I diaconi sono al servizio di Comunità di carità?



Il diaconato in Italia n° 179
(marzo/aprile 2013)

CONTRIBUTO


I diaconi sono al servizio di Comunità di carità?
di Piero Coda


Segno distintivo della comunità cristiana
La Chiesa "comunità di carità" è la figura di Chiesa che scaturisce dal vangelo della carità e viene definita dal documento della CEI "Evangelizzazione e testimonianza della carità" (ETC) in questi termini: «configurata alla croce, la Chiesa è il grande sacramento della carità di Dio nella storia degli uomini» (n. 24). È evidente che questa espressione ricalca quella di LG 1, dove - in modo sintetico e programmatico - si intende indicare, allo stesso tempo, l'identità e la missione della Chiesa, definendola come «sacramento, e cioè segno e strumento, in Cristo, dell'unione con Dio e dell'unita del genere umano». ETC esplicita sia il rapporto con Cristo, che è precisato nei termini paolini della configurazione alla croce, che è mistero di morte e risurrezione; sia il contenuto della vita e dell'operare della Chiesa, che è appunto la carità. Non per nulla, poco più avanti, si richiama che «la carità, prima di definire l'agire della Chiesa, ne definisce l'essere profondo» (n. 26). Vorrei cercare di affrontare questo tema senza la pretesa di dire tutto, ma offrendo solo qualche spunto alla riflessione, in due momenti. Nel primo mi soffermerò, soprattutto alla luce del NT, su cosa significa che la carità è segno distintivo ed efficace della comunità cristiana. Nel secondo cercherò di precisare alcune conseguenze di questa visione per la vita della comunità cristiana, in sé e nel suo rapporto con la società.
In quale senso la carità è segno distintivo della comunità cristiana? E quali caratteristiche la carità deve avere e mostrare per essere questo segno percepibile e credibile? Occorre, innanzi tutto, riflettere sul rapporto che c'è tra fede e carità. Infatti, ciò che fa di una persona un cristiano - lo sappiamo bene - è la sua fede in Gesù Cristo e il suo essere battezzato, così che la comunità cristiana si definisce come la comunità dei credenti e dei battezzati. Che ruolo ha dunque la carità nel definire il cristiano e la comunità ecclesiale?
Già il Nuovo Testamento risponde a questa domanda. Mi rifaccio soltanto alla 1Gv, che per tanti versi rappresenta una sintesi, un culmine del messaggio sull'agape contenuto nel NT, là dove afferma: «Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e che ci amiamo gli uni gli altri secondo il precetto che Dio ci ha dato» (3,23). L'esegeta R. E. Brown commenta: «1Gv 3,23 potrebbe molto bene costituire la frase del Nuovo Testamento che meglio esprime l'essenza del cristianesimo. La teologia che le sta alla base rende chiaro che la fede in Gesù è realmente la fede in Dio di cui egli è Figlio; che la vita cristiana comincia con un'azione verticale da parte di questo Dio nel mandare suo Figlio; che ciò che noi facciamo viene dopo quello che Dio ha fatto; e che il nostro amore è una continuazione orizzontale ma essenziale dell'amore verticale che Dio ha mostrato». Il significato della fede in Cristo in rapporto alla comunità è specificato al cap. 4 dove si afferma: «Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (4,14-16a). Giovanni esprime con questa affermazione qual è l'oggetto della fede cristiana. La tradizione teologica ha soprattutto ritenuto le definizioni della fede di Eb 11; ma Gv 4,16 precisa di quale Dio si tratta: il Dio di Gesù Cristo che è amore e come tale si rivela; ma precisa anche la maniera di legarsi a lui vitalmente. L'oggetto della fede cristiana è Dio che si rivela Amore e l'atto di fede del cristiano è - di conseguenza - esso stesso amore partecipato, di risposta: per Dio che si rivela e, in Lui, per i fratelli. Credere all'amore che Dio ha avuto per noi non è solamente confessare il Cristo salvatore che manifesta Dio carità, ma è fargli accoglienza, essergli unito e viverne; e, di conseguenza, incorporare in sé l'agape divina, ciò che l'Apostolo denomina «dimorare nell'agape». «O menon en te agape» (Colui che dimora nell'agape) è una definizione del cristiano: colui che aderisce alla rivelazione che Gesù ha fatto del vero Dio e si inserisce nella sua economia di salvezza, essendo fedele ai suoi precetti (Gv 15,9-10), in particolare a quello dell'amore fraterno (Gv 13,34-35).
«È per questo che l'incontro esistenziale di Dio con il credente si fa nell'amore», tanto che 1Gv 4,7b-8a precisa: «chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio, chi non ama non ha conosciuto Dio». Si sottolinea così che il dimorare nell'amore è il segno tangibile della rigenerazione operata dalla fede in Cristo. Essere generato da Dio significa aver accolto nella fede la sua agape, e pertanto conoscere Dio come Dio, e comportarsi di conseguenza. La mancanza d'amore è indice sicuro, invece, del non aver conosciuto Dio. La carità è la sostanza della vera fede. Per questo - come insegna san Paolo - la fede passerà; mentre la carità resta per sempre.
Occorre però notare una 'cosa importantissima, che solitamente viene un po' trascurata. Ciò che la 1Gv lega strettamente alla fede in Gesù Cristo non è soltanto l'amore del prossimo - esso, infatti, è già presente nell' AT - ma l'amore reciproco, che Gesù, secondo la testimonianza del vangelo di Giovanni, definisce come comandamento nuovo e suo (cf. Gv 13,34-35; 15,12-13). Perché proprio la reciprocità dell'amore è il segno distintivo della fede cristiana e l'elemento costitutivo, di conseguenza, della comunità cristiana? Possiamo dare due risposte, che in realtà si compendiano in una sola. Da un lato, come ha fatto notare von Balthasar, perché Dio si rivela in Gesù Cristo come Trinità: dunque come Amore reciproco e perciò effusivo. Dall'altro, e di conseguenza, perché l'autentica fede in Dio si manifesta in pienezza (giunge alla sua "perfezione", secondo il linguaggio giovanneo) là dove, per la fede, i credenti si amano tra loro come Cristo li ha amati. Dove il "come" (kathos) non indica solo una somiglianza, ma una partecipazione reale alla vita dell'amore trinitario.
Si comprende, perciò, perché la suprema preghiera di Gesù al Padre, per i suoi, sia quella dell'unita: «come tu Padre sei in me e io in te, siano anch'essi uno in noi» (Gv 17,21). La fede cristiana si esprime nella sua originalità nell'amore reciproco, il quale, per dono di Dio e per sua dinamica intrinseca, tende all'unita. E ciò che S. Agostino ha colto molto bene nel suo commento alla 1Gv: «La carità spinse Cristo ad incarnarsi. Dunque chi non ha carità, nega che Cristo è venuto nella carne. […] Tu non hai la carità, perché per una questione di onore rompi l'unità. [...] Egli venne nella carne per radunare insieme: tu sbraiti per disperdere. È dunque lo spirito di Dio quello che dice che Gesù è venuto nella carne, e che afferma questo non con la lingua ma coi fatti, che lo dice non con il suono delle parole ma con l'amore. […] È dunque chiaro il criterio di discernimento, o fratelli».

L'amore come criterio di discernimento
L'amore per il fratello è criterio di discernimento dell'autenticità della fede del cristiano in Gesù Cristo, come spiega lapidariamente la 1Gv: «Se uno dicesse: io amo Dio, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello» (4,19-21). L'amore reciproco è criterio di discernimento dell'autenticità di vita di una comunità cristiana: «se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in [mezzo a] noi e l'amore di Lui è perfetto in noi» (4,11-13).
L'amore reciproco che porta all'unità, di conseguenza, è il segno distintivo della comunità cristiana: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35); «Padre, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato […] e li hai amati come hai amato me» (Gv 17,21.23). Riecheggiando da vicino l'insegnamento di Giovanni, sant'Ignazio di Antiochia dirà: «Il principio è la fede, il fine la carità. L'una e l'altra insieme riunite sono Dio», «Dio in carne», commenterà Origene. Se così stretto è il rapporto tra fede e carità, viene spontaneo chiedersi quale rapporto allora ci sia - nella vita del credente e della comunità cristiana - tra la carità e la Parola di Dio, tra la carità e i sacramenti (in particolare il battesimo e l'Eucaristia). La fede, infatti, nasce e si nutre dall'ascolto della Parola di Dio e ci è donata nel battesimo; mentre l'Eucaristia è per eccellenza. il sacramento della carità e dell'unita ecclesiale (come dice san Tommaso).
Ora, la cosa semplicissima da notare - ma proprio per questo alle volte non così ben focalizzata - è che la parola di Dio ha come suo contenuto centrale proprio la carità. Basterebbe, in proposito, ricordare nel NT la risposta di Gesù a chi gli chiede «qual è il primo di tutti i comandamenti» (cf. Mc 12,28-34 e par.); o quanto Paolo dice a proposito dell'agape come "pienezza" della legge (cf. Gal 5,14; Rm 13,8-10); o, nella tradizione cristiana, quanto spiega sant'Agostino nel De doctrina christiana «il nocciolo di tutto ciò che abbiamo detto [...] è questo comprendere come la pienezza è il fine della legge e di tutte le divine Scritture è l'amore [...]. Chiunque pertanto crede di aver capito le divine Scritture o una qualsiasi parte delle medesime, se mediante tale comprensione non riesce a innalzare l'edificio di questa duplice carità, di Dio e del prossimo, non le ha ancora capite». Dunque, la Parola di Dio mi dice in definitiva una parola soltanto: carità.
D'altro canto, cosa operano in noi i sacramenti se non, attraverso il dono dello Spirito Santo, la configurazione nostra all'agape di Cristo che ci fa altri Lui e, perciò, una cosa sola in Lui? «L'agape di Dio - scrive san Paolo - è stata riversata nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato» (Rm 5,5). Ora, lo Spirito di Cristo ci è trasmesso nel battesimo che, secondo la lettera ai Galati, ci fa figli del Padre (cf. 4,6), uno in Cristo Gesù (cf. 3,26-28). Un'unita che è portata a compimento dall'Eucaristia che ci fa pienamente un sol Corpo in Cristo, che ci fa anzi l'unico Corpo di Cristo. Dunque, la grazia dei sacramenti è la carità, l'unità. La cosa fondamentale è che l'insegnamento della Parola di Dio e la grazia del battesimo e dell'Eucaristia diventino, da carità donata da Dio, carità vissuta da noi. È qui che si rischia di creare una rottura, quasi una schizofrenia fra ciò che crediamo e riceviamo e ciò che viviamo. Ma sappiamo che la fede e la grazia quando non sono vissute nella carità sono morte: sono vere come dono di Dio, non lo sono come nostra esistenza e testimonianza. Per questo, in definitiva, la carità è segno distintivo del cristiano e della comunità ecclesiale, perché dove non c'è la carità la fede è "morta" e la grazia è "a buon mercato" (Bonhoeffer) e senza frutto.

Cosa caratterizza la carità cristiana
Visto come la carità - e la carità reciproca - sia il cuore della vita della comunità cristiana, vorrei ora cercare di dire quali sono i segni distintivi della carità cristiana. Senza la pretesa, anche qui, di essere esaustivo, ne ricorderei almeno quattro: la misura del dono della vita, il servizio concreto, la scelta dei poveri, l'amore per il nemico. Un segno distintivo, e in certo modo riassuntivo, dell'intero messaggio del NT sulla carità è certamente rappresentato dalla sottolineatura forte e costante che l'amore (per Dio e per i fratelli) comporta la capacità di mettere in gioco, senza riserve e senza timori, tutto se stesso, fino al dono supremo dell'esistenza. Carità e croce sono indisgiungibili. È nella sua passione e morte di croce che Gesù ci dà la lezione suprema sulla carità. Basti richiamare solo due elementi. Da un lato, il loghion di Gesù sulla necessità di «perdere la propria vita» per «ritrovarla» (cf. Mc 8,35ss. e par.); dall'altro, la cena pasquale come sintesi della sua pro-esistenza: in essa vengono ad annodarsi in modo straordinariamente denso i grandi motivi del suo kerigma e della sua prassi, la commensalità con i poveri e gli esclusi, il banchetto messianico, l'instaurazione della nuova alleanza attraverso il nuovo esodo e il sacrificio escatologico dell'Agnello. Anche nel vangelo di Giovanni, dove, a differenza dei Sinottici (cf. Mc 14,22-25; Lc 22,15-20; Mt 26,26-29) e di Paolo (cf. 1Cor 11,23-26), non si fa cenno esplicito alla cena pasquale, sia il grande discorso del «pane di vita» (13,1-20) sia il gesto della lavanda dei piedi richiamano lo stesso significato del servizio agli uomini come dono della propria vita. Questi due elementi sottolineano non solo la specifica autocoscienza di Gesù nel suo atteggiamento verso la morte che egli sceglie liberamente di subire, in obbedienza al disegno salvifico del Padre; ma anche che la morte, come estremo e radicale dono-di-sé, è dimensione interiore e costitutiva dell'amore, tanto da costituire il centro del kerigma messianico, è la concreta via attraverso cui Gesù attuerà l'instaurazione del Regno affidatagli dal Padre. Nel tema eucaristico, inoltre, Gesù suggerisce che quel «pane di vita», che è il suo «corpo dato per voi», è ciò di cui i discepoli debbono nutrirsi, e assimilandoli a Lui plasma la loro vita a immagine della sua esistenza pro-esistente.
Gv 15,12-13 esplicita tutto ciò proprio in riferimento al comandamento nuovo di Gesù: «questo è il mio comandamento che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». Dove si sottolinea la dinamica sacrificale (kenotica, direbbe Paolo) della carità reciproca, alla luce, appunto, dell'evento pasquale. Verrebbe qui da chiedersi il perché di questo legame così stretto tra amore e morte. In Giovanni come in Paolo, e originariamente nel kerigma di Gesù, amore e morte sono collegati, perché l'amore è dono-di-sé e la morte, vissuta come libera offerta, come consegna (a Dio e, in Lui, ai fratelli), costituisce la possibilità massima e definitiva di quel dono in cui consiste l'agape. Non si può testimoniare e vivere l'amore in modo più grande; come, d'altra parte, non si può vivere l'amore senza morire a se stessi. L'amore - dice sant'Agostino - «facit in nobis quandam mortem», La vita cristiana ha un ritmo pasquale (cf. Rm 6: morte/risurrezione). La misura dell'amore è di non aver misura. Tutto ciò, del resto, mostra come sia intrinseco all'agape, nel suo dispiegarsi consumato e definitivo, il dono totale di sé, senza residui: proprio come avviene nel rapporto d'amore tra Padre, Figlio, Spirito Santo, dove Ciascuno dei Tre vive ("è") simultaneamente in Sé e nell'Altro grazie alla morte ("non è") a Sé come realtà autosufficiente e in sé conclusa. Viene così in luce una caratteristica di fondo della comunità cristiana: essa è composta di persone che, essendo per la fede uno in Cristo, non possono ignorarsi, non possono vivere nella reciproca indifferenza, non possono tollerare una rottura, ma debbono tendere a riconoscersi e riconciliarsi nella carità. Essi, credendo in Cristo, s'impegnano di fatto perché sono un solo Corpo in Lui a dare la vita per il Maestro, ma anche per ciascuno dei fratelli. La fede in Cristo implica una sorta di "patto d'amore reciproco" quale fondamento della Chiesa. Questa radicalità dell'agape non è un optional, è il segno distintivo della vera agape. Senza questa intenzione presupposta - la disponibilità a dare la vita per l'altro - la comunione, l'unità restano un ideale, se non una parvenza. Così come senza l'amore anche il dare il corpo alle fiamme non giova a niente (cf. 1 Cor 13,3).
Ma come si realizza, concretamente, l'amore reciproco tra i credenti? Come si esprime nella quotidianità dell'esistenza della comunità questo dono della vita, che raramente ci è chiesto alla lettera? Una delle dimensioni fondamentali del kerigma di Gesù concerne proprio i rapporti tra i discepoli, anzi tra i fratelli - come i cristiani si chiameranno reciprocamente - nella comunità. Particolarmente importanti i testi dove Gesù stesso si presenta come "servo" e come "colui che serve", invitando i discepoli a seguire il suo esempio. Se con il primo termine Gesù applica a sé la profezia di Isaia sul "servo di JHWH" (cf., ad es., Mc 10,45 con riferimento a Is 52,12 - 53,12); con il secondo tende a sottolineare sia la concretezza dell'amore che i discepoli debbono avere gli uni per gli altri e verso tutti, sia il capovolgi mento escatologico di valori nella storia degli uomini.
La diakonia indica originariamente "servizio a tavola", là «dove il contrasto tra l'uomo ragguardevole che sta a mensa e colui che serve, avendo cinto la veste, o la donna che attende al servizio, è particolarmente sensibile» Gesù ha ben presente questa situazione: «Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: "vieni e mettiti a tavola"? Non gli dirà piuttosto: "Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finche io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu"?» (Lc 17,7-8). Ma, allo stesso tempo, egli rovescia questo ordine sociale, partendo da se stesso. Si presenta così come «quel signore (kyrios) che, quale immagine di Dio, apparecchia ai suoi servi il banchetto escatologico: "si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passera a servir/i" (Lc 12,37)". E agisce di conseguenza, come ci mostra la scena della lavanda dei piedi nell'ultima cena (cf. Gv 13,35,12-17). È in questo contesto, infatti, che egli dà il comandamento nuovo. Il comandamento del servizio e della reciproca lavanda dei piedi diventa perciò la legge di vita della comunità messianica, in cui non vi è autorità se non come espressione di agape e di diaconia: «voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuoi essere grande tra voi, si farà vostro servitore, e chi vuoi essere il primo tra voi, sarà il servo di tutti» (Mc 10,42-45 e par.; d. Lc 22,24-28; Mc 9,33-37 e par.). Per questo, seguendo Gesù, anzi partecipando del suo ministero messianico, che è ministero di diaconia all'uomo, la comunità cristiana postpasquale descriverà con il termine "diaconia" la sua vita, la sua missione e i suoi specifici ministeri. Anzi, comprenderà se stessa come «il luogo in cui la sequela di Gesù è vissuta nella diaconia».

L'amore preferenziale per i poveri
Proprio per questo, il segno distintivo della comunità cristiana, perché segno distintivo del kerigma e della prassi di Gesù, è l'amore preferenziale per i poveri. È evidente che il rivolgersi di Gesù ai poveri come destinatari privilegiati dell'annuncio e dell'avvento del Regno va letto nella prospettiva dell'esodo e del messaggio profetico, ma anche sottolineando la decisiva novità escatologica dell'evento Gesù. Nella sinagoga di Nazareth all'esordio del suo ministero messianico Gesù, secondo il racconto lucano (cf. 4,16-30) si rifà alla profezia del Deutero-lsaia: «veni evangelizare pauperibus». Dopo averla letta dal rotolo del libro, Egli annuncia: «oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi» (4,21). Ritroviamo lo stesso annuncio, in forma paradigmatica e straordinariamente incisiva, nel discorso delle beatitudini (cf. Mt 5,3-18; Lc 6,20-26), L'essenziale è comprendere per quale motivo i poveri (categoria in certo modo riassuntiva di tutte le altre, cui Gesù si rivolge in questa pagina) sono "beati": «perché di essi è il Regno dei cieli». E cioè, perché JHWH interviene proprio a loro favore, introducendoli nello spazio di una nuova e piena libertà e comunione con Lui e tra loro. È questo, infatti, il senso della proclamazione della beatitudine da parte di JHWH verso il suo popolo (e in particolare verso il suo resto fedele e povero), già presente nell'Antico Testamento. Basti pensare al Salmo 146.
Il fatto è che Gesù non solo annuncia quest'intervento escatologico di JHWH, ma, nella sua concreta prassi, lo rende attuale ed efficace. Come mostra - per tutti - l'episodio narrato da Matteo, quando il Battista, «che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, mandò a dirgli per mezzo dei suoi discepoli: "sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?"» (Mt 11,2-3). Gesù risponde: «Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: i ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi acquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella» (Mt 11,4-5). È indubbia, dunque, e coerente con la promessa veterotestamentaria, la precedenza e la preminenza che, nell'annuncio dell'avvento del Regno e dell'amore di Dio, hanno per Gesù di Nazareth i poveri, nel senso integrale e ampio, materiale e spirituale del termine. Lo stesso chiedersene il perché mostra che si è lontani dal sentire come Gesù. In ogni caso è importante esplicitare le ragioni che illuminano questa prassi di Gesù e della comunità cristiana.
Innanzitutto, già al di fuori dell'orizzonte della fede biblica il volto del povero, del debole, dell'inerme è di per sé un'interpellazione etica che richiama in modo irrevocabile la coscienza umana all'accoglienza e alla giustizia nei confronti dell'altro. E la fede biblica ne è un'esplicitazione (cf. E. Levinas). Ma il fondamento ultimo dell'opzione preferenziale per i poveri è l'azione di un Dio che è misericordia e Amore, e che quindi, proprio perché ama tutti, non può non privilegiare gli ultimi affinché il suo amore sia veritiero, realistico ed efficace.
Inoltre - e in modo decisivo - l'azione di Dio ha il suo culmine escatologico in Cristo: il suo kerigma, la sua prassi e l'esito pasquale della sua vicenda storica mostrano appunto che Dio ama i poveri non solo al punto di condividere la loro situazione, ma addirittura di identificarsi con essa. E proprio attraverso questa identificazione per amore che Dio trasforma la situazione dei poveri, donando il suo Spirito, che è la forza di amore-libertà interiore all'uomo che rinnova e libera, nella giustizia, i rapporti con Dio e tra gli uomini a partire dalla conversione del cuore: per cui lo Spirito del Risorto diventa lo spazio della nuova terra promessa in cui gli uomini sono chiamati a vivere nella comunione e nella giustizia della nuova Alleanza, che ha pertanto una valenza sociale, politica ed economica. È questa, in fondo, la prospettiva in cui va letta l'esperienza della comunità primitiva descritta dagli Atti degli Apostoli, dove Luca può affermare che non c'era più povero in mezzo a loro (secondo la promessa del Deuteronomio).
Altro grande segno distintivo del kerigma e della prassi di Gesù è certamente il superamento della legge del taglione e la formulazione in positivo dell'amore per il nemico: come, ad esempio, in Mt 5,38-48 16. Quando Gesù afferma di «non contrapporsi» al malvagio tradurrei preferibilmente così il greco antìstemi, nel senso di: non pagare il malvagio con la sua stessa moneta, piuttosto che nei termini del "non opporsi", che può rendere ambigua la comprensione del significato del loghion. Vuoi dire che occorre vincere il male con il bene, ritrovando in sé (con la grazia di Dio) le risorse per rispondere in modo positivo all'affronto ricevuto, rompendo la catena della violenza. Formulando il comandamento dell'amore per i nemici in chiave positiva, Gesù introduce delle specifiche e concrete indicazioni per una prassi alternativa ed efficace. I suoi discepoli «devono amare senza sperare di essere ricambiati, prestare anche quando sanno che non ci sarà restituzione, dare senza riserve e senza limiti. Essi devono accollarsi l'ostilità del mondo volenterosamente, senza opporre resistenza e con spirito di sacrificio (Lc 6,28); anzi devono beneficare chi odia, ricambiare le maledizioni con benedizioni e pregare per i loro persecutori (Lc 6,27s.; Mt 5,44)». Gesù - non bisogna sottovalutarlo - parla positivamente di agape verso i nemici: il che significa che l'amore che Lui predica non è un sentimento (che, altrimenti, non sarebbe possibile provare un sentimento di trasporto verso chi ci ha fatto del male), ma una determinazione della libertà che decide di volere il bene dell'altro, anche del nemico, costi quel che costi. È importante, dunque, sottolineare alcune caratteristiche di questo comandamento dell'amore al nemico:
- è il comandamento di una nuova epoca, quella dell'avvento del Regno, come sottolinea la formula antitetica, tipicamente gesuana, nella cornice della quale è presentato («fu detto dagli antichi... ma io vi dico» Mt 5,21.43);
- è espressione suprema di gratuità, di quel dare senza aspettare il contraccambio che è tipico del vero amore, anzi «questo amore del nemico è l'agape, l'amore stesso senza fondo col quale Dio ci ama, la spia per vedere se realmente abbiamo conosciuto e sperimentato Dio»;
- per questo è anche espressione di quel "di più" dell'amore, che ne sottolinea la caratteristica feconda, creativa, inesauribile, di continuo autotrascendimento: «se infatti amate quelli che vi amano che merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se salutate soltanto i vostri fratelli, che cosa fate di più? Non fanno così anche i pagani?» (Mt 5,46-47);
- implica una strategia di non-violenza attiva che mira a modificare in positivo la posizione dell'avversario (la gratuità non è in contraddizione con una sincera intenzione di provocare la reciprocità), è un amore ricreatore: «se amare è come generare un figlio, perdonare è come risuscitare un morto».

(P. Coda è docente di teologia dogmatica alla Pontificia Università Lateranense e di teologia sistematica all'Istituto Universitario Sophia. È autore di numerose pubblicazioni teologiche caratterizzate da una forte impronta trinitaria.)

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