La personificazione della Sapienza, prospettata dal Siracide, ha al suo centro la risoluta volontà di fissare la sua tenda in mezzo al popolo, di porre in esso le sue radici. L'inno evangelico all'incarnazione, costituito dallo stupendo prologo di Giovanni, che oggi nuovamente viene proclamato, si trova in sintonia con il brano del Primo Testamento, nel senso che questa Sapienza di Dio è anzitutto la persona di Cristo, Verbo di Dio venuto ad abitare in mezzo a noi. Da qui l'impegno dei fedeli di accoglierlo in tutte le loro scelte, evitando il tragico rifiuto additato nel Prologo giovanneo: «Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto». Constatazione, questa, persino inquietante, ma assai efficace dal versante sapienziale, perché, secondo la virulenta accusa di Paolo, «gli uomini si circonderanno di maestri secondo i propri capricci, rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole» (2Tm 4,3-4). E ancor oggi, purtroppo, l'insipienza tocca i massimi livelli in molte situazioni contingenti, tanto a livello personale, quanto a livello sociale. VITA PASTORALE N. 11/2013
II Domenica dopo Natale
Sir 24,1-2.3-4
Ef 1,3-615-18
Gv 1,1-18
È FONDATA IN CRISTO
La presenza del Figlio in mezzo a noi, quale Sapienza del Padre, induce pure a compiere la preghiera dell'Apostolo, presentata nell'esordio della lettera agli Efesini: «Il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui». Si tratta, in altri termini, di dare attuazione a una più qualificata frequentazione della Scrittura, sia attraverso la meditazione personale che nella modalità della lectio divina, cioè della condivisione della Parola. È indubbio che questa strada ha notevolmente arricchito le personalità cristiane e le ha rassodate nei loro convincimenti essenziali. Non solo: ha anche suscitato in loro quello spirito critico, per cui ci si vuole rendere conto di persona dei fatti; si ricercano, il più possibile, prove e documentazioni.
Si può così giungere a rispondere con cognizione di causa a quell'interrogativo evangelico, che non smette di angustiare positivamente: «E perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?» (Lc 12,57). Si acquisisce, in tal modo, nella gradualità del tempo, quella maturità che, sempre nel Prologo di Giovanni, viene caratterizzata come «il potere di diventare figli di Dio». Quasi a dire che credere è ricevere la legittimazione ad essere figli. Ciò richiede, però, una sapienza che viene dall'alto e che si acquisisce e si perfeziona mediante l'approfondimento concreto di tale dignità.
Attraverso la catechesi, fin da ragazzi, s'impara a dare una concreta risposta alle esigenze essenziali della personalità cristiana. La letteratura paolina situa la Scrittura in quest'ottica, in quanto, essendo ispirata da Dio, la proclama «utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia» (2Tm 3,16). Tale esigenza si riconferma ancor più come modalità di incarnazione dello stesso Cristo, Sapienza di Dio venuta a piantare la sua tenda tra noi, per quanti vogliono accostarsi a lui.
Dalla Sapienza si coglie pure la prospettiva del dono, che il Prologo di Giovanni evidenzia, allorché canta: «Non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati». Questa è anzitutto la risposta che l'evangelista dava a quanti, in ambiente ellenistico, promettevano l'accesso alla divinità tramite la conoscenza dei misteri e la partecipazione ad essi. Una specie di presunzione, che viene dal sapere. Oggi si potrebbe tradurre: dalle certezze teologiche, allorché si concede esagerata importanza a quello che si apprende mediante lo studio e la ricerca, considerata però quasi fine a sé stessa, e non in relazione a una comunicazione/traduzione anche per i più sprovveduti. Un interrogativo rimbalza, quando ci si accosta a opere teologiche dal linguaggio incomprensibile, che neanche gli addetti ai lavori hanno la capacità di assimilare: a che pro?
L'evangelista ribadisce, partendo dall'incarnazione di Cristo, che l'essere figli di Dio è dono, e non del futuro, ma una realtà che il discepolo già possiede. Perciò, se l'approfondimento teologico è vero, allora aiuta fortemente a questa accoglienza del dono, cercando non di nasconderlo, ma di manifestarlo il più possibile anche ai più sprovveduti. Ed essendo dono, la capacità di accoglienza è condizionata da tante componenti, non soltanto teoretiche. La Sapienza personificata, testimoniata dalla liturgia odierna, indica una pluralità di modi, che abbracciano la globalità della persona, e non solo la sua intelligenza.
A tale concretezza del dono fa riferimento pure l'affermazione del Prologo: «Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia». In altri termini, il dono di Dio raggiunge realmente e totalmente l'uomo: per questo Giovanni sottolinea che la figliolanza non può essere in alcun modo opera umana, ma soltanto divina. Di conseguenza, non deve assolutamente prestarsi a rivendicare funzioni e privilegi, ma piuttosto a concretizzare una testimonianza di incarnazione autentica nell'umanità attuale, che, come quella di Cristo, non può essere priva di efficacia. Anzi, il rendimento di grazie e la comunione eucaristica implicano ogni volta la condivisione di questa identità, che fonda la vera fraternità in Cristo, permettendo alla Chiesa di comprendere sempre chi è il Dio vivo e vero, ma anche chi è l'uomo.
(commento di Gianni Cavagnoli, docente di teologia liturgica)
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II Domenica dopo Natale (A)
ANNO A - 5 gennaio 2014
LA VERA FRATERNITÀ