Il diaconato in Italia n° 180
(maggio/giugno 2013)
TESTIMONIANZE
La mia esperienza con i giovani tossicodipendenti
di Diacono Pippo
Poco più di venticinque anni fai cominciai a sentir parlare di tossicodipendenza. Allora vivevo nella mia Scampia, il quartiere che mi ha formato e che mi ha portato ad accettare il diaconato. Frequentavano la mia casa un bel gruppo di giovani studenti gesuiti che mi parlarono della Comunità Emmanuel di Lecce.
La Comunità era stata fondata da uno sparuto gruppo di persone, guidate da un gesuita, padre Mario, che dopo una forte esperienza di preghiera aveva deciso di completare la contemplazione di Gesù col servirlo nelle persone più povere. Cominciarono con l'accogliere qualche ragazza madre e poi qualche ragazzo tossico ed erano riusciti a costruire una Comunità che accoglieva in vari centri in Italia più di cinquecento ragazzi tossicodipendenti e, in case-famiglia, ragazze madri, persone diversamente abili, alcoolisti.
La Comunità aveva due motti: il primo era «Accogliere e condividere»; tutte le persone che formavano la Comunità erano impegnate a non discriminare, a non selezionare ma ad accogliere chiunque avesse bisogno di aiuto e, con lui, far comunione di vita in Gesù. È quello che espressamente ci chiede il Vangelo. Il secondo era «Cambia il mondo da dove puoi: comincia da te»; ed era un esplicito invito a non applicare la cosiddetta "filosofia della delega" per la quale ognuno, prima di agire, aspetta che altri, governo, comune, regioni dettino regole ed eroghino fondi, ma di "darsi" subito da fare in prima persona acquisendo competenze, cambiando comportamenti ed abitudini per essere di aiuto agli altri.
Conobbi padre Mario e la presidente Enrica (morta poi di AIDS contratto in Africa dove era andata per aiutare bambini in gravissime difficoltà), Padre Mario mi chiese di aprire un centro di ascolto. Rifiutai: non mi sentivo in grado di formare altre persone - io che non avevo alcuna seria competenza - e di intraprendere poi una attività di volontariato così forte, ma poi, una convivenza con i ragazzi accolti dalla Comunità in Sila, la comunione di vita con loro, l'ascolto delle loro storie e delle loro speranze, mi fece riflettere e, quando a Scampia conobbi un ragazzo, Lucio, sieropositivo e tossicodipendente che aveva rubato in casa perfino le porte divisorie delle stanze, ma che era tormentato dalla sua dipendenza, dissi che avrei tentato.
Aiutato dal mio primo parroco, don Antonio Cecere, coinvolsi un gruppo di giovani di Scampia, Patrizia, una donna che a Lourdes aveva avuto la grazia di accettare la sua infermità e che era (ed è) l'anima della Parrocchia dedicata a S. M. Maddalena e poi Biagio, Giulia, Claudia, Gianni, Ettore e alcuni altri cominciammo a frequentare un Centro della Comunità già funzionante nella provincia. Per alcuni mesi ascoltammo in silenzio, studiammo il lavoro e l'impegno di quei volontari e poi, con l'aiuto di un ragazzo ex tossico che era diventato educatore, riuscimmo ad aprire un nostro centro d'ascolto a Chiaiano.
La voce si sparse e vennero centinaia di ragazzi. Allora la Comunità aveva regole ferree: il centro ascoltava ragazzi e ragazze che personalmente telefonavano e chiedevano aiuto; non si era accolti in Comunità se non dopo aver dimostrato di essere riusciti almeno per una settimana ad essere "sobri".
I ragazzi venivano ed erano ascoltati da Biagio o da Patrizia o da altri volontari mentre noi (Giulia ed io) ascoltavamo le storie dei genitori. Imparammo a scoprire i trucchi dei giovani (urine portate in perette nascoste sotto la manica e contrabbandate come proprie, fili di cotone che portavano nella stanza dove il "martire", a sentire i parenti, gemeva per la mancanza di sostanze, bustine di eroina o "palline" o cocaina...).
Moltissimi entrarono in Comunità, molti fuggirono incapaci di allontanarsi dalla droga, pochi finirono il cammino e tornarono alle famiglie e, di questi, un buon numero per alcuni anni non fece più uso di droghe. contemporaneamente mettemmo su due altre iniziative. Una "Scuola Genitori": i genitori dei ragazzi accolti venivano da noi una volta alla settimana e con loro discutevamo del cammino dei figli in Comunità, delle probabili ragioni che li avevano portato alla tossicodipendenza, di quello che loro avrebbero potuto fare concretamente, una volta finito il cammino in comunità. È stata un'esperienza fantastica durante la quale abbiamo messo in comune vite diverse, siamo riusciti a portare alla preghiera persone che si erano fidate delle loro sole forze, a far abbandonare comportamenti sbagliati all'interno delle famiglie.
La seconda fu il "Gruppo dei rientrati": per un breve periodo a Scampia dove la Comunità ci aveva procurato e arredato una bella sede all'ammezzato di una 'torre' e poi a Cappella dei Cangiani dove il parroco, mons. Raffaele Ponte, ci accolse prima in un prefabbricato e poi nelle aule di catechismo. I ragazzi che finivano il cammino in Comunità venivano il mercoledì sera, verso le nove, e lì ci si spogliava di ogni ruolo per essere ognuno prossimo dell'altro e per mettere in comune le più svariate esperienze per allontanare il desiderio sempre presente di rintanarsi nel buco protettivo offerto dalle sostanze: ci guidava l'esperienza e la maniacale ricerca della verità. Era difficile per loro fingere con compagni che avevano avuto le medesime esperienze e con me che li avevo seguiti dal loro primo approccio al Centro d'ascolto e poi li avevo visitati nei centri terapeutici che li accoglievano, e che avevo saputo dalle loro famiglie come si rapportavano. Nella Parrocchia dedicata a S. M. di Costantinopoli, fui aiutato molto efficacemente da Mario, un ingegnere che fu affascinato dalla forza di volontà di questi ragazzi.
Poi fummo costretti a chiudere il Centro di Scampia perché alcuni spacciatori avevano chiuso con un cancello la rampa di accesso al centro e i ragazzi che volevano essere ascoltati dovevano chiedere allo spacciatore, che spesso conoscevano, di poter entrare... allucinante, ma verissimo. Non riuscii ad ottenere nulla dai politici della Circoscrizione né dalle Forze dell'Ordine.
D'altra parte la Comunità era molto cresciuta e cominciava a chiedere di non accogliere ragazzi con doppia diagnosi (ma è possibile che un tossicodipendente non abbia anche patologie psicologiche?) per cui il primo motto era diventato, in pratica, "Selezionare, accogliere, condividere"... un po' anacronistico.
Conclusioni? Un'esperienza che mi ha cambiato. Seminato molto, raccolto poco. Viste piante stupende ma molte vite sciupate fino in fondo. Come diacono, ho sposato alcuni di loro, battezzato loro figli, celebrato le esequie di qualche genitore e di alcuni ragazzi minati dall'AIDS o dall'epatite. Come dice Ungaretti, nel cuore di tutti noi protagonisti di questa storia, non manca nessuna delle croci che ci hanno accompagnato a riconoscere Gesù nei fratelli.
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