XXVII Domenica del Tempo ordinario (A)



ANNO A - 5 ottobre 2014
XXVII Domenica del Tempo ordinario

Is 5,1-7
Fil 4,6-9
Mt 21,33-43
IL PADRONE
PIANTÒ UNA VIGNA
La parabola dei vignaioli omicidi, condivisa con gli altri sinottici, ha più che altro l'aspetto di un'allegoria storica. In altri termini, descrive la sequenza cronologica dei rapporti tra Dio e il popolo ebraico, per concludersi con la perentoria sentenza: «Io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio». S'intersecano qui, quasi a comporre un mosaico, la vigna del Signore che, secondo il cantico di Isaia, posto quale prima lettura, «è la casa d'Israele»; e i vignaioli, a cui questo terreno viene affidato, perché lo facciano fruttificare. Ebbene: ciò che cambia, nella descrizione della parabola in Matteo, sono i contadini, non la vigna, che rimane al suo posto.
E i primi sono condannati, perché non lavorano né per amore del padrone, né per amore della vigna: vogliono solo accaparrarsi la sua proprietà a spese del proprietario. Tutto ciò induce a una prima verifica da parte dei credenti, che oggi sono chiamati ad essere lavoratori nella vigna del Signore, che è la Chiesa.
Si tratta d'interrogarsi sulla motivazione vera per cui si adempie il servizio ecclesiale, tanto a livello ministeriale, quanto a livello di appartenenza al popolo di Dio. Bisogna constatare, per obiettività, che non tutti sono liberi da meschini interessi o da altre ragioni ancora più subdole: ecco perché la vigna poi viene tolta e affidata ad altri. Un'ermeneutica degli avvenimenti di ogni Chiesa locale evidenzia a sufficienza simile comportamento da parte degli operatori pastorali.

La sequenza nell'invio dei messaggeri a riscuotere i frutti che i vignaioli dovrebbero consegnare evidenzia, inoltre, il rifiuto dei profeti da parte di questi filibustieri, che raggiunge il suo acme nel rigetto del proprio Figlio, ultima chance data al padrone per far valere i propri diritti. Infatti, "da ultimo" (letteralmente "alla fine") il padrone decide di rischiare il tutto per tutto e di inviare il proprio figlio: abbiamo quindi una sceneggiatura drammatica di tutta l'economia salvifica del Primo Testamento fino a Gesù, l'erede, che viene gettato fuori dalla vigna e poi ucciso: allusione alla sua morte fuori dalle mura di Gerusalemme. Si arriva così alla sentenza contro i vignaioli, che abilmente Gesù fa pronunziare agli stessi sommi sacerdoti.
Nel complesso la narrazione esplicita un'altra esigenza tipica di chi si sente operaio del Regno e lavora, quindi, per questo scopo. E cioè la capacità di saper discernere i tempi, in modo da non osteggiare la venuta del Signore nella storia, che si presenta in tanti segni concreti, comprese le persone, che assolvono la funzione di richiamare i contemporanei a convertirsi, o comunque ad accorgersi della presenza del Signore. Invece l'indifferenza regna sovrana, quando non anche il rifiuto, con la conseguente cacciata di chiunque e di qualunque cosa dia fastidio o non sia collimante con la personale visione di vita. Pure la citazione del salmo pasquale per eccellenza sulla pietra scartata (cfr Sal 118/117,22) calza perfettamente con l'insegnamento globale, in quanto i sommi sacerdoti, colpevoli "storici" che hanno sobillato le folle per rigettare Cristo, in verità hanno condannato sé stessi. Così è capitato a tutti coloro che, nel corso della storia, si sono eretti a giudici dell'agire divino, appellandosi alla loro presunzione.

Va pure precisata l'identità di quel popolo a cui viene affidato il regno di Dio, in quanto produce i frutti sperati, contrapponendosi al primo, a cui è stata tolta la vigna, in quanto si è invece dimostrato infedele. Questo popolo non si identifica semplicemente con i pagani convertiti, ma è l'intero popolo messianico, comprendente Ebrei e pagani. Esso è qualificato dai "frutti" da portare, che coincidono con la fedeltà nell'amore attivo, sintesi della volontà del Padre. Tale fedeltà, infatti, è il segno distintivo del popolo messianico, nel quale ora si manifesta e si va realizzando la regalità di Dio.
In definitiva, la parabola dei vignaioli non viene raccontata soltanto per descrivere l'infedeltà d'Israele, ma anche per mettere in guardia il popolo, al quale è stato offerto il Regno, dal rischio di considerarsi in possesso di una proprietà inalienabile. Essa, al contrario, rimane sempre un dono gratuito di Dio, che può essere nuovamente tolto. Inoltre, è un appello agli uomini perché si ricordino che non si tratta soltanto di riconoscere il Signore e i suoi diritti sui suoi frutti, ma si tratta pure di produrre tali frutti. Prospettiva quanto mai coinvolgente per chiunque voglia ancorarsi ai "diritti acquisiti" della propria dignità e non anche ai "doveri" da adempiere, per evitare di vedersi ancora precluso il Regno.

Gli ammonimenti di Paolo, di cui è costellata la seconda lettura, risultano quanto mai opportuni allo scopo. Vengono prospettati valori universali da perseguire, senza limitazione alcuna («Tutto ciò che è vero, nobile, puro, amabile»). Ma per non scadere in un genericismo inconsulto, l'Apostolo prospetta un filtro ineludibile, che è lui stesso, assurto a modello di vita, così da concretizzare ciò che viene raccomandato a livello di esortazione generica: «Le cose che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, mettetele in pratica». Sicché, insegnamento e testimonianza sono inscindibilmente uniti, se vogliono essere efficaci. E da qui non ci si scosta, se si intende conferire solidità alla propria personalità. Sono questi i frutti ancora attesi da Dio!
VITA PASTORALE N. 8/2014
(commento di Gianni Cavagnoli, docente di teologia liturgica)
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