XII Domenica del Tempo ordinario (B)


ANNO B - 21 giugno 2015
XII Domenica del Tempo ordinario

Gb 38,1.8-11
2Cor 5,14-17
Mc 4,35-41
(Visualizza i brani delle Letture)


LA DEBOLEZZA
DELLA NOSTRA FEDE

Una bellissima pagina del libro di Giobbe, dove Dio è descritto come una voce che parla in mezzo all'uragano e ricorda con un tono, tra arrabbiato e ironico, che non si deve giustificare davanti a Giobbe che aveva giudicato oscuro il disegno della creazione. Dio parla di quando ha creato il mare, ha determinato il suo aspetto e il suo limite. Ha fermato il suo impeto, lo ha vestito di nubi e fasciato con una nuvola, facendo come una levatrice che fascia un neonato. Il mare è una creatura di Dio, anche se impetuoso, ha un limite, anche se immenso, ha un suo spazio, non può sommergere tutto con le sue onde. Il male, significato dal mare come caos impetuoso, allo stesso modo non è più forte di Dio, perché fa parte delle creature; allo stesso tempo ha un suo spazio.
Non bisogna semplificare. A chi pensa a una giustizia retributiva, si ricorda che il male non segue queste regole, che ha un suo spazio di dominio, non infinito, certo; non può sommergere la storia, ma dove le sue onde arrivano non c'è posto per distinguo e ragionamenti.
Molte volte si diventa come gli amici di Giobbe, che nel desiderio di dare un senso alla sua sofferenza finiscono per aumentarla, aggiungendovi l'umiliazione di invitarlo a cercare le sue responsabilità. Il male, il dolore a volte possono essere compresi, ma spesso sono solo caos che arriva nella vita, e l'unica cosa che si può fare è piangere e lottare. Il dolore e la sofferenza non ci dovrebbero stare, ma fanno parte della vita e Dio ha a che fare con tutto questo perché pone un limite: «L'ho chiuso fra due porte, l'ho vestito, l'ho fasciato, gli ho posto un limite, gli ho messo un chiavistello».

Il confine al male, quello definitivo, è determinato dalla croce di Cristo, dal suo amore, di cui ci parla Paolo nella seconda lettera ai Corinzi, dove parla della morte di Cristo che "ci possiede", la traduzione scelta dice l'ambivalenza del termine originale greco. Paolo parla di sé e dice che l'amore di Cristo lo spinge a impegnarsi nel suo ministero, ma anche lo limita nel non lasciarsi andare ai sentimenti negativi che la comunità aveva ispirato. L'amore di Cristo, dunque, spinge a fare il bene e mette un confine al male. Ci sono due aspetti del male che sono compagni, la morte e l'egoismo, da questi ci ha liberato Cristo con la sua morte e risurrezione e rendendoci possibile di mettere al centro del cuore non noi stessi, ma lui, che è morto e risorto. È un uomo nuovo quello che è stato liberato dal male, nuovo sia nel modo di percepire sé stesso, che in quello di percepire gli altri. Infatti, non conosce più secondo la carne, ma ha lo sguardo di Cristo. Molte volte quando si parla dell'amore di Cristo, lo si fa riferendosi a un sentimento, che non tutti sono capaci di provare; è difficile insegnare un sentimento, è esperienza personale.
Paolo rende possibile leggere il suo ,amore per Cristo, mostrandone gli effetti sulla sua vita. È la forza che lo fa continuare a impegnarsi per gli altri e che mette nel suo cuore un limite allo scoraggiamento e alla rabbia, ne parla, pure se in un brano difficile, come di qualunque altro amore. Racconta che amare è accollarsi le conseguenze degli errori della persona amata; si può vedere l'amore unico e straordinario di Gesù e se ne può misurare la grandezza perché risana la conseguenza più negativa di tutte, la morte. Amare è anche smettere di mettere sé stessi al centro del mondo. Cristo mette nella condizione di amare, offrendo di mettere sé stesso vivo al centro del cuore umano, cioè creando un'identità di persona viva che conosce, giudica e vive da vivo e non da morto. Tante volte viene da chiedersi di fronte a tanti, anche giovani, che parlano della loro vita e dei loro progetti, se siano vivi o morti. Meglio è chiederselo di sé stessi.

Il brano del vangelo di Marco è molto bello e oggetto di molte letture, tutte affascinanti e vere. Un caso in cui la Parola si rivela una sinfonia capace di raccontare la vita, ma anche di interpretarla. Ci si trova alla sera vicino al mare, uno dei luoghi che fanno da cornice all'azione di Gesù. L'inizio dell'azione dà l'idea di Gesù, che è quasi sollevato di peso e messo sulla barca per porre fine alla giornata estenuante. La tempesta che si scatena è descritta con cura, si sente soffiare il vento e si prova il senso di annegamento che prende quando arriva l'acqua in faccia.
Il lettore entra nel panico con i discepoli sulla barca. Insieme con loro si ricorda che lì c'è anche Gesù, si volta con loro e vede che dorme e si chiede perché si comporta in questo modo. I discepoli lo svegliano, anche perché occupa la parte della barca dove si manovra, è anche d'impaccio. Rapidamente, ci sono tre verbi in rapida successione: tutto il caos finisce e la tempesta diventa bonaccia. Segue la domanda di Gesù ai discepoli a proposito della loro paura e la loro fede.
Si noti che dalla fine della paura non si passa a una gioia spensierata, ma al timore e alla domanda sull'identità di Gesù. La confidenza iniziale di prendere Gesù sulla loro barca, qui si trasforma in una relazione diversa perché solo Dio può comandare alle acque. Notte, mare in tempesta, paura sono tutti dati che rendono denso questo racconto. Il mare in tempesta fa paura e toglie la capacità di giudizio, così come ogni esperienza dolorosa causa disorientamento e insicurezza. Avere Cristo sulla propria barca non è garanzia di esperienze di mare tranquillo, di una vita senza ostacoli e possibili naufragi. Chi lo ospita, però sa che c'è qualcuno da svegliare, prova a farlo.

VITA PASTORALE N. 5/2015
(commento di Luigi Vari, biblista)

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