La rischiosa libertà dei santi di dire la verità


Il diaconato in Italia n° 214
(gennaio/febbraio 2019)

EDITORIALE


La rischiosa libertà dei santi di dire la verità
di Giuseppe Bellia

Unire santità e parresìa nell'ottica del servizio diaconale è un tema inusuale che, forse, attirerà l'attenzione di qualche volenteroso lettore, interessato a capire cosa si muove nel remissivo mondo della diaconia ordinata nel nostro paese. Da ultimo, è vero, si assiste a sussulti di riflessioni teologiche generate dalle istanze pastorali emergenti, come anche all'affollarsi di iniziative promozionali sul diaconato; ma tutto ciò ha a che fare con la santità? Si può dire che sono esempio e testimonianze di feconda parresìa cristiana?
Una chiarificazione dei due termini implicati si rende quindi necessaria, per evitare quel procedimento di usura e di adattamento del senso che, nel mondo moderno, ha costretto la dimensione verbale ad andare in esilio, lontano dalla verità. Una riflessione sensata e pacata, esercitandosi nel parlare franco, può orientare a cogliere aspetti non marginali della santità e della parresìa richieste ai diaconi in ragione del loro ministero. Si deve peraltro precisare che queste due realtà, anche se caratterizzate da tratti peculiari per chi svolge un servizio ecclesiale, non hanno una consistenza testimoniale diversa da quella richiesta a tutti i battezzati che, spinti dallo Spirito Santo, hanno a cuore di seguire Gesù, il santo di Dio che è «via, verità e vita» (Gv 14,6).
Su come intendere biblicamente la santità, sembra che non ci sia molto da chiarire perché, contrariamente alla regola della linguistica, secondo cui nel tempo le espressioni perdono continuamente forza, il termine "santo", Qadòsh, nella storia religiosa d'Israele ha visto una progressiva crescita di senso, raggiungendo una comprensione sempre più elevata e illuminante della santità divina. Una sorte diversa è toccata invece alla comprensione antropologica e pastorale della santità e dei santi, com'è ormai recepita nel sentire comune del nostro tempo. Nella Bibbia, la radice Qadòsh ha vari significati che propendono nell'insieme verso un convergente senso pratico: si è in presenza del sacro quando a una cosa comune, ordinaria si assegna un valore, unico, particolare. Gli esempi sono molteplici: dalla consacrazione del Sabato sottratto alla genericità dei giorni eguali, «Domani è sabato, riposo assoluto sacro al Signore» (Es 16,23), all'impegno dei ministri chiamati a discernere «ciò che è santoda ciò che è profano» (Lv 10,10), perché tutto il popolo deve imparare a «distinguere tra il sacro e il profano» (Ez 44,23). Alla luce di questo, ciò che consente di attribuire il valore di qòdesh, ("sacro" o "santo") a uomini e cose, a luoghi e tempi, non è nelle potenzialità umane o nell'accadere di eventi eccezionali, ma è sempre collegato all'opera del Signore, alla sua volontà, al suo Spirito di santità. Il popolo che Dio si è scelto, ha perciò il dovere di essere "santo": «santificatevi dunque e siate santi poiché lo sono santo» (Lv 11,44), un precetto ripetuto sotto diverse forme in vari passi della Torà, che trova in Dio la sua ragione sufficiente, perché «non vi è santo come il Signore, non ve n'è un altro all'infuori di Lui» (1Sam 2,2).
Non si dica che questa forma di santità, prospettata dall'antica alleanza, abbia poco a vedere con i ministri cristiani. Basta ricordare quanto scrive l'autore della Lettera agli Ebrei che, dopo aver elencato le testimonianze esemplari dei santi d'Israele, afferma: «anche noi dunque, circondati da un così gran nugolo di testimoni, deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede» (12,1-2).
Parresìa è una locuzione antica, dotta, entrata di recente nel linguaggio non solo ecclesiale che richiede un'articolata presentazione. Il termine composto da pan (tutto) e resis (ciò che è detto), s'incontra già in Euripide (V secolo a.c.) e ricorre nel mondo letterario greco. Letteralmente significa "dire tutto" e, per estensione, è inteso come un "parlare liberamente", un "parlare con franchezza", un "parlare con audacia", implicando non solo la libertà di parlare ma anche il dovere, l'obbligo di dire la verità. Per gli antichi greci la parresìa, come libertà di dire la verità, è autentica solo quando chi la esercita si espone personalmente, scegliendo «il rischio invece della sicurezza, la critica invece dell'adulazione, il dovere morale invece del proprio tornaconto o dell'apatia morale».
I discepoli di Cristo sanno che la parresìa biblica è vera attività profetica che richiede nei nostri giorni, confusi e meschini, il coraggio di dire la verità evangelica dell'accoglienza contro ogni paura ed egoismo miope che ha irretito intere comunità cristiane. E i nostri diaconi si sono esposti in prima fila nel dire questa verità contro ogni mistificazione populista? E quanti si ammantano della libertà profetica nel proporre conclamate riforme, che non richiedono nemmeno il rischio della conversione, quale pericolo corrono nell'assecondare l'andazzo dei tempi?


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