Ministero diaconale e nuova evangelizzazione


Il diaconato in Italia n° 176/177
(settembre/dicembre 2012)

ANNO DELLA FEDE


Ministero diaconale e nuova evangelizzazione
di Giuseppe Colonna

Tre cose distinguono sociologicamente i diaconi dai presbiteri: il fatto di poter essere sposati, l'esercizio di una professione secolare e l'adempimento del proprio ministero in assoluta gratuità. Queste caratteristiche sono viste positivamente dal popolo di Dio; in particolare viene apprezzata una diaconia umile e disinteressata, in una società inebriata dal materialismo pratico e dalla presunta onnipotenza del dio denaro.
La condizione sociologica che i diaconi hanno in comune con i laici, e cioè di essere inseriti nella propria famiglia e nell'ambiente di lavoro, può essere letta come la trasposizione in chiave moderna del fatto che i primi Sette erano di lingua greca, cioè condividevano la cultura di quelli cui erano mandati e avevano la capacità di farsi interpreti presso i fratelli. Ma il diacono ha anche una posizione particolare rispetto ai fedeli laici perché - ordinato dalla Chiesa - sollecita, anima, sostiene, serve la porzione di popolo di Dio che gli è affidata, con la parola, la preghiera e la carità. Al tempo stesso è in grado di riportare situazioni, aspirazioni e tendenze che emergono dalla realtà sociale a presbiteri e vescovi.

Il mandato evangelizzatore del diacono
Tutto questo mette in luce il potenziale di raccordo del diaconato fra gerarchia e fedeli laici, come è possibile notare fin dalla sua nascita nella Chiesa apostolica. Nella chiesa di Santo Stefano a Venezia, una tela di Vittore Carpaccio rappresenta l'ordinazione di Santo Stefano; quello che colpisce è che la scena si svolge tutta all'esterno della città: San Pietro sta sui gradini d'un portico e impone le mani ai Sette inginocchiati, mentre intorno alcuni seguono il rito, altri parlano fra loro, altri sono intenti nelle proprie faccende. È una efficacissima illustrazione del diacono "ministro della soglia", cui è affidato il compito di prendersi cura di quanti stanno fuori dalla porta della Chiesa.
E proprio con l'icona della porta inizia il motu proprio Porta fidei di indizione dell'anno della fede: «la porta della fede... è sempre aperta». Il mandato evangelizzatore del diacono è reso evidente dalla consegna dei libri sacri nel rito di ordinazione. In una lunetta del mausoleo di Galla Placidia a Ravenna è raffigurato San Lorenzo che va verso la graticola in fiamme, mentre in un armadietto sono custoditi i quattro vangeli, proprio ad evidenziare la missione del diacono di custodire e annunciare la Parola, come fa normalmente nella proclamazione del Vangelo e una volta all'anno nel canto del preconio pasquale. Molte sono le occasioni nelle quali ordinariamente il diacono esercita questo mandato: portando la comunione ai malati o la benedizione alle famiglie, convocando e guidando piccole comunità fra famiglie o negli ambienti di lavoro, amministrando il battesimo, presiedendo le esequie, guidando gruppi di pellegrini, animando la lectio divina, ecc. Ma ora è il momento di aprire una riflessione per considerare il nuovo contesto nel quale si svolge l'opera evangelizzatrice.

Il nuovo contesto culturale
In una delle omelie del mercoledì (23 maggio 2012), il papa è partito dalla constatazione che l'uomo è per sua natura religioso, in quanto il desiderio di Dio è iscritto nel suo cuore. Da una recente rilevazione statistica, il 75 % degli italiani riconosce di avere una fede religiosa e questa percentuale sembra in aumento rispetto al passato. Il problema è che questa fede religiosa tende a deistituzionalizzarsi, cioè a svuotarsi del senso di appartenenza a una istituzione religiosa; si va diffondendo una fede che evita di far preciso riferimento a una religione, tanto che si può parlare di religiosità senza religione; una fede fai da te, frutto di un atteggiamento sincretistico soggettivo, che considera fuori portata il raggiungimento di verità e valori universali. Anche perché il mondo della comunicazione rovescia su ciascuno di noi una quantità di notizie e percezioni largamente superiore alla nostra personale capacità di elaborazione. In questa confusione molti non posseggono una verità su cui costruire la propria esistenza. Sono le conseguenze del relativismo.
Un altro rilevante fenomeno nella cultura occidentale è che il cristianesimo non è più visto come forza storica in grado di unificare vita e cultura (come ha fatto per tanti secoli in passato); anzi il subconscio culturale è contro l'umanesimo cristiano, ritenuto incapace di illuminare una via di progresso, incidere nella storia e cambiare il mondo: delegittimato socialmente, il cristianesimo tende a essere privatizzato. È il risultato di un'egemonia culturale secolarizzata. Molti infatti vedono la religione cristiana come un insieme di pratiche rituali tramandate dal passato e una lista di norme morali piovuta dall'alto; inoltre i mezzi di comunicazione sociale tendono a scardinare le motivazioni dei precetti morali in nome di una libertà concepita come valore individuale assoluto.
Del resto la crisi delle ideologie e anche dei modelli alternativi (quelli del '68) ha drasticamente indebolito la fiducia in tutte le istituzioni, anche quelle - quali lo Stato, la democrazia, l'Europa, gli organismi sovranazionali - un tempo considerate incontestabili. Da ultimo constatiamo che molti vivono in condizioni di povertà materiale, oggi più che nel passato. Ma, a ben vedere, non è la povertà materiale che allontana dalla Chiesa: sono invece le povertà culturale e spirituale che rendono le nostre chiese sempre più vuote. Che vuol dire "nuova evangelizzazione"? La prima cosa che viene alla mente è: evangelizzare di nuovo una società ormai secolarizzata. Molti battezzati credono di conoscere, ma sanno veramente poco della nostra fede, hanno una conoscenza superficiale e infantile; e credere di sapere è cosa molto peggiore di una consapevole ignoranza. Potremmo parlare di analfabetismo religioso di ritorno. Tanti poi vivono in permanente contraddizione fra valori di riferimento e quotidiana pratica di vita: la drammatica separazione fede - vita in un clima di «rottura tra Vangelo e cultura» (Paolo VI).
Bisogna dunque fare attenzione perché ri-evangelizzare non è come evangelizzare per la prima volta: da un lato c'è il vantaggio di poter usare le medesime categorie mentali, morali e sociali che provengono dalla visione cristiana d'un tempo, ma dall'altro occorre tener conto degli «anticorpi culturali» che si sono sviluppati nel frattempo, cioè dei preconcetti contro la fede. Per prima cosa bisogna attrezzarsi ad arginare e abbattere questi preconcetti sviluppando precise argomentazioni apologetiche, come ho notato fare Benedetto XVI nel suo magistero.
In secondo luogo "nuova evangelizzazione" vuoi dire evangelizzare in modo nuovo (e qui si apre un largo ventaglio di possibilità, cui si fa cenno senza pretesa di completezza):
• da nuovi pulpiti, quelli cioè offerti dal dirompente sviluppo della rete, ma anche dalla capillare diffusione della stampa gratuita;
• verso nuovi interlocutori: non più soltanto quel 10% che gravita sulla parrocchia, ma anche quel 90% che se ne tiene alla larga;
• con nuovo linguaggio, non solo per rendere comprensibile e attraente il messaggio, ma soprattutto per parlare al cuore delle persone, partendo dalle loro vere esigenze esistenziali;
• con nuove modalità, cioè con testimonianza esplicita e segni profetici;
• con un nuovo atteggiamento, pieno di gioia per l'annuncio della salvezza in una società triste, pieno di gratuità in una società interessata, fermamente convinto in una società dubbiosa, radicato nella speranza in una società sfiduciata;
• alle nuove generazioni, visto che si è interrotta la catena di trasmissione della fede da genitori a figli. Si nota in particolare, se si fa un confronto fra i nati prima e dopo il 1970, una tendenza ad abbandonare la pratica religiosa più marcata per le donne che per gli uomini e questo è particolarmente preoccupante dal momento che la trasmissione della fede avviene prevalentemente da madre a figli;
• con nuovo metodo, che poi è un metodo antico: quello della complementarietà fra parola, preghiera e carità. Questo significa rivolgersi alla comprensione (con illuminanti catechesi), non trascurando mai di coinvolgere anche nella celebrazione (con le "scuole di preghiera") e nella testimonianza (a partire dal santificare il proprio quotidiano);
• con nuove risorse, e cioè fedeli laici appositamente formati per impegnarsi nella nuova evangelizzazione.
Può esser d'aiuto che le comunità cristiane guardino a questo grande impegno con lo "schema di Verona", cioè la nuova impostazione varata nel Convegno Ecclesiale Nazionale tenutosi nell'ottobre 2006, orientata agli ambiti vitali nei quali vive l'uomo (la famiglia, il lavoro e la festa, la fragilità, la trasmissione della cultura e della fede, la cittadinanza) e non più alla tradizionale (e autoreferenziale) tripartizione delle attività parrocchiali (catechesi, liturgia e carità). Un efficace invito a un'autentica evangelizzazione ci viene da San Pietro: «Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15). Se analizziamo e meditiamo parola per parola questo autorevole invito ne viene una formidabile lectio divina missionaria.

L'anno della fede
Già da tempo il papa ha indetto l' "Anno della Fede" Nel motu proprio, Benedetto XVI dice chiaramente che nel nostro contesto secolarizzato non possiamo più presupporre la fede, ma dobbiamo proporla, e osserva che tante persone sono comunque in sincera ricerca del senso ultimo della loro esistenza, atteggiamento da vedere come un autentico preambolo della fede. Nota inoltre che la stessa ragione umana, a volte erroneamente vista come antagonista della fede, in realtà porta insita l'esigenza di cercare e scoprire ciò che «vale e permane per sempre». Insomma, nel cuore dell'uomo è iscritto un desiderio di assoluto, una nostalgia di Dio alla quale la Chiesa è chiamata a dare risposta riscoprendo la propria fede, approfondendola, proclamandola e testimoniandola.
I dicasteri vaticani hanno pubblicato alcune molto puntuali indicazioni pastorali a diversi livelli: sia per la Chiesa universale, sia per le Conferenze episcopali, sia per le Diocesi, sia per le parrocchie e le comunità ecclesiali. Leggendo la "Nota con indicazioni pastorali per l'anno della fede", si apprezza lo sforzo per calare l'invito del papa sul piano di un concreto impegno evangelizzatore. Quanto al "da fare", si nota infatti la reiterata sollecitazione, per ciascuno dei soggetti ecclesiali chiamati in causa, a seguire 10 specifiche piste di approfondimento e testimonianza, una specie di agenda-decalogo volta a stimolare iniziative evangelizzatrici originali e incisive. «Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di "Cortile dei Gentili" dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio». Era il Natale 2009 quando Benedetto XVI ha comunicato questa sua intuizione, proponendo un luogo di incontro che ricorda quello adiacente al Tempio di Gerusalemme, aperto a tutti coloro, anche pagani, che si rivolgevano a sacerdoti e scribi per conoscere meglio la religione di Israele. Serve infatti uno spazio di dialogo, continua il papa, «con coloro ai quali Dio è sconosciuto e tuttavia non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma almeno avvicinarlo come Sconosciuto». Torna alla mente l'esperienza di san Paolo ad Atene, quando prese le mosse da un'ara con l'iscrizione "Al Dio Ignoto" per proclamare: «Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio».
Questo spazio di dialogo credenti-atei ha il fine di rimettere seriamente al centro la domanda su Dio, che rischia di essere ignorata o banalizzata, come avviene in certi salotti televisivi (alla Piergiorgio Odifreddi, Margherita Hack, Piero Angela, Umberto Veronesi, ecc.), nei quali i credenti passano per creduloni e gli atei esibiscono con dogmatica certezza il loro non credere. Molti sono invece quelli che vivono il dramma dell'incredulità e rispondere alle loro domande, che partono dalla ricerca di senso per la vita umana, rafforzerebbe anche le ragioni del credere.
Occorre prendere in considerazione, partendo da Dio, le tante domande sull'uomo che altrimenti rimarrebbero senza risposta. Questo spazio di dialogo si può pensare articolato su due livelli:
- un primo livello, che riguarda le élite culturali (filosofi, scienziati, intellettuali, teologi), alle quali si rivolge, con iniziative che hanno un notevole impatto mediatico, il Pontificio Consiglio per la Cultura, il progetto culturale della Cei, ecc.;
- un secondo livello, che riguarda tutti gli uomini di buona volontà, affidato all'inventiva pastorale delle ordinarie strutture della Chiesa.
In condizione oggettivamente privilegiata per affrontare un confronto sulle ragioni del credere siamo noi diaconi, per il nostro ministero di annuncio e per le dinamiche sociali nelle quali siamo immersi. Ma è un compito nient'affatto facile; per svolgerlo validamente ritengo che ci tornerebbe utile approfondire i temi e le argomentazioni dell'apologetica, sul duplice fronte di difendere la ragionevolezza della fede e di confutare la presunta razionalità dell'ateismo. E ho notato che nel magistero di Benedetto XVI si trovano molteplici spunti in tal senso.
Ma in concreto cosa vuoi dire «spazio di dialogo»? Si aprono varie possibilità: si può pensare a uno spazio fisico (una sala riunioni in parrocchia o nel luogo di lavoro o in un club, un salotto aperto ad amici e conoscenti, ecc) oppure uno spazio virtuale (con le tante opportunità di incontro e confronto che la rete offre). L'importante è che il dialogo eviti ogni dogmatismo e tentativo di proselitismo e sia improntato al rispetto della persona e alla ricerca della verità. Solo così il Cortile dei Gentili potrà essere un vero disinteressato servizio all'uomo. Andare in terra di missione è un'autentica scuola di "nuova evangelizzazione". L'esperienza dei diaconi di Roma è molto bella: nel settembre 2001 il diacono Luigi Bencetti andò con la moglie Isabella a vivere in una parrocchia all'estrema periferia di Lima, in una zona poverissima, dove arrivano i diseredati dalle Ande e dalla Selva, attratti dal miraggio della capitale. Se la povertà materiale è immediatamente percepibile (basta vedere la miseria delle loro baracche), più difficili da riconoscere sono i condizionamenti culturali e sociali. Immaginate quanto ci sia da fare, ma in queste situazioni la cosa più importante è partire dall'uomo, riconoscendo a ciascuno la propria dignità e non c'è dignità maggiore che esser figli di Dio. Ecco che la promozione umana si lega strettamente all'evangelizzazione.
Questa esperienza, che ha coinvolto me e diversi altri diaconi romani, è certamente positiva per i nostri amici peruviani, ma lo è ancor di più per noi, perché ci interroga su ciò di cui la gente ha veramente bisogno per crescere umanamente e spiritualmente e su come attivare tutte le risorse, umane ed economiche, rispettando le diverse sensibilità culturali. Ad esempio far leva ed educare la fortissima religiosità naturale dei peruviani (attrazione per l'aspersione con acqua benedetta, desiderio di celebrare nella festa). Tutto questo, riportato nella nostra realtà, nelle parrocchie, ci aiuta a non rimaner legati al "qui s'è sempre fatto così" e ad immaginare e sperimentare modalità e forme di evangelizzazione originali ed efficaci.

La bellezza e la gioia della fede
Nel motu proprio Porta fidei colpisce il pressante invito a comunicare la bellezza e la gioia della fede. Si legge infatti: «mettere in luce la gioia e il rinnovato entusiasmo dell'incontro con Cristo» (n. 2), «illustrare a tutti la forza e la bellezza della fede» (n. 4), «riscoprire la gioia nel credere e ritrovare l'entusiasmo nel comunicare la fede» (n. 7), «la fede... quando viene comunicata come esperienza di grazia e di gioia... allarga il cuore» (n. 7), «le prove della vita ... sono preludio alla gioia e alla speranza cui la fede conduce» (n. 15).
Tutto questo ci sollecita a valorizzare la bellezza della fede, in grado di comporre (come in un arazzo composto da fili di diversi colori) una visione coerente e non frammentata dell'esistenza umana. E ci sollecita, d'altro lato, a utilizzare «la via della bellezza» per alzare lo sguardo all'opera creatrice e redentrice di Dio (a Roma le imponenti memorie della fede). Occorre anche far leva sul desiderio di felicità di ogni creatura: la conoscenza della verità e la pienezza dell'amore sono essenziali per la felicità che cerchiamo. Annunciamo dunque la perenne novità del Vangelo, perché la fede migliora la qualità della vita. È questo il clima della nuova evangelizzazione. Tutto ciò non può lasciare i diaconi da spettatori e nemmeno vederli solo come disciplinati esecutori. Poniamoci una domanda inusuale: come mai il primo martire fu proprio un diacono? Una pura coincidenza o vi è una qualche motivazione? Sappiamo bene che il diacono è conformato a Cristo servo, è cioè icona di Colui che «non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita» (Mc 10,45): santo Stefano è stato icona fedele di Cristo fino alla fine. Questo è un esempio per tutti noi diaconi, chiamati a dare quotidianamente la propria vita per le necessità del popolo di Dio.
Poniamoci ora un'altra domanda, non così ovvia come sembra: perché furono ordinati i Sette? Si dirà: per il servizio delle mense. Questo però era solo il compito specifico necessario in quel monumento, rimediare a un disservizio, e per far questo forse sarebbero stati più utili dei cuochi che degli «uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza» sui quali imporre le mani. In realtà la ragione dell'ordinazione stava a monte: era sorto un malcontento fra gli ellenisti verso gli ebrei, una tensione all'interno della comunità, una cosa tremendamente seria che incrinava l'unità di amore per la quale Gesù aveva pregato: «Perché tutti siano una cosa sola... perché il mondo creda che tu mi hai mandato». Era in gioco la vita e la missione della Chiesa. Chiediamoci ora: «Cosa di tremendamente serio sta vivendo oggi la Chiesa?». Se è la perdita di credibilità e di attrazione sulla gente sarà proprio la "nuova evangelizzazione" il nuovo compito per i diaconi e ritengo che proprio il loro ruolo di cerniera con la società li spinga a farsi promotori di azioni concrete, suggerendo, stimolando e impegnandosi in prima persona con disponibilità e creatività.
Concludo con una sollecitazione/provocazione per noi diaconi delle regioni del Centro Italia: sarebbe bello che anche le nostre comunità avviassero una riflessione per focalizzare 10 punti programmatici, l'agenda-decalogo, su cui potremo impegnarci, il prossimo anno, per annunciare e testimoniare la bellezza e la gioia della fede.

(G. Colonna è diacono della diocesi di Roma e Componente dell'Ufficio della pastorale sociale)


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