XXVI Domenica del Tempo ordinario (A)

ANNO A - 28 settembre 2014
XXVI Domenica del Tempo ordinario

Ez 18,25-28
Fil 2,1-11
Mt 21,28-32
GESTI CONCRETI
NON SOLO PAROLE

Ancora una parabola nel più puro stile di Matteo. Infatti, anche a una superficiale lettura, traspare la forte polemica contro capi dei sacerdoti e anziani, a cui è indirizzata, perché non osano compiere la volontà del Padre. E in tale "compimento" è posta la differenziazione di comportamento tra questi due figli, che costituiscono i protagonisti del racconto stesso. Come si sa, in Matteo è il "fare" che è decisivo ai fini della valutazione della persona. Ora qui le sorti si rovesciano, perché chi dice "sì" poi di fatto non opera nulla; chi, invece, dice "no", perché non ne ha voglia, poi, in verità, fa ciò che gli è stato chiesto.
Va segnalato il motivo che ha determinato il cambiamento di parere: il pentimento. Il verbo greco utilizzato non ha il senso pregnante e forte della conversione, tuttavia implica il mutamento di sentimento e di opinione, che ispira poi il comportamento stesso, attuato "alla fine" (v. 29, tradotto con "poi"). È questa la prima indicazione efficace che la pagina evangelica offre: la flessibilità nella sensibilità, che porta al cambiamento delle proprie decisioni in qualsiasi momento, anche alla fine.
Aspetto che non va trascurato e che scribi e farisei non sono stati capaci di acquisire, neppure "alla fine" (v. 32: l'avverbio ritorna tale e quale, sempre non tradotto adeguatamente). Le decisioni, a vari livelli, ecclesiali come popolari, dipendono molto, allora, da questa sensibilità nei confronti di ciò che la Parola richiede. Non è sufficiente la lettera: ci vuole la profondità interiore, che ispira il proprio agire.

La salvezza, pertanto, non è data dalla perfetta conformità tra parola e prassi, che possono anche essere in contraddizione e non perfettamente combacianti, ma dalla capacità di ricredersi, dal coraggio di contraddirsi: è il pentimento che deve sopraggiungere almeno "alla fine", che deve diventare la sorgente ispiratrice della decisione finale.
È a questo livello che Gesù innesca la sua accesa rampogna contro i capi del popolo, affermando addirittura, con violenza inaudita e ardimentosa, che i pubblicani e le prostitute ci passano avanti (cioè prendono il nostro posto) nel regno di Dio. Questi ultimi che, secondo la prospettiva giudaica, erano esclusi dall'appartenenza al popolo di Dio, per primi entreranno nel Regno. Dunque il giudizio espresso da Gesù è particolarmente provocatorio, perché causa un rovesciamento inatteso dei destinatari del Regno.
Lanciando anche oggi simile provocazione, è chiaro che un pastore sfida la sua comunità a verificare in profondità le motivazioni delle proprie scelte, per non vedersi sopravanzare da quanti sono considerati "lontani", o comunque non addentro alle strategie pastorali comunitarie. Non è certo il caso di prendersela, magari con invettive e con modalità maleducate e scostanti, con chi già si impegna e fa di tutto per collaborare all'edificazione della Chiesa. Però l'interrogativo va posto, per scalzare, se non altro, certe forme di agire "privilegiato" da parte di alcuni, che suscita un sentimento di allontanamento degli altri, se non addirittura di gelosia scostante e di disprezzo. In una comunità c'è posto per tutto e tutti possono dare quello che è nelle loro possibilità.

Il riferimento al Battista giustifica storicamente l'affermazione paradossale di Cristo. In altre parole: le categorie di persone ritenute più spregevoli passano avanti a quelli che si ritengono perfetti, perché hanno creduto a Giovanni Battista, venuto, come afferma Gesù nell'episodio del battesimo (cf Mt 3,15), a compiere insieme con lui "ogni giustizia". All'annuncio del precursore si convertono i peccatori e le prostitute, mentre i capi del popolo lo tolgono di mezzo. Per Matteo rifiutare la predicazione del Battista è già porre un rifiuto pure sul Messia. La via della giustizia predicata da Giovanni è la stessa via di Dio insegnata da Gesù: per questo i capi del popolo hanno espresso il loro rifiuto su entrambe.
Sicché, chiunque ostacola concretamente il disegno salvifico di Dio, che è la chiamata alla conversione, si trova escluso dal Regno stesso, in quanto il suo atteggiamento non si apre all'azione divina nella storia. È il peccato fondamentale di chiunque si ritiene autosufficiente e non si lascia sollecitare dalla profezia, di cui il Battista è espressione emblematica, così come qualsiasi altro, che ha parlato a nome di Dio (tale è "il profeta") ed è rimasto inascoltato. Peccato, questo, che viene tuttora perpetrato nella Chiesa e nella storia, proprio da parte dei saccenti e di chi si ritiene "giusto".

Il brano profetico di Ezechiele, posto come prima lettura, completa egregiamente l'insegnamento evangelico. Se nell'orizzonte storico del profeta era giudizio comune che il passato fosse irrecuperabile, Ezechiele smentisce categoricamente questa logica. Bisogna piuttosto impegnarsi per edificare il futuro, perché se è vero che esiste una solidarietà, nel bene e nel male, che lega tutti i membri del popolo santo di Dio, va però primariamente annunciata la responsabilità personale. Perciò ognuno è, dinanzi a Dio, padrone del proprio destino. E ciò che è mancato ai capi del popolo ed è ciò, invece, che viene richiesto a ciascun credente in rispondenza alla definitività, che non ammette possibilità d'appello, secondo l'insegnamento paolino: «Tutti ci presenteremo al tribunale di Dio: quindi ciascuno di noi renderà conto di sé stesso a Dio» (Rm 14,10-12).

VITA PASTORALE N. 8/2014
(commento di Gianni Cavagnoli, docente di teologia liturgica)

--------------------
torna su
torna all'indice
home