XIII Domenica del Tempo ordinario (B)


ANNO B - 28 giugno 2015
XIII Domenica del Tempo ordinario

Sap 1,13-15;2,23-24
2Cor 8,7.9.13-15
Mc 5,21-43
(Visualizza i brani delle Letture)


TOCCARE IL LEMBO
DEL MANTELLO DI GESÙ

Le parole del libro della Sapienza devono essere comprese con cura; introducono un pensiero importante, quello dell'immortalità del giusto. La morte è intesa come separazione da Dio; allontanamento dal suo disegno; rifiuto dell'esistenza. Dio non è autore del fallimento delle persone e della creazione. Nelle parole che precedono immediatamente queste che si leggono nella liturgia, si esorta l'uomo a non rovinarsi la vita con i propri errori, il più grande dei quali è bere il veleno della morte, cioè non condividere o non credere nel disegno di Dio. Il giusto, infatti, è immortale perché, legato a Dio, non permette al veleno del peccato di corromperlo. La morte è una legge per tutti, ma la corruzione della morte, il suo rifiuto o la resa di fronte ad essa dipendono dalle scelte di ognuno.
Se si interrogassero un papà o una mamma su quale mondo desidererebbero per il loro figlio, certamente parlerebbero di un mondo senza sofferenza e dolore e, se fosse possibile un mondo dove si vive fino a stancarsi dei giorni. Qualcuno, probabilmente, direbbe di sognare un mondo in cui i loro figli potessero realizzarsi come persone oneste, esprimere le loro potenzialità, essere apprezzati per le loro qualità; un mondo dove poter essere sé stessi, felici. Il sogno di tutti è quello di un mondo dove la corruzione non sia la legge; dove la corruzione non umili l'impegno e le speranze delle persone e, com'è accaduto e sta accadendo, non rubi il futuro. Questo sogno, dice il libro della Sapienza, non solo appartiene a tutti, ma è compito di ciascuno: non avvelenare il tuo mondo facendovi entrare il veleno della corruzione. Un appello, un'invocazione, quasi una preghiera che Dio fa a tutti, perché lui non vuole la rovina dei viventi.

Il brano della seconda lettera di Paolo ai Corinzi fa riferimento alla colletta che l'Apostolo sta organizzando per i fratelli di Gerusalemme. Egli fa riferimento alla ricchezza dei doni, caratteristica della comunità di Corinto, esprimendo il desiderio che quella ricchezza si traduca in una partecipazione generosa alla colletta da lui organizzata. Ci sono due criteri che guidano la generosità dei Corinzi, il primo è di ordine teologico: Cristo che si è fatto povero per arricchirli. I Corinzi sono indicati come i beneficiati dell'azione di impoverimento di Cristo, cioè dell'incarnazione. In che senso i Corinzi sono diventati ricchi? Nel senso che, grazie all'incarnazione, all'impoverimento di Cristo hanno trovato la comunione con Dio.
Il secondo criterio è di tipo sociale: si parla dell'uguaglianza come regola per la quale chi ha soccorre chi non ha. Il concetto di uguaglianza non è solo economico, è divino; chi si preoccupa, potendolo fare, delle necessità degli altri, capisce come benedizione le possibilità che ha, e imita Dio nel provvedere alle necessità dei poveri. Paolo sottolinea che questa azione non è una tribolazione; non si chiede a nessuno di ridursi sul lastrico, ma di entrare in una dinamica di amore; e fa intravvedere una sorta di cerchio della solidarietà, che diventa una garanzia per non restare soli nella necessità, in cui, dice molto realisticamente, ognuno, anche chi adesso soccorre, può trovarsi.
Fa riflettere l'importanza che Paolo dà al soccorso economico verso i fratelli più poveri, alla necessità di organizzare una colletta. È anche importante che si preoccupi di motivare teologicamente quest'azione; non si tratta solo di una sensibilità, che fa onore, ma comunque facoltativa, ma di imitazione di Cristo; non si tratta solo di bontà, ma di raccontare con i fatti la consapevolezza della grazia. La gratitudine è la chiave che fa girare tutto; si dice grazie a Cristo, mettendo i fratelli in condizione di poter dire, anch'essi, grazie. Per questo non si tratta solo di distribuire i beni, quanto la sensazione di una vita amata, importante, degna della cura degli altri. La catena del grazie è una vera catena di vita. È un dovere per un cristiano, una necessità che nasce dalla propria identità.

La guarigione della figlia di Giairo e della donna con perdite di sangue sono presentate da Marco in un racconto in cui la risurrezione della ragazza fa da contorno alla guarigione della donna. Uno dei motivi fondamentali del racconto è la folla, che circonda Gesù, e sembra essere quasi un impedimento. Il capo della sinagoga per incontrarlo deve farsi quasi largo finché, finalmente, lo vede. La donna ha nella folla un nemico; infatti, la sua malattia la rende perennemente impura e non può stare con gli altri ad aspettare il passaggio di Gesù. La folla, durante il racconto si trasforma da ostacolo a corteo curioso, ancora ostacolo per trasformarsi, dopo la risurrezione di Talità, in testimone meravigliata.
L'altra protagonista, la donna, ha fiducia in Gesù ed è disposta a rompere tutti i tabù; sfida la folla, intrufolandosi in essa e sfida la verità delle parole di Gesù, lo tocca, gli trasmette la sua impurità; ritarda il suo cammino; lo costringe a fermarsi. Finalmente guarita parla con Gesù, racconta e si alza, è in pace, diventa un inno alla fede. Giairo raccoglie la fede della donna, e accetta l'invito a non temere nonostante la notizia della morte della figlia. Resta accanto a Gesù, entra con lui e con la mamma della bambina nella stanza dove giaceva morta, crede, si fida. Anche qui c'è un tabù che viene superato, quando Gesù tocca la bambina senza vita per poterla restituire alla vita.

VITA PASTORALE N. 5/2015
(commento di Luigi Vari, biblista)

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