Il diaconato in Italia n° 173
(marzo/aprile 2012)
EDITORIALE
Un avviso ai naviganti e… ai navigati
di Giuseppe Bellia
È vero, dobbiamo ammetterlo senza reticenze, qualcosa più ingombrante del vuoto ci separa da giovani e giovanissimi, o meglio, come ormai si usa dire, dai nativi digitali. Siamo di un'altra generazione, siamo dei "predigitali" e con impaccio e fatica proviamo a districarci in quel labirinto senza centro e in continua espansione che è la Rete. Gli esperti e quanti dicono di essere in grado di leggere e giudicare la stagione culturale in cui viviamo ci spiegano che in realtà la differenza di adattamento alla modernità che avanza non è data dall'anagrafe, ma va ricercata altrove.
Dove? Chi ha dimestichezza con la Parola e con il silenzio che la evoca e l'accoglie, può ricondurre il gap generazionale a un dislivello non culturale ma teologico. Si tratta dell'aver memoria e dal saper accettare o meno una frattura essenziale, una ferita antica, un tempo giudicata inguaribile: non siamo Dio. Quel delirio infantile e luttuoso di onnipotenza che esaltava i futuristi all'inizio del secolo scorso, per un progresso liberatorio che stava per irrompere, oggi, per i più giovani, è realtà, tutto sommato modesta ma in continua espansione. Il non essere ancora come dio non crea problemi, non indispone, non deprime; in alcuni crea irrequietezza, impazienza, in altri l'attesa suscita uno spirito di torpore. La piaga comunque sembra rimarginata, non ha lasciato traccia. Nel cyberspazio resta solo l'eco distratta di un sentire diffuso: «non siamo Dio, ma siamo a buon punto».
Nel mondo digitale lo scarto creaturale è assente, manca, perché l'imperialismo del "tutto e subito" è ormai prassi globalizzata. I detrattori dicono che è un dio che tutto divora, adorato da masse crescenti di fedeli, inneggiato da ingenui poeti, proclamato da volenterosi profeti e servito da meschini funzionari del sacro. Naturalmente si troverà sempre qualche cantore distratto, pronto a riconoscere ed enfatizzare le infinite risorse dell'iperfuturismo.
Siamo davanti al solito dilemma del bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno, del giudizio da dare a un evento che presenta insieme elementi negativi e aspetti positivi. Il problema è la misura, il discernimento, visto che bene e male sono inscindibili nel cuore dell'uomo, come nella storia. L'avvento fulmineo della cultura digitale è un fatto ormai generalizzato che manifesta evidenti segni di decadimento sociale e di autolesionismo umano, mentre nel contempo offre insperate possibilità di sviluppo tecnologico e di crescita sociale. Esistono già molti e pregevoli studi a riguardo di questa società mediatica e, da oltre un decennio, teologi, esegeti e moralisti hanno accompagnato la voce autorevole e prudente del magistero. Nei documenti pontifici, dove il dislivello creaturale ovviamente permane, si coglie tutta la comprensibile apprensione per l'avanzare rapido della rete mediatica che come un sistema gelatinoso raggiunge e avvolge ogni forma di comunicazione e di cultura soffocando gli spazi vitali della relazione umana. Nel contempo i ripetuti pronunciamenti magisteriali registrano un atteggiamento di apertura e di fiducia verso il web per il potenziale servizio che può rendere alla conoscenza della verità e al bene di tutti. Internet infatti può offrire accanto a potenti mezzi di educazione, di partecipazione politica e di dialogo, feroci strumenti di morte, utilizzati per condizionare, corrompere, sfruttare e dominare i più fragili ed esposti.
L'onnipotenza della civiltà mediatica, sostengono gli specialisti, ha impresso un marchio indelebile alle giovani generazioni, orientando il loro sentire comune verso strettoie di senso dove non si ha più sete di verità, ma di novità, non si va in cerca della conoscenza ma del sapere utile e immediato da ottenere con il minimo impegno e a basso prezzo. Si vive nella continua ricerca di notizie inedite e si naviga a caccia d'informazioni esclusive, senza aspettare la conferma di una verifica o il tempo necessario per vagliare l'affidabilità di quanto si è trovato. Con internet si è interessati al tutto come al nulla, con l'ansia di soddisfare ogni curiosità o di trovare risposta a ogni quesito in tempi ultrarapidi. L'immediatezza della ricezione digitale ha causato la perdita di senso delle antiche categorie dello spazio e del tempo facendo perdere alla memoria la sua fondamentale funzione pedagogica.
Nell'era digitale, la globalizzazione finanziaria di merci e capitali ha spinto molti a credere che sia possibile, anzi inevitabile, raggiungere un'analoga globalizzazione di tradizioni e culture. Convincenti o meno che siano le argomentazioni di sociologi e antropologi si deve prendere atto di questa mutazione epoca le che ci fa nuotare in una società instabile, fluttuante, "tecno-liquida", dove non si prospettano stati di quiete e approdi sicuri. I media hanno assunto una incisiva valenza economica e svolgono una non indifferente funzione ideologica attraverso i social network e i blog che rilasciano garanzie di facile identità a chiunque si associa a questo tipo di relazione.
Una realtà in continua evoluzione che ha infranto le vecchie barriere del sacro, consegnandoci una online religion che ha spazi e ritmi virtuali ancora da scoprire. La nuove tecnologie hanno trasformato il web da strumento in ambiente dove è possibile inventare nuove forme di religiosità, promuovere credenze e celebrare riti, slegati da ogni confronto con la realtà sociale. La stessa tradizione è accolta o rifiutata perché reinterpretata senza vincoli, in modo superficiale e strumentale. Agli ingenui e volenterosi internauti che si sentono chiamati a evangelizzare gli uomini del cyberspazio, ma anche ai navigati protagonisti della pastorale digitale, secondo la buona tradizione marinara, è doveroso dare almeno un salutare avviso. L'esito dell'evangelizzazione non è procurato dall'efficienza del mezzo adottato, ma dalla mediazione di una relazione umana sana, vera, onesta, che accetta di legarsi a un preciso contesto storico-sociale, sapendo partecipare ciò che si crede e si sperimenta.
Per portare qualcuno a conoscere e incontrare Dio non c'è altra strada all'infuori di quella presa da Dio per venire fino a noi; e la sua via è Cristo, il crocifisso, il risorto costituito signore della storia. Non era questo l'insegnamento precipuo di don Mazzolari, di don Milani e di quanti hanno avuto un sentire pastorale più prossimo a quello del Vangelo? A partire da questa verità evangelica di base, l'uso di strumenti mediatici può collaborare e facilitare la consegna della fede, perché permette di sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d'onda degli attuali destinatari, usando la coerenza loro linguaggio e i loro contesti verbali.
In questa luce l'impegno del cristiano, sull'esempio normativo del mistero originario dell'Incarnazione, educa il discepolo a imitare colui che per noi si è fatto uomo e «pur essendo di natura divina [...] spogliò se stesso assumendo la condizione di servo» per divenire simile agli uomini (Fil 2,6-7). A imitazione di chi si è ravvicinato a noi e si è fatto a noi prossimo, chi ha in animo di evangelizzare gli uomini del suo tempo è chiamato anche lui a entrare in relazione, a farsi prossimo di chi si vuole evangelizzare, se si ha a cuore che l'altro incontri Cristo. Non è questa anche la disarmante strategia pastorale dell' apostolo Paolo che si è fatto giudeo con i Giudei, un senza legge con i senza legge, un debole con i deboli; «mi sono fatto tutto a tutti, per salvarne ad ogni modo alcuni. Tutto io faccio per il vangelo, per divenirne compartecipe» (1Cor 9,23). In una società caratterizzata da una comunicazione ipertestuale per riuscire a rendere la cultura religiosa biblica, prossima al sentire moderno, certamente si deve avere una lucida consapevolezza della cultura del lettore attuale e del suo universo simbolico, dove la connessione virtuale ha sostituito la relazione personale.
È questo un effetto del sentire «liquido» del nostro tempo che genera e incoraggia identità deboli e mutevoli, paurose dell'alterità e incapaci di intrattenere rapporti stabili e fedeli. Non è di grande interesse descrivere i mali della frenetica stagione postmoderna o postumana in cui viviamo, ma prendere atto dell'importanza ambigua che la concreta "situazione vitale" riveste nella sensibilità e nella mentalità digitale del nostro tempo, per decidere di convertirsi. È cosa buona che i diaconi sappiano servire in modo adeguato gli uomini del loro tempo, ma è necessario ricordare che la chiesa di Dio è una barca che va a vela e non a remi. Solo la conversione del cuore consente allo Spirito un'operosità senza limiti; come aveva capito la piccola Teresa di Lisieux: follia del mio Dio che a un progetto senza amore, ha preferito un amore senza progetti».
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