventura, intendendo rimarcare il primato del dono, della grazia e dello Spirito Santo. Poi Francesco precisa che quelli che hanno risposte per tutte le domande sono falsi profeti, poiché, insiste il Pontefice, «nella Chiesa convivono legittimamente modi diversi di interpretare molti aspetti della dottrina e della vita cristiana che, nella loro varietà, aiutano a esplicitare meglio il ricchissimo tesoro della Parola» (GE 43).
Gli ostacoli antichi e nuovi
Gnosticismo e pelagianesimo ostacolano dunque la santità. Ma in che modo potrebbero ripresentarsi nel ministero diaconale? Una risposta potrebbe rintracciarsi nella distinzione tra visione ontologica e funzionale del ministero. Mi sembra che sia gnosticismo che pelagianesimo rientrino entrambe nella prima opzione, quella ontologica, che pare contenere i vizi di forma dell'uno e dell'altro: estrinsecismo, cultualismo, formalismo, cerimonialismo, apparire, presenzialismo, clericalismo ma anche accentuazione del trionfalismo e giuridicismo, e quindi mondanità.
"Patologie" che manifestano sia una devianza dell'idea che della volontà, per cui non c'è più profezia e la Parola di Dio appare ingessata, e inoltre, come scrive anche Francesco, si registra una lontananza dai problemi reali del mondo. Vivere in tal modo il proprio diaconato, come anche il sacerdozio e per certi versi anche la propria indole laicale, significa avviarsi su sentieri tortuosi. Ma questo vuoi dire allora che una visione funzionale del ministero è quella più corretta? Vediamone dapprima le caratteristiche: interventismo, attivismo, intraprendentismo, enfatizzazione sulle opere di misericordia e sulla ricerca della giustizia, sul servizio verso le marginalità, e quindi verso i poveri, gli ultimi, gli immigrati. Opzione che appare subito a prima vista più conforme al Vangelo e quindi più nobile. Tuttavia, almeno nel recente passato ecclesiale, si è trattato dell'esercizio di atti virtuosi che rimandavano ad un'esemplarità individuale.
La necessità di una chiesa sinodale
Il rischio era ed è quello di un deficit di ecclesialità, di comunione. Forse la scelta d'insistere su una Chiesa in permanente assetto sinodale può essere vista come una terapia all'individualismo. Ma se la sinodalità non si riscopre come un camminare alla luce della Parola verso l'Eucarestia, non si rischia di oscurare il contributo della grazia sacramentale? In particolar modo di quella mediazione eucaristica che in ultima analisi è la sorgente di un'autentica diaconia? Da dove nascono infatti l'attenzione e la misericordia verso i poveri, gli ultimi e gli immigrati se non dall'Eucarestia? Uno sbilanciamento in senso funzionale può far dimenticare questo decisivo passaggio e far scivolare verso quel pelagianesimo che si denuncia. Sarà invece necessario riaffermare la centralità cristologica del Nome di Gesù, proclamato nella Parola, celebrato nell'Eucarestia, servito nei fratelli.
La nuova ecclesiologia
La questione interpella la stessa riflessione ecclesiologica. Significativamente nell'Esortazione sulla santità, come anche nei precedenti testi, il Papa richiama il contributo delle conferenze episcopali dei vari paesi e continenti. Una scelta che pare valorizzare quanto suggerito in Lumen Gentium al n. 23 a proposito della collegialità ecclesiale e della dottrina delle chiese particolari e locali. Realtà che già don Giuseppe Dossetti considerava come uno dei frutti più promettenti del Concilio, ritenendo tuttavia, sulla scorta di Sacrosanctum Concilium n. 41, che «l'assemblea eucaristica presieduta dal Vescovo nella sua cattedrale come principale manifestazione della Chiesa. Cioè - aggiungeva - la dottrina della Chiesa locale si potenzia necessariamente in una ecclesiologia eucaristica» (G. Dossetti, "Dalla Lumen Gentium la nuova ecclesiologia", in G. Sellia [a cura di], La Chiesa diaconia universale di salvezza, Edizioni San Lorenzo, Reggio Emilia 2004,37-36,43).
Il dono che viene dall'alto
Il monaco di Monteveglio avanzava alcune perplessità sull'istituto del Sinodo dei Vescovi poiché riteneva che non potesse realizzare una collegialità effettiva ma solo affettiva o vissuta. La sinodalità può cioè innescare processi d'intesa, convergenza, dialogo ed interazione, tutti fattori che appartengono ad una buona antropologia di base, ma dopo è necessario accogliere un dono che viene dall'alto che si avvale di determinate mediazioni. Un'autentica sinodia non può nascere dal basso. Un'ecclesiologia eucaristica ne custodisce il segreto e la memoria, secondo un cammino che nasce dal silenzio e si accoglie nel medesimo silenzio e nello stupore.
Gesù al centro
L'Esortazione presenta la santità come la nostra unione con Gesù e con il Padre (cf. citazione di Gv 17,21 in GE 146): «Il disegno del Padre è Cristo, e noi in Lui»; la santità è «Cristo che ama in noi» per questo essa è «la carità pienamente vissuta» (GE 21). C'è il desiderio di recuperare un'unità perduta, forse come risposta all'individualismo sfrenato di questo tempo e al suo soggettivismo esasperato che tutto divide, atomizza e frammenta. Gli stessi interventi del pontefice si pongono come tentativo di ritessitura di ciò che è infranto, in primis delle relazioni umane, tra gli stati e i popoli, cercando di valorizzare l'operosità artigiana come strumento dei processi di pacificazione e di dialogo. Tutto nel segno dell'ascolto dell' altro e della misericordia.
Una tale tensione verso l'unità si ritrova anche negli scritti del teologo sloveno padre Marco Ivan Rupnik, che riprendendo Solovièv, parla di "tutt'unità", come di un essere "l'uno nell'altro", dalla Trinità a noi. Realtà esemplificata nell'Eucarestia. Anche Romano Guardini, come ha segnalato un recente studio del teologo sistematico don Massimo Naro, Archetipo e immagine, simuoveva in una simile prospettiva ma nella sua Gegensatz (teoria dell'oppositore polare) preferiva esprimersi con l'espressione "l'uno dall'altro" (M. Naro, Archetipo e immagine. Riflessioni teologiche sulla scia di Romano Guardini, Rubettino, Soveria Mannelli 2018). È proprio il rapporto "iconico" che Dio instaura con l'essere umano, fin da quando lo chiama ad esistere con l'atto creativo.
Per conoscere l'uomo è necessario conoscere Dio
La relazione tra Dio e l'uomo va compresa, appunto, dentro la polarità che sussiste fra Archetipo (Dio) e immagine (l'uomo), alla luce della Rivelazione. Per questo Guardini amava ripetere che per conoscere l'uomo è necessario conoscere Dio. Diviene allora decisiva la centralità di Cristo Gesù: è in lui che si realizza l'unità, tra il divino e l'umano; è in lui che il divino e l'umano si esigono a vicenda, senza mai prevaricarsi. In Cristo Gesù Dio non è più immaginabile come un faraone che schiaccia i suoi sudditi; l'uomo - a sua volta - non cede più all'antica tentazione di sostituirsi al suo Creatore.
Il teologo italo-tedesco, il cui capolavoro cristologico è il famoso saggio Il Signore, resta un autore caro a Papa Francesco, come lo stesso Naro spiega in alcuni passaggi del suo libro. Bergoglio, difatti, ha voluto riprendere la "logica" di Guardini, quella delle opposizioni polari, della coincidentia oppositorum, nell'Esortazione programmatica del suo pontificato, la Evangelii Gaudium.
Come riconoscere Gesùnei poveri e nei offerenti?
La centralità di Cristo non è estranea all'Esortazione, che infatti presenta la santità come il «vivere in unione con Lui (Gesù) i misteri della vita» (GE 20), come l' «unirsi alla morte e resurrezione del Signore in modo unico e personale» (GE 20), in sintesi come il «riprodurre nella propria esistenza alcuni aspetti della vita terrena di Gesù». Poiché è Gesù che occorre riconoscere nei poveri e nei sofferenti. È Lui, il suo cuore, «i suoi sentimenti, le sue scelte più profonde, alle quali ogni santo cerca di conformarsi» (GE 96). Tra queste scelte c'è l'accoglienza dello straniero (GE 102.103). Realtà che va liberata da ogni strumentalizzazione politica e da ogni sudditanza verso le suggestioni dei tempi, e vista innanzitutto come sfida profetica del Vangelo, come "parola" d'inciampo, di scandalo (cf. Mt 25,35), che può essere utile come criterio di verifica del nostro cammino di santità: «in che misura la nostra vita si va trasformando alla luce della misericordia?», si chiede Francesco (GE 103).
Quindi non c'è santità senza riferimento a Gesù. È decisiva la relazione con Lui, incontro che determina la conversione. L'Esortazione sceglie di presentare Gesù prevalentemente come "Maestro" (GE 63.66.96.150.156), attributo che dà il titolo al capitolo terzo. Si tratta di un punto di partenza, per gli incipienti, utile per aprire un discorso su Gesù, come del resto fanno anche i Vangeli. Egli è maestro, infatti, se l'uomo riconosce con umiltà di avere qualcosa da imparare: «imparare da Lui, imparare sempre. Se non ascoltiamo, tutte le nostre parole saranno unicamente rumori che non servono a niente» (GE 150). Ma Gesù non è solo il maestro, Egli è la stessa verità che è insegnata, perché essa coincide con la sua persona. Nel testo Gesù è pure il Risorto (GE 137.139.142.145.151.173) che «condivide la sua vita potente con le nostre fragili vite» (GE 18). È inoltre il Cristo e il Signore. Gli Evangeli ci consegnano anche altre dense professioni cristologiche, secondo una graduale oggettivazione della fede: Gesù è sì Maestro, ma poi anche Profeta, il Cristo, il Salvatore, il Risorto, lo Sposo, il Fratello.
Per vivere solo per Lui
Consola la presenza nell'Esortazione di una bella professione di fede di Charles de Foucault: «Appena credetti che c'era un Dio, compresi che non potevo fare altrimenti che vivere solo per Lui» (GE 155). E cosa significa "vivere per Lui" se non «respirare Gesù», essere suo «riflesso», «profumo», «immagine»? (Citazioni tratte da G. Bellia [ed.], La fraternità a costo della vita. Cento pagine di Charles de Foucauld, Città Nuova, Roma 2004, p. 40).
La più chiara indicazione dell'itinerario in Cristo e nella Chiesa è forse offerta al n. 157 del documento: «L'incontro con Gesù nelle Scritture ci conduce all'Eucaristia, dove la stessa Parola raggiunge la sua massima efficacia, perché è presenza reale di Colui che è Parola vivente. Lì l'unico Assoluto riceve la più grande adorazione che si possa dargli in questo mondo, perché è Cristo stesso che si offre. E quando lo riceviamo nella comunione, rinnoviamo la nostra alleanza con Lui e gli permettiamo di realizzare sempre più la sua azione trasformante» (GE 157). Processione alla quale i diaconi sono avvezzi: dalle Scritture all'Eucarestia, tuttavia anche da quest'ultima alla diaconia.
I "nemici" della santità
In un'ottica diaconale sono molto interessanti le riflessioni presenti nel capitolo secondo sui "nemici della santità": gnosticismo e pelagianesimo. L'Esortazione si muove suggerendo dottrina e profili ecclesiali attuali che vi possono corrispondere. Gli gnostici di oggi, secondo il Papa, si sono rinchiusi nel soggettivismo, «disincarnando il mistero». Essi possiedono «una mente senza incarnazione, incapace di toccare la carne sofferente di Cristo negli altri» (GE 37). E quando mente e cuore sono freddi, si enfatizza il primato dell'idea, della conoscenza di una dottrina recepita in modo sterile, manca l'umiltà e si cerca di «dominare tutto» (GE 39). Come antidoto a tale "patologia" il Papa richiama il tema dell'unzione spirituale, riprendendolo da San Bonaventura, intendendo rimarcare il primato del dono, della grazia e dello Spirito Santo. Poi Francesco precisa che quelli che hanno risposte per tutte le domande sono falsi profeti, poiché, insiste il Pontefice, «nella Chiesa convivono legittimamente modi diversi di interpretare molti aspetti della dottrina e della vita cristiana che, nella loro varietà, aiutano a esplicitare meglio il ricchissimo tesoro della Parola» (GE 43).
Gli ostacoli antichi e nuovi
Gnosticismo e pelagianesimo ostacolano dunque la santità. Ma in che modo potrebbero ripresentarsi nel ministero diaconale? Una risposta potrebbe rintracciarsi nella distinzione tra visione ontologica e funzionale del ministero. Mi sembra che sia gnosticismo che pelagianesimo rientrino entrambe nella prima opzione, quella ontologica, che pare contenere i vizi di forma dell'uno e dell'altro: estrinsecismo, cultualismo, formalismo, cerimonialismo, apparire, presenzialismo, clericalismo ma anche accentuazione del trionfalismo e giuridicismo, e quindi mondanità.
"Patologie" che manifestano sia una devianza dell'idea che della volontà, per cui non c'è più profezia e la Parola di Dio appare ingessata, e inoltre, come scrive anche Francesco, si registra una lontananza dai problemi reali del mondo. Vivere in tal modo il proprio diaconato, come anche il sacerdozio e per certi versi anche la propria indole laicale, significa avviarsi su sentieri tortuosi. Ma questo vuoi dire allora che una visione funzionale del ministero è quella più corretta? Vediamone dapprima le caratteristiche: interventismo, attivismo, intraprendentismo, enfatizzazione sulle opere di misericordia e sulla ricerca della giustizia, sul servizio verso le marginalità, e quindi verso i poveri, gli ultimi, gli immigrati. Opzione che appare subito a prima vista più conforme al Vangelo e quindi più nobile. Tuttavia, almeno nel recente passato ecclesiale, si è trattato dell'esercizio di atti virtuosi che rimandavano ad un'esemplarità individuale.
La necessità di una chiesa sinodale
Il rischio era ed è quello di un deficit di ecclesialità, di comunione. Forse la scelta d'insistere su una Chiesa in permanente assetto sinodale può essere vista come una terapia all'individualismo. Ma se la sinodalità non si riscopre come un camminare alla luce della Parola verso l'Eucarestia, non si rischia di oscurare il contributo della grazia sacramentale? In particolar modo di quella mediazione eucaristica che in ultima analisi è la sorgente di un'autentica diaconia? Da dove nascono infatti l'attenzione e la misericordia verso i poveri, gli ultimi e gli immigrati se non dall'Eucarestia? Uno sbilanciamento in senso funzionale può far dimenticare questo decisivo passaggio e far scivolare verso quel pelagianesimo che si denuncia. Sarà invece necessario riaffermare la centralità cristologica del Nome di Gesù, proclamato nella Parola, celebrato nell'Eucarestia, servito nei fratelli.
La nuova ecclesiologia
La questione interpella la stessa riflessione ecclesiologica. Significativamente nell'Esortazione sulla santità, come anche nei precedenti testi, il Papa richiama il contributo delle conferenze episcopali dei vari paesi e continenti. Una scelta che pare valorizzare quanto suggerito in Lumen Gentium al n. 23 a proposito della collegialità ecclesiale e della dottrina delle chiese particolari e locali. Realtà che già don Giuseppe Dossetti considerava come uno dei frutti più promettenti del Concilio, ritenendo tuttavia, sulla scorta di Sacrosanctum Concilium n. 41, che «l'assemblea eucaristica presieduta dal Vescovo nella sua cattedrale come principale manifestazione della Chiesa. Cioè - aggiungeva - la dottrina della Chiesa locale si potenzia necessariamente in una ecclesiologia eucaristica» (G. Dossetti, "Dalla Lumen Gentium la nuova ecclesiologia", in G. Sellia [a cura di], La Chiesa diaconia universale di salvezza, Edizioni San Lorenzo, Reggio Emilia 2004,37-36,43).
Il dono che viene dall'alto
Il monaco di Monteveglio avanzava alcune perplessità sull'istituto del Sinodo dei Vescovi poiché riteneva che non potesse realizzare una collegialità effettiva ma solo affettiva o vissuta. La sinodalità può cioè innescare processi d'intesa, convergenza, dialogo ed interazione, tutti fattori che appartengono ad una buona antropologia di base, ma dopo è necessario accogliere un dono che viene dall'alto che si avvale di determinate mediazioni. Un'autentica sinodia non può nascere dal basso. Un'ecclesiologia eucaristica ne custodisce il segreto e la memoria, secondo un cammino che nasce dal silenzio e si accoglie nel medesimo silenzio e nello stupore.
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