XXIV Domenica del Tempo ordinario (B)


ANNO B – 13 settembre 2015
XXIV Domenica del Tempo ordinario

Is 50,5-9a
Gc 2,14-18
Mc 8,27-35
(Visualizza i brani delle Letture)


PRENDERE
LA PROPRIA CROCE

Leggiamo come prima lettura il terzo canto del servo, descritto come un profeta che si affida alla Parola, non si oppone ad essa. La chiave di lettura del brano è data dalla fiducia di questo personaggio, che anticipa la figura di Cristo sofferente, che affronta il giudizio e la passione. L'abbandono alla Parola si realizza con l'abbandono nelle mani degli uomini, a un giudizio ingiusto. L'ingiusto giudizio e la pena mettono in questione l'innocenza di una persona; il non difendersi può essere interpretato come un'ammissione di colpa. È possibile agire come il servo se ci si affida a un altro giudizio, quello di Dio; se si confida in un avvocato capace, che rende inefficaci tutte le accuse. Il canto si chiude con una sfida: chiunque pensa di poter accusare un profeta e di giudicarlo colpevole, lo faccia. Chi lo fa, sappia che Dio assiste i suoi profeti.
Queste di Isaia sono parole oggetto di molti studi, molto si discute sull'identificazione del servo, si finisce per leggerle solo con un interesse culturale. Esse, invece, presentano la scelta che ogni credente si trova a fare, se fidarsi o meno della parola di Dio, consapevole che affidarsi ad essa pone sicuramente in una situazione difficile. Cercare l'approvazione di Dio o quella degli uomini è un tema sempre attuale per chiunque. La chiave di soluzione è la fiducia e, per un profeta, la storia. La storia delle persone dichiara che smettere di fidarsi di Dio non è mai una promozione per chi lo fa, è piuttosto una sconfitta che apre a tante altre sconfitte. Ma questa fiducia costa, non è a buon mercato e viene messa alla prova dagli insulti e dagli sputi, cioè dalle contraddizioni e durezze della vita.

L'apostolo Giacomo continua a farci riflettere sulla fede con il tratto che gli è proprio, quello della concretezza. Al centro della sua attenzione c'è sempre il comportamento comunitario, misurato con la cura per i poveri. Non si deve, però, leggere queste parole come se esistesse una fede separata dalle opere o viceversa. Le parole sono, nella prospettiva dell'uomo biblico, realtà che non si riducono a suoni, ma sono creatrici. Per un credente dire a una persona di stare in pace è donargliela con azioni coerenti. Giacomo sottolinea l'unità della parola credente e avvisa che quando questa viene a mancare è perché manca la fede. Se una parola è parola di fede è leggibile negli effetti che produce. La frase: «Io con le mie opere ti mostrerò la mia fede», rafforza quanto è stato detto, oltre a essere un esempio molto riuscito della capacità retorica di Giacomo. Un tema spesso ricorrente nelle nostre comunità è quello che riguarda la divisione tra la fede e la vita, una separazione addirittura. È un modo di pensare, però, che non è molto giusto, che risponde a una visione dell'uomo come se vivesse contemporaneamente dimensioni diverse. Se la mia fede non è riconoscibile nel mio modo di giudicare, di pensare e di agire, soprattutto di parlare, significa che io non ho fede. Le parole di Giacomo non servono a sollecitarci alle opere, ma a provocarci alla fede. Se credo, la mia parola è riconoscibile perché è capace di mettere in discussione il mio modo di comportarmi, e di cambiarlo; altrimenti diventa un esercizio noioso, che senza aver a che fare con la vita, risulta subito inutile.

Nella lettura del vangelo di Marco si giunge questa domenica a leggere il brano, che comunemente è indicato come il centro dell'opera di Marco. Accogliendo la definizione suggestiva di questo vangelo, come del vangelo del catecumeno, si giunge qui a un giro di boa, come se per andare avanti nel cammino ci sia bisogno dell'adesione e della fede del destinatario dell'annuncio. In effetti, la domanda di Gesù sul pensiero della gente è una domanda che spinge a pronunciarsi sulla sua identità, ed è preparatoria della vera domanda: «Ma voi chi dite che io sia». La risposta di Pietro è il centro del Vangelo: «Tu sei il Cristo». È la risposta decisiva che fonda la sequela, la verità di questa risposta si verifica nella vita.
È la risposta della vita, che Gesù chiede a Pietro, facendogli intravvedere che la realizzazione della missione del Messia sarà diversa da quello che si può pensare. L'obiezione di Pietro è la ribellione della vita, più che una non condivisione dell'idea. La risposta di Gesù, nella nuova traduzione Cei, più comprensibile che nelle altre, più che un rimprovero suona come una soluzione allo smarrimento di Pietro, che è invitato a non essere Satana, cioè a non restare chiuso nel suo mondo, il mondo degli uomini che non si fidano di Dio, ma a fidarsi di Dio, a pensare come pensa Dio.
La conclusione del brano è la catechesi che segue, qui e anche in altre occasioni, la previsione della croce. L'attenzione che Gesù pone a spiegare la croce invita a non banalizzarla. La croce per il discepolo non è un peso che gli impedisce il cammino, ma il segno caratteristico, una specie di distintivo che dà senso al cammino. Chi prende la propria croce e cammina, lo fa perché si fida di Dio. Il brano di questa domenica si chiude con un detto sapienziale, giocato sull'opposizione fra salvare e perdere la vita. Salva la propria vita chi la àncora a un Altro fuori di sé, che è capace di sostenerla; paradossalmente chi fa così, nell'evidenza, sembra che la vita la perda.

VITA PASTORALE N. 7/2015
(commento di Luigi Vari, biblista)

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