Il diaconato in Italia n° 175
(luglio/agosto 2012)
FOCUS
Don Altana: la sua profezia all'origine della mia vocazione diaconale
di Enzo Petrolino
Avevo letto e sentito parlare di don Alberto tante volte, nella mia diocesi di Reggio Calabria, da due persone a me tanto care le quali hanno anche loro contribuito in maniera direi determinante alla mia vocazione diaconale: il compianto don Domenico Farias, compagno di studi di don Altana al Capranica, e Maria Mariotti, ancora attiva nonostante i suoi 95 anni di età, amica di don Alberto che la stimava tantissimo soprattutto per la sua passione alla chiesa locale e alla promozione della ministerialità laicale. La prima volta che conobbi don Altana fu proprio durante un viaggio con la Mariotti a Reggio Emilia. Siamo alla prima metà degli anni '70. Dovevamo prendere contatti, inviati da don Farias, con la comunità di Monteveglio e con Dossetti. Nella stessa occasione, conobbi per la prima volta anche Osvaldo Piacentini.
Don Alberto Altana ha incarnato come nessun altro, soprattutto negli ultimi suoi anni, da vero profeta, una presenza scomoda ed irrinunciabile. Questo perché don Alberto non era una persona chiusa nel privato, ma ogni suo gesto, ogni suo modo di fare era innanzitutto espressione viva ed efficace del suo modo di essere. I suoi stessi scritti lo rendevano allo stesso tempo scomodo e amatissimo. Dice qualcuno che, alla fine, di una persona restano una manciata di aneddoti, certo i più significativi, "memoria vissuta" di una vita che va oltre la vita stessa. Per don Alberto gli aneddoti si sprecano, fino a diventare leggenda in senso etimologico e testimonianza, quindi, di una vita da leggere tutta intera come se fosse un libro, una "Parola" - forse - per la concatenazione serrata degli eventi, per il loro fluire compatto, e per quei "continui" di meraviglia, capaci di portarci ora in cielo ora nel fango della disperazione dei poveri degli emarginati. Alcune sue parole ci illuminano al riguardo: servire è operare per gli altri ... quando il servizio è così totale da investire tutta la persona ... il servizio diventa un essere per gli altri se si ama totalmente ... ecco il rivelarsi chiaro della diaconia quotidiana comune di Alberto.
Ha involontariamente reso il suo privato pubblico perché potesse essere spiato, trasformando in patrimonio comune la sua povertà e la sua diaconia: una differenza dai palazzi data dall'abbandono del luogo comune, dove di comune c'è solo il nascondi mento delle proprie forze telluriche, di quel bisogno d'amore che tutti ci lega pur restando - a volte - inespresso, ma che don Alberto non sapeva e non poteva nascondere. Eppure lo faceva da vero emarginato, perché "inaffidabile", perché il suo amore per Cristo, per il diaconato e per i poveri lo rendeva refrattario a una messa in mostra che avrebbe richiesto limiti dettati da una prudente conservazione di sé: quelli che Alberto non si è mai dato nella sua vita, spesa unicamente per gli altri. Assenti da sempre, nella sua esistenza, il calcolo, l'opportunismo, il trattenere qualcosa per sé stesso. Siamo, anche qui, mille miglia lontani dall'attuale spettacolarizzazione dell'immagine del "personaggio pubblico" ecclesiale. Don Alberto metteva naturalmente in scena solo il desiderio di comunicarci il suo amore per il diaconato che coincideva con l'amore per i poveri, gli stranieri, gli ultimi, e che travalicava coraggiosamente le regole di un sistema nel quale il "dare" viene comunemente calcolato sulla fruibilità di un sicuro contraccambio. Mentre lui esagerava, prendeva alla sprovvista, negava i luoghi comuni di un vivere ecclesiale comodo, seduto, prevedibile.
Don Alberto era "un prete" nel senso della novità "incendiaria ed essenziale" perché non aveva altro da dire se non sé stesso e Cristo che viveva in lui, una autobiografia distillata istante per istante e in ogni momento verificata dal solo ascolto di una parola, quella di Dio. Altro non era che l'essenza senza fronzoli. Sovvertì tutte le regole e si impose il rifiuto di ogni sedicente legittimazione "alta". La diversità era soprattutto nei rapporti interpersonali, nell'accostare ed ascoltare le persone e nella capacità di parlare al cuore di ognuno.
Fuori da ogni regola, è apparso su questa terra con l'impatto messianico e profetico di chi non ha altro da testimoniare se non il proprio sacerdozio, i propri slanci d'amore e - a volte - le proprie delusioni. Nessuna maschera. Ma don Alberto ha anche vissuto, specialmente negli ultimi anni della sua vita, in un mondo silenziosamente parlante come un cero pasquale che si consuma, dando splendore di luce senza maschere ed etichette che ha sempre rifiutato, vivente e proliferante anche nel suo immobilismo: suo malgrado. Don Alberto era "il prete degli esclusi". La sua vita è estremamente inclusiva, capace di macinare e dare nuova forma a qualunque cosa la sua anima le presentasse sul momento, come tutti potrebbero fare se mille maschere non offuscassero l'essenza dello Spirito che alberga in ciascuno con l'urgenza dell'amore.
Non aveva nulla da nascondere: "albergava deserti" di povertà in via Adua dove di casa erano stranieri, barboni, poveri di ogni specie, dove albergava il samaritano ferito, Cristo, perché il confine tra la sua carne e la sua passione per i poveri era stato smangiato, da decenni, da quel lento e fedele consumarsi che sottrae in ogni tempo i cercatori di verità dalle convenzioni che diluiscono il Vangelo nelle foschie del compromesso. E se il prezzo da pagare è l'emarginazione poco importa: in un mondo ecclesiale spesso alla rovescia, come è stato tenace il suo ripetere quasi fino alla noia che la chiesa di Cristo deve essere serva e povera! Di don Alberto, purtroppo, potremmo con dolore dire vox in deserto come ce ne sono poche, e come poche ancora ne risuonano in questo tempo di frastuoni e distonie, perché soprattutto oggi "guai a chi alberga deserti!". Chi può, ne rifugge nella consolazione di una vita cosiddetta "normale". Don Alberto era e resta protagonista di un mistero che la nudità rende manifesto e insieme inguardabile senza i crismi del consumo. Una nudità che non voleva essere altro che quello che è, senza nessun accorgimento estetico, bruciando di carità in tutta la sua deperibilità e precarietà, come la maggior parte della sua vita. Occorreranno anni per inquadrarla, per riunire in un solo, immortale libro che travalichi gli anni senza la sua presenza, senza il suo corpo, senza le sue originalità e l'intera sua vita all'insegna del rifiuto dell'ovvio e del trionfo del vero. Oggi più che mai urge la sua mancanza, il suo caso unico di profeta del diaconato in Italia che si è fatto carne, che non teme i miasmi del mondo e profuma di santità, che scomodamente ci attende dove non ce lo saremmo mai aspettato, nella quotidianità di un'urgenza per un ministero che rischia ancora una volta - teniamolo a mente - di scomparire.
Alberto faceva tabula rasa delle gerarchie, e con un gesto che solo i grandissimi possono fare travolgeva ogni argine: per lui ogni cosa era, e nei suoi scritti rimane. Rimane con l'impossibilità di un desiderio che non ha fine, con la certezza che tutto nel cielo è movimento... e Alberto non è mai stato fermo, come il fuoco del roveto ardente ha bruciato senza sosta perché la povertà, - quella vera - è condannata a perdurare dall'ignavia di chi non ha saputo cogliere la perenne mutazione degli stati d'animo e delle cose, quelle che lo sguardo luminoso e lungimirante di Alberto, pervaso di sapienza e santità, penetrava e manifestava con la vita.
Faceva paura, Alberto. Metteva allegria. Dava gioia e poteva spaventare. Come un equilibrista sul filo tra sapienza e profezia ci imponeva di guardarlo lassù, dove anni di spaventoso esercizio, l'apprendistato del dolore, l'avevano condotto e dove in fondo era sempre stato, un giovane promesso presbitero ma sopravvissuto per il suo amore ad un diaconato in cui ha sempre creduto, un diaconato che, come diceva Paolo VI, doveva e deve essere fattore di rinnovamento della Chiesa. Don Alberto: il prete per tutti e di tutti purché disposti a lasciare aperto, nel loro animo, uno spiraglio di verità, l'amore per i poveri instancabile nel riproporsi, malgrado ogni nostro appello all'ordine, alla normalità. Don Alberto, che dormiva poche ore, sulla normalità ci rideva sopra, tranne poi trovare proprio in quella normalità il filo che tutti ci unisce, quando scendeva in preghiera di fronte a ciò che è troppo quotidiano perché gli occhi possano vederlo; eppure lui sì, lo vedeva e lo diceva, con la leggerezza e la veemenza di un bambino. Se veramente ci sta a cuore la salvezza del mondo - diceva Alberto - e quindi il rinnovamento ecclesiale in funzione di questa, bisogna fare qualcosa, con docilità allo Spirito. E la prima cosa da fare "cominciare ad essere" più intensamente Chiesa.
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