Il bene grande della fraternità


Il diaconato in Italia n° 213
(novembre/dicembre 2018)

RIFLESSIONI


Il bene grande della fraternità
di Emilio Rocchi

Possiamo non impegnarci a diffondere la cultura della fraternità?
Saulo di Tarso per quanto vissuto a Damasco nei giorni della vocazione e missione ha intuito il legame tra Gesù e quanti appartengono alla Via (cf. At 9, 3) e così ha potuto parlare della Chiesa usando l'immagine del corpo e delle membra, le quali vivono l'una per l'altra, secondo l'ordine che vi ha iscritto Dio(cf. 1Cor 12-14). Ma cosa accade a molti? Con le scelte che si operano e il tipo di vita che si conduce, mi sembra che si sia portati ad esprimere il nostro-Io più che la Chiesa-Noi, facendo prevalere la autonomia delle parti rispetto alla comunione che lega i battezzati; quando non sperimentiamo, la conflittualità con gli altri, che sarebbero nostri fratelli e sorelle.
E, come mai? Spesso si vive senza comprendere la necessità della condivisione e della vita fraterna tra discepoli-missionari, mentre le circostanze chiedono di mettersi con decisione in uno stato permanente di conversione, individuale e comunitario, che incida non in modo estetico o verbale (quante volte ci si accorge che si aggiungono nuovi modi di esprimersi, ma non cambia nulla né in noi né attorno a noi). Si tratta di convertirci "nella mente, nel cuore e nelle mani". È quanto accadde nel Vaticano II ai padri conciliari. Essi per una speciale azione dello Spirito Santo si accorsero che non solo non avrebbero potuto più celebrare la liturgia né parlare della Chiesa come si era fatto da secoli (anche con autentici modelli di santità), ma che era indispensabile renderne esplicito il mistero.

Purificati nella mente
Dobbiamo dire a noi stessi che la realtà creata è comunitaria. Tutto ciò che Dio ha creato non può che avere la sua impronta: la vita di Dio uno e trino, e tutto ciò che è e che desidera esprimere la Chiesa non può che manifestare il Mistero della Trinità che Gesù è venuto a svelare pienamente; mistero che siamo chiamati a vivere, ad annunciare e a celebrare nella Parola e nei Sacramenti.
Il Battesimo ci ha inseriti in un unico corpo per l'azione dello Spirito Santo e il sacerdozio ministeriale - quando si vive ciò che si celebra e si celebra quanto si vive cioè la Pasqua del Signore - dà un contributo preziosissimo alla Chiesa-Gesù. E ciascuno deve decidersi se essere inserito non solo per la grazia dei sacramenti ma anche esistenzialmente, cioè chiedendo la Grazia di poter testimoniare e annunciare con gli altri la luce della Pasqua. E coloro che accettano consapevolmente questa seconda dimensione, si accorgono che non solo fanno parte del popolo che Dio ha costituito profetico, regale e sacerdotale ma ne contribuiscono in una maniera speciale alla vitalità e all'irradiazione.

Trasformati nel cuore
Siamo sollecitati ad avere presente il mistero di Dio, Uno in tre Persone, Tre Persone che sono un solo Dio, nella liturgia e nella vita della Chiesa: corpo nel quale le persone, diverse ma non separate tra loro, si impegnano (con la grazia di Cristo) a mettere l'amore, al posto giusto, e a vivere la fraternità nella reciprocità - che "ab aeterno" caratterizza Padre e Figlio e Spirito Santo: l'amore reciproco è il debito che hanno (cf. Rm 13, 8), perché è il Comandamento nuovo di Gesù (cf. Gv 13, 34s) - sino a vedere l'azione dello Spirito Santo.
Egli infatti può trasformare il nostro cuore dilatandolo sulla misura di quello del Crocifisso: egli può aprire le nostre mani e spalancarle come quelle del Crocifisso.
Egli può allargare l'interiorità del singolo; Egli può portare le persone alla fraternità mistica, a patto che non ne eliminino l'indispensabile ascetica! Sono attuali le indicazioni di Giovanni Paolo II all'inizio del terzo millennio; esse tengono presente ciò che aveva scritto Paolo VI sulla necessità di ridare il giusto posto alla virtù teologale della carità: «"Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri" (Gv 13,35). Se abbiamo veramente contemplato il volto di Cristo, carissimi Fratelli e Sorelle, la nostra programmazione pastorale non potrà non ispirarsi al "comandamento nuovo" che egli ci ha dato: "Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri" (Gv 13,34). È l'altro grande ambito in cui occorrerà esprimere un deciso impegno programmatico, a livello di Chiesa universale e di Chiese particolari: quello della comunione (koinonìa) che incarna e manifesta l'essenza stessa del mistero della Chiesa. La comunione è il frutto e la manifestazione di quell'amore che, sgorgando dal cuore dell'eterno Padre, si riversa in noi attraverso lo Spirito che Gesù ci dona (cf. Rm 5,5), per fare di tutti noi "un cuore solo e un'anima sola" (At 4,32)».
«È realizzando questa comunione di amore che la Chiesa si manifesta come "sacramento", ossia "segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano" (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 1). Le parole del Signore, a questo proposito, sono troppo precise per poterne ridurre la portata. Tante cose, anche nel nuovo secolo, saranno necessarie per il cammino storico della Chiesa; ma se mancherà la carità (agape), tutto sarà inutile. È lo stesso apostolo Paolo a ricordarcelo nell'inno alla carità: se anche parlassimo le lingue degli uomini e degli angeli, e avessimo una fede "da trasportare le montagne", ma poi mancassimo della carità, tutto sarebbe "nulla" (cf. 1Cor 13,2). La carità è davvero il "cuore" della Chiesa, come aveva ben intuito santa Teresa di Lisieux, che ho voluto proclamare Dottore della Chiesa proprio come esperta della scientia amoris: "Capii che la Chiesa aveva un Cuore e che questo Cuore era acceso d'Amore. Capii che solo l'Amore faceva agire le membra della Chiesa [...] Capii che l'Amore racchiudeva tutte le Vocazioni, che l'Amore era tutto" (MsB 3vo, Opere complete, Città del Vaticano, 1997, 223)».

Capaci di "sporcarsi" le mani
Giovanni Paolo II ha fortemente invitato a scommettere sulla carità: «Dalla comunione intra-ecclesiale, la carità si apre per sua natura al servizio universale, proiettandoci nell'impegno di un amore operoso e concreto verso ogni essere umano. È un ambito, questo, che qualifica in modo ugualmente decisivo la vita cristiana, lo stile ecclesiale e la programmazione pastorale. Il secolo e il millennio che si avviano dovranno ancora vedere, ed anzi è auspicabile che lo vedano con forza maggiore, a quale grado di dedizione sappia arrivare la carità verso i più poveri. Se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi: "Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt 25,35-36).

Un fascio di luce sul mistero di Cristo
Questa pagina non è un semplice invito alla carità: è una pagina di cristologia, che proietta un fascio di luce sul mistero di Cristo. Su questa pagina, non meno che sul versante dell'ortodossia, la Chiesa misura la sua fedeltà di Sposa di Cristo. Certo, non va dimenticato che nessuno può essere escluso dal nostro amore, dal momento che "con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo" (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 22). Ma stando alle inequivocabili parole del Vangelo, nella persona dei poveri c'è una sua presenza speciale, che impone alla Chiesa un'opzione preferenziale per loro. Dobbiamo per questo fare in modo che i poveri si sentano, in ogni comunità cristiana, come "a casa loro". Non sarebbe, questo stile, la più grande ed efficace presentazione della buona novella del Regno? Senza questa forma di evangelizzazione, compiuta attraverso la carità e la testimonianza della povertà cristiana, l'annuncio del Vangelo, che pur è la prima carità, rischia di essere incompreso o di affogare in quel mare di parole a cui l'odierna società della comunicazione quotidianamente ci espone. La carità delle opere assicura una forza inequivocabile alla carità delle parole».
Ma chi sono queste persone purificate nella mente, trasformate nel cuore e capaci di "sporcarsi" le mani? I diaconi sono tra le prime persone che non possono non lasciarsi coinvolgere in tutto ciò. Essi sono chiamati a viverlo da protagonisti, cioè, a stare accanto agli altri con la letizia tipica di chi ama e serve nel nome di Gesù; di saper scegliere gli ultimi posti per sostenere i più fragili e deboli, senza orgoglio alcuno; di capire quando andare davanti per aprire strade nuove, con disponibilità verso il vescovo.
Come è importante saper stare dove ci è detto di stare o dove le circostanze ci pongono con semplicità e umiltà! Per questo, la prima carità che possono vivere è quella che sono chiamati ad esercitare tra loro e il vescovo, tra loro, i ministri ordinati e le persone che incontrano o sono chiamate a servire. E i primi poveri di cui si prendono cura sono i poveri, i "nuovi poveri", le persone cioè che desidererebbero tornare a "casa", ma sono intimorite e frenate dai "fratelli maggiori" che pensano di non sbagliare e si vantano con poca verità e scarsa umiltà di non averlo mai fatto!

Per vincere la cultura dell'efficenza
Con la grazia di Dio, i diaconi sono chiamati a combattere la "cultura del single" imposta dal mondo in modo pervasivo e rilanciare la cultura del popolo di Dio, della famiglia di Dio (quella che c'è e non quella che desidererei!). Sì, con la grazia di Dio, i diaconi possono vincere la "cultura dell'efficienza" se pongono la certa speranza nella fruttuosità di rimanere sempre con Gesù, anche quando si tratta di stare sotto la croce, come Maria e Giovani. Sì, con la grazia di Dio, i diaconi, in particolare, possono vincere la "cultura del merito del singolo" dandosi da fare per valorizzare persone e carismi e non pensano che è ben fatto solo quanto coincide con il loro modo di pensare e agire.
Mi sembra tanto interessante per le nostre comunità quanto l'Evangelii gaudium afferma sul rapporto tra giovani e anziani: «Come ho già detto, non ho voluto offrire un'analisi completa, ma invito le comunità a completare ed arricchire queste prospettive a partire dalla consapevolezza delle sfide che le riguardano direttamente o da vicino. Spero che quando lo faranno tengano conto che, ogni volta che cerchiamo di leggere nella realtà attuale i segni dei tempi, è opportuno ascoltare i giovani e gli anziani. Entrambi sono la speranza dei popoli. Gli anziani apportano la memoria e la saggezza dell'esperienza, che invita a non ripetere stupidamente gli stessi errori del passato. I giovani ci chiamano a risvegliare e accrescere la speranza, perché portano in sé le nuove tendenze dell'umanità e ci aprono al futuro, in modo che non rimaniamo ancorati alla nostalgia di strutture e abitudini che non sono più portatrici di vita nel mondo attuale. Le sfide esistono per essere superate. Siamo realisti, ma senza perdere l'allegria, l'audacia e la dedizione piena di speranza! Non lasciamoci rubare la forza missionaria!».

Concludendo
Lo Spirito Santo ci ispira a rimanere con Lui e la sua Chiesa (cf. Gv 15,1-10); ci fa amare sino alla fine, qualsiasi cosa accada: fa credere alla fecondità della Croce (cf. Gv 12,32). La centralità della Pasqua nella vita del singolo e della Chiesa: «Ma come Cristo ha compiuto l'opera della redenzione in povertà e nella persecuzione, così la Chiesa è chiamata ad incamminarsi per la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. […] Dalla potenza del Signore risorto viene corroborata per vincere con pazienza e carità le sue afflizioni e difficoltà interne ed esterne e per svelare al mondo con fedeltà, anche se in immagine, il mistero di lui, fin quando alla fine sarà manifestato in piena luce».

(E. Rocchi, parroco di Civitanova Marche, diocesi di Fermo,
è docente di teologia dogmatica presso l'Istituto Teologico Marchigiano)


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