Chiesa e diaconi: tra routine e profezia?



Il diaconato in Italia n° 181
(luglio/agosto 2013)

PRESENTAZIONE


Chiesa e diaconi: tra routine e profezia?
di Giovanni Chifari

Saper discernere la dimensione spirituale del tempo in cui si vive è un'operazione necessaria per comprendere quale diaconia suggerisce lo Spirito per il bene della sua Chiesa e per questo mondo tormentato e assetato di speranza. Si tratta cioè di leggere in che modo lo Spirito partecipa a questo tempo, quali moti e sussulti, provocazioni e stimoli, aperture e spinte, in modo da poter conoscere quali sono le reali odierne sfide distinguendole dai falsi allarmi o dalle presunte minacce. Una sfida così intesa diviene ricerca delle vie mediante le quali lo Spirito intende superare l'elemento di criticità, che possiamo anche chiamare peccato personale o anche strutturale, che le ha originate e che ancora attende di essere trasceso: una situazione di vulnerabilità, una ferita che invoca conversione e profezia.

Le intuizioni profonde
Scorrendo la storia del secolo scorso, così hanno fatto don Sturzo, La Pira e Dossetti con intuizioni che si sono rivelate prodighe e feconde, che hanno reso attuale il Vangelo nella società. Una testimonianza offerta non da battitori liberi ma da figli della Chiesa, ai quali è stato dato di vivere e comprendere la vera natura di questa madre che li ha generati alla fede. Quest'ultima prospettiva ci suggerisce l'ambito all'interno del quale si dovrà leggere l'apporto dei diaconi a tale possibilità profetica, la loro singolare partecipazione a quell'opera di evangelizzazione e di salvezza, di origine trinitaria, che sempre infonde in chi la serve il coraggio di denunciare le odierne decadenze e insieme seminare speranza.
Spirito Santo, Chiesa e diaconia, quale legame e quale risposta di senso per l'oggi? Una Chiesa che si lascia accompagnare dall'azione dello Spirito, in ascolto della Parola, per giungere al di là di essa, fino al cuore stesso della relazione con Dio, potrà forse comprendere meglio le sfide e annunciare al mondo ciò che Dio dice di sé e cosa Egli desidera dagli uomini; potrà sempre meglio conoscere e riconoscere il volto di Cristo nelle provocazioni della storia. In questo quadro la realtà sacramentale del diaconato è per la Chiesa una risorsa interna, un'opera con la quale lo Spirito ha inteso narrare l'identità di Cristo, adornando la sua Sposa con il diadema del grembiule. Si tratta ancora di una perla preziosa, pur nella sua essenziale sobrietà, che se abbandonata sotto terra non può dare frutto, ma se impegnata può divenire feconda. Dimenticata per diversi secoli il Concilio Vaticano II l'ha dissotterrata comprendendo che era in gioco l'identità stessa di Cristo che deve poter risplendere nel volto della Chiesa. Oggi a cinquant'anni da questi eventi continuiamo a interrogarci sulla profezia di tale scelta e non mancano le tendenze che vorrebbero risotterrare tale dono. Ciò accade perché rispetto a quegli anni questo tempo ha subito un'accelerazione ingovernabile che l'ha profondamente mutato. Permane dunque la sfida: non disperdere ciò che lo Spirito ha suggerito.
Ritengo che i diaconi possano offrire un duplice apporto: verso la Chiesa e verso la società. Circa il primo ambito si tratterà di testimoniare quel modello di Chiesa più conforme e più assimilato a Cristo, vale a dire la Chiesa del servizio, o come suggeriva don Tonino Bello, "del grembiule". È questa la sfida: lasciar emergere l'autentico modello di Chiesa. Marginalità e non appariscenza, speranza verso i poveri e gli ultimi, "voce" prestata e "mani" prolungate nella storia. Si pensi al diacono Francesco che così "riparò" l'Edificio traballante. In lui l'ascolto divenne incontro, presenza e poi servizio. Realtà scandite da quell'intreccio inscindibile fra segno e testimonianza che si può rinvenire nel servizio liturgico del diacono all'altare. Dapprima egli è presenza silenziosa, che diviene voce nell'invocare la misericordia divina per l'intera assemblea e nell'annunciare la lieta notizia dell'Evangelo. Poi ritorna nel silenzio orante che diviene innalzamento del calice della salvezza e adorazione del Cristo morto e risorto. Un mistero di fede dal quale il diacono può proclamare la pace, donare il cibo e annunciare la missione. Ecco qui la diaconia Chiesa: silenzio e ascolto, invocazione e annuncio, preghiera, adorazione e servizio, dono di sé e missione.
Sotto un altro profilo il servizio del diacono nella Chiesa, fra parrocchia e diocesi, può aiutare a superare certe insolute querelle legate a questa singolare materia: il diacono è tale solo per la propria parrocchia o può diaconizzare anche altrove? Il diacono, con la sua spiritualità, cioè con la sua disponibilità a far agire lo Spirito nella propria vita e nel proprio servizio, in un tempo nel quale la categoria più percepita da quanti sono alla ricerca di Dio è quella dell'esperienza, non può disattendere questa testimonianza.
Non tuttavia come se fosse una parte da recitare o una captatio benevolentiae da ricercare ma mostrando in sé il volto di Cristo che risplende nella sua Chiesa, attualizzando il Vangelo nella società. Una diaconia dell'incontro e della presenza, silenziosa e qualificata, vigile e profetica. Con questi intenti papa Francesco ha dato alle stampe la sua prima enciclica che ha avuto una risonanza forse inaspettata. Proviamo a leggerla nelle sue linee generali.

L'enciclica Lumen Fidei
La prima enciclica di papa Francesco è il frutto di un lavoro d'equipe: «Egli aveva già quasi completato una prima stesura di Lettera enciclica sulla fede. Gliene sono profondamente grato e, nella fraternità di Cristo, assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi» (LF 7). Con queste parole papa Francesco rivela l'origine di questo scritto, frutto anch'esso di una successione apostolica. Papa Benedetto infatti stava lavorando sul tema della fede che andava a completare la trilogia aperta con il tema della carità e poi proseguita con quello della speranza. Così quest'enciclica è un segno di continuità pur nella diversità dei due pontefici, un segno di unità, dono dello Spirito.
Nel testo, infatti, risultano mirabilmente coniugate l'intelligenza teologica e la fine riflessione teoretica tipica del papa teologo Benedetto XVI e quella sapienza pratica e creatività evangelica che invece caratterizza lo stile di papa Francesco. Una sintesi profonda offerta per edificare e far crescere la vita della Chiesa e per rinsaldare il dialogo con quanti cercano Dio. Una fede centrata sulla Scrittura e sulla Tradizione: ecco una prima chiave di lettura per intendere le prerogative di questa «luce della fede».
Un'altra prospettiva di osservazione richiama invece la possibilità di percepire questa fede oggi. Se consideriamo infatti la dimensione sacramentale, assumendo in particolar modo il paradigma battesimale, allora potremo bene intendere che la fede è un dono di Dio (aspetto del resto richiamato nel corso dell'enciclica). Se tuttavia prendiamo in esame l'esperienza cristiana e quindi l'esercizio di tale virtù, allora scopriremo che per vivere la fede è necessario l'incontro con la Persona di Cristo, fare esperienza di Dio, del suo amore e del suo perdono. In questo modo una fede autentica sarà sempre preceduta dalla conversione.
Introduzione, tre capitoli e una conclusione: nell'Introduzione (nn. 1-7) il tema della fede è problematizzato a partire dall'immagine della «luce»: la fede è una luce illusoria o da riscoprire? Il primo capitolo si sofferma sul legame tra fede e amore, mostrando come l'esperienza della fede sia sostanzialmente un'esperienza di amore. Così è accaduto ad Israele, dal padre Abramo (nn. 8-11) a Mosè e al popolo (nn. 12-24) fino ad arrivare all'esperienza cristiana (nn. 15-18), la salvezza mediante la fede (nn. 19-21) e la professione di fede della Chiesa (n. 22).
Il secondo capitolo approfondisce il forte legame tra fede e verità (nn. 23-25). L'esperienza del credere cioè non esclude il comprendere. Aver fede significa cercare la verità e saperne rendere ragione (nn. 32-34). Anche qui entra in gioco l'amore (nn. 26-28) nel quale si coniugano ascolto e visione (nn. 29-31) e anche il compito stesso della teologia (nn. 35-36). Il terzo capitolo valorizza la fede entro la prospettiva ecclesiale, a partire dal compito di custodirla e trasmetterla (nn. 37-39). I sacramenti in tal senso sono degli strumenti imprescindibili perché non sono altro che un prolungamento dell'umanità di Cristo nella storia. Il testo vi dedica ampio spazio (nn. 40-45). La fede approda alla preghiera (n. 46) che in un certo modo ne custodisce l'unità e l'integrità (nn. 47-49). Il quarto capitolo recupera il contesto della problematizzazione iniziale ampliandolo alla luce di una prospettiva più estesa e globale: l'apporto della fede al bene comune (nn. 50-51). Esperienza del singolo, del gruppo, della comunità bene sintetizzata dalla famiglia, cellula che coltiva la società, che prepara la città (nn. 52-53). In società la fede potrà incidere (nn. 54-55), seminando speranza in quei luoghi che appartengono a quello spazio comune ad ogni uomo: vita e sofferenza (nn. 56-57). Intenzioni affidate all'azione dello Spirito e all'intercessione della Beata Vergine Maria, icona di ogni credente (cf. Lc 1,45).
«La fede nasce nell'incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore, un amore che ci precede e su cui possiamo poggiare per essere saldi e costruire la vita. Trasformati da questo amore riceviamo occhi nuovi, sperimentiamo che in esso c'è una grande promessa di pienezza e si apre a noi lo sguardo del futuro. La fede, che riceviamo da Dio come dono soprannaturale, appare come luce per la strada, luce che orienta il nostro cammino nel tempo» (LF 4). Comprendere mediante una fede che si apre all'amore. Icona di questo percorso è Abramo. Egli mostra che la fede nasce dall'ascolto (cf. Rm 10,17) e inoltre che il Dio che si rivela è un Dio personale. Aspetto che sarà richiamato anche più avanti, quando la fede sarà presentata come connubio con l'ascoltare e il vedere. La fede cioè come ascolto e visione, che si trasmette come parola e come luce (cf. LF 37): «San Paolo userà una formula diventata classica: fides ex auditu, "la fede viene dall'ascolto" (Rm 10,17). La conoscenza associata alla parola è sempre conoscenza personale, che riconosce la voce, si apre ad essa in libertà e la segue in obbedienza. Perciò san Paolo ha parlato dell' "obbedienza della fede" (cf. Rm 1,5; 16,26)» (LF 29).
In Abramo il frutto della fede è la Paternità, la cui fonte è Dio stesso (LF 11). Come Abramo così dovrà fare anche Israele, che imparerà a fare memoria dei benefici che Dio ha offerto e donato. Pertanto questa fede risulterà legata alla conversione, ponendosi come superamento di ogni idolatria (LF 13). L'azione di Dio nella vicenda storica d'Israele trova il suo cuore, centro e completa mento nella vita di Gesù, «luogo dell'intervento definitivo di Dio» (LF 15) ma anche possibilità per credere "all'affidabilità di Dio" e della sua Parola. In Cristo il credente fa esperienza di quella fede che è anche ecclesiale: «La nostra cultura ha perso la percezione di questa presenza concreta di Dio, della sua azione nel mondo. Pensiamo che Dio si trovi solo al di là, in un altro livello di realtà, separato dai nostri rapporti concreti» (LF 17). La fede cioè è fondata sulla verità e si esprime mediante un amore che nasce come trasformazione interiore, determinando conversione, e poi si manifesta in atti concreti che non sono assimilabili ad una lettura sentimentalista. Unita alla verità la fede «vede più lontano, perché comprende l'agire di Dio, che è fedele alla sua alleanza e alle sue promesse» (LF 24) ma sarà solo mediante l'amore che essa porterà luce poiché evidenza di una trasformazione interiore: «Amore e verità non si possono separare. Senza amore, la verità diventa fredda, impersonale, oppressiva per la vita concreta della persona. La verità che cerchiamo, quella che offre significato ai nostri passi, ci illumina quando siamo toccati dall'amore. Chi ama capisce che l'amore è esperienza di verità, che esso stesso apre i nostri occhi per vedere tutta la realtà in modo nuovo, in unione con la persona amata» (LF 27).

Nel segno del servizio
La fede si esprime nel servizio, nel quotidiano costante e silenzioso martirio spirituale di chi si dona agli altri perché ha riconosciuto che è questa la via che ha tracciato il Maestro e Signore, che come annuncia l'Evangelo, è venuto per servire e non per essere servito (cf. Mc 10,43). L'enciclica non trascura questo ineludibile passaggio, insistendo spesso sul legame tra fede e servizio. Le diverse sfumature e le molteplici prospettive che attraversano il testo, infatti, lasciando che la luce della fede possa irradiarsi sulla vita della Chiesa e sul mondo sociale, possono trovare una chiave di lettura unitaria nel tema del servizio. A riguardo la prima preoccupazione che sembra occupare lo scritto è quella di dare unità ad un servizio che, ribadisce il testo, non può essere inteso in senso individualistico: «I cristiani sono "uno" (cf. Gal 3,28), senza perdere la loro individualità, e nel servizio agli altri ognuno guadagna fino in fondo il proprio essere».
L'orizzonte nel quale poter fare esperienza di ciò è quello ecclesiale: «Si capisce allora perché fuori da questo corpo, da questa unità della Chiesa in Cristo, da questa Chiesa che - secondo le parole di Romano Guardini - «è la portatrice storica dello sguardo plenario di Cristo sul mondo», la fede perde la sua "misura", non trova più il suo equilibrio, lo spazio necessario per sorreggersi». In questo modo non si intende impoverire l'apporto del singolo ma evidenziare che c'è un processo di cristificazione che riguarda in primis la stessa Chiesa. Di fede in fede del resto è il modo in cui lo Spirito Santo ha inteso trasmettere ad ogni generazione cristiana con più fecondità la possibilità di fare esperienza di Dio.
Vivere la propria fede nella Chiesa è allora un servizio, così come è tale la riflessione della teologia chiamata a non perdere contatto dall'intelligenza della fede che la Chiesa nei secoli ha sempre ripresentato: «La teologia poi condivide la forma ecclesiale della fede; la sua luce è la luce del soggetto credente che è la Chiesa. Ciò implica, da una parte, che la teologia sia al servizio della fede dei cristiani, si metta umilmente a custodire e ad approfondire il credere di tutti, soprattutto dei più semplici» (LF 36). Il legame tra fede e servizio, nel capitolo che considera maggiormente il ruolo e i compiti della Chiesa, viene presentato sinteticamente nella successione apostolica: «Come servizio all'unità della fede e alla sua trasmissione integra, il Signore ha nato alla Chiesa il dono della successione apostolica» (LF 49). Ma il valore e l'efficacia di tale relazione, che è data nell'amore, devono potersi esprimere nella testimonianza al mondo, in special modo in rapporto ai temi cruciali che interpellano i popoli della terra: «Proprio grazie alla sua connessione con l'amore (cf. Gal 5,6), la luce della fede si pone al servizio concreto della giustizia, del diritto e della pace» (LF 51).
Ciò che può dire la fede oggi mediante la testimonianza di servizio dei cristiani, secondo il testo potrà incidere nella ricerca del bene comune: «La fede fa comprendere l'architettura dei rapporti umani, perché ne coglie il fondamento ultimo e il destino definitivo in Dio, nel suo amore, e così illumina l'arte dell'edificazione, diventando un servizio al bene comune» (LF 51). Ritroviamo in queste righe una linea che sta caratterizzando l'odierno pontificato di papa Francesco: quando si parla di costruire o edificare si intende infatti anche nel suo risvolto sociale, nel suo riferimento al bene comune: «Sì, la fede è un bene per tutti, è un bene comune, la sua luce non illumina solo l'interno della Chiesa, né serve unicamente a costruire una città eterna nell'aldilà; essa ci aiuta a edificare le nostre società, in modo che camminino verso un futuro di speranza» (LF 51).
Perché non si intenda questo approdo del servizio verso il bene comune in modo filantropico o idealistico l'enciclica suggerisce un parametro di riferimento, un criterio intorno al quale verificare in coscienza il servizio dei singoli e delle Chiese: la sofferenza. «La sofferenza ci ricorda che il servizio della fede al bene comune è sempre servizio di speranza, che guarda in avanti, sapendo che solo da Dio, dal futuro che viene da Gesù risorto, può trovare fondamenta solide e durature la nostra società. In questo senso, la fede è congiunta alla speranza perché, anche se la nostra dimora quaggiù si va distruggendo, c'è una dimora eterna che Dio ha ormai inaugurato in Cristo, nel suo corpo (cf. 2 Cor 4,16-5,5)» (LF 56). Esperienza per la quale il papa cita San Francesco d'Assisi e poi Madre Teresa di Calcutta descrivendo i «i sofferenti come mediatori di luce» (LF 57). La fede in queste situazioni diviene innanzitutto presenza e servizio.


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