Il diaconato in Italia n° 176/177
(settembre/dicembre 2012)
TESTIMONIANZA
Un diacono in ospedale
di Pippo D'Antona
Per un anno, ho cercato di stare vicino agli ammalati ricoverati nella Fondazione Pascale di Napoli. Passavo in ospedale due pomeriggi a settimana e, in più, se potevo, partecipavo all'adorazione della santa eucaristia il giovedì alle 18. Nell'ospedale conoscevo bene un medico che da dieci anni era crocifisso alla dialisi. Ci incontravamo spesso a casa sua; quando non poteva uscire gli portavo la comunione di Gesù.
Ero stato collega di lavoro di sua moglie e la prima delle sue due figlie aveva scelto di prepararsi al sacramento della Confermazione con me. Ci stimavamo e ci volevamo veramente bene: la notte in cui è morto, la moglie ha chiamato me, per avere una aiuto: stava male, abbiamo deciso di chiamare il 118, l'hanno portato all'ospedale Cardarelli dove conosceva molti medici che gli volevano bene e dove veniva sottoposto a dialisi. Siamo stati lì ad aspettare con la sicurezza che, come altra volte, avrebbe superato la crisi. Uscì Bruno, mi pare, piangendo e disse che era finita.
È un bell'ospedale, il Pascale. Pulitissimo, il personale è di una gentilezza e di una sensibilità inusuali. Le suore fanno da caposala in alcuni reparti, ma sono in effetti dei veri angeli per le persone ricoverate. Quando entravo in ospedale, per prima cosa salivo all'ottavo piano dove allora c'era la cappella e, regolarmente, vi trovavo una di loro intenta a pregare. Io chiedevo a Gesù di darmi la forza di capire e dimostrare la mia sincera fraternità alle persone che avrei incontrato.
Poi scendevo al terzo o al sesto piano (i due reparti di medicina che il Cappellano, padre Domenico, mi aveva affidato) e cominciavo il mio giro. Bussavo, mi presentavo come uno dei diaconi della vicina parrocchia e chiedevo se potevo essere utile. Questo permetteva un avvio di conversazione che generalmente cominciava con l'indicazione del quartiere o della città di provenienza del paziente e si dipanava con cenni sulla malattia, sulla cortesia del personale, sull'efficacia delle ultime terapie.
Spesso parlavo loro di Patrizia, una bella ragazza di colore che avevo preparato al battesimo insieme alla mamma (che aveva solo sedici anni più di lei). Le due donne avevano chiesto il Sacramento dopo che Patrizia aveva superato un tumore ai polmoni. Alla fine, se le persone presenti lo volevano, recitavamo una breve preghiera insieme e poi impartivo la benedizione di Gesù.
Le situazioni che mi portavano a risalire immediatamente all'ottavo piano per buttarmi davanti a Gesù per pregarlo di accogliere le mie lacrime, erano quelle contro natura: quelle in cui un genitore è al capezzale del figlio ammalato di tumore. Non siamo preparati a questo, non lo supponiamo proprio: i genitori si preoccupano di preparare i figli al naturale evento della loro scomparsa e basta. Non si può ipotizzare il contrario.
Eppure succede; e quando vedi un genitore al capezzale della sua creatura ammalata di cancro, tocchi la disperazione, la bestemmia feroce o la preghiera che ferma il respiro, l'ansia e la disponibilità a tutto, purché la situazione cambi.
Fu il caso della mamma di Francesco. Scendendo per tornare a casa, sentii gridare al primo piano dove c'è il reparto di chirurgia. Mi fermai e vidi questa donna che protestava e gridava: non voleva che il figlio fosse dimesso. Aveva ventidue anni, Francesco, e la mamma mi disse che da nove anni viveva seguendolo e guidandolo nei vari ospedali d'Italia per combattere il male che minacciava la sua esistenza.
In più si sentiva in colpa nei confronti del secondo figlio, nato nove anni prima, contemporaneamente alla scoperta del male di Francesco, e che lei non aveva potuto seguire presa com'era dalla necessità di lottare per ed insieme a Francesco.
Parlammo a lungo, quella sera e i giorni seguenti. Francesco sembrò migliorare, mi diede il numero del suo telefonino, nel caso lo avessero dimesso. Lo dimisero; lo chiamai a casa e gli promisi che sarei andato a trovarlo; il giorno successivo avrei ritelefonato per avere il suo indirizzo. Chiamai: il telefonino era spento. Anche i giorni successivi. Sempre.
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