Un'altra lunga pagina del vangelo di Giovanni, carica di suggestioni ma anche di precise indicazioni, racconta la guarigione del cieco dalla nascita per evocare però, attraverso un ricercato gioco di contrapposizioni, la dimensione teologica della cecità. Essa chiama in causa, da una parte, l'interrogativo sul delicato rapporto malattia-colpa e, dall'altra, l'inquietante confronto luce-tenebre. Se lo sfondo del dialogo di Gesù con la donna di Samaria era la missione, lo sfondo di questo episodio miracoloso è invece la vita della comunità cristiana e la sua crescita interna nella fede anche attraverso la celebrazione sacramentale del battesimo. VITA PASTORALE N. 3/2011
IV Domenica di Quaresima
1Sam 16,1b.4a.6-7.10-13
Ef 5,8-14
Gv 9,1-41
GESÙ, LA LUCE CHE
SCONFIGGE LE TENEBRE
Per Giovanni, il Messia avanza verso la "sua ora", quella della sua glorificazione, attraverso una progressiva rivelazione della sua identità: è lui l'acqua di vita eterna (4,5-42), è lui il pane di vita (6,35), è lui la luce che fa uscire i ciechi dalle tenebre (9,1-41), come più avanti sarà lui la risurrezione e la vita (11,1-45). Man mano che la sua persona si impone, man mano che l'acqua vince la sete, che il pane assicura la vita, che la luce sconfigge le tenebre, che la vita trionfa sulla morte, egli però sconcerta e divide. Fuori e dentro la sua comunità: per i suoi avversari, ma anche per i suoi discepoli, il progressivo svela mento del messianismo di Gesù di Nazaret è segno di contraddizione e pietra che i costruttori scartano.
Il racconto ruota intorno a due occhi chiusi, ma soprattutto intorno alla cecità religiosa che porta a considerare la malattia frutto della vendetta di Dio e che impedisce di riconoscere nelle opere di Gesù la rivelazione di Dio. Non è facile riuscire ad accettare la deformità delle cose umane, dalla malattia che affligge i singoli, agli orrori e alle barbarie che alcune persone o alcuni gruppi umani riescono a produrre nel corso della storia. Il problema del male percorre tutta la rivelazione biblica e, anche se l'elaborazione sapienziale del mito di caduta tenta in qualche modo di renderne conto attribuendone la colpa a mitici progenitori, esso resta comunque acuminato in tutta la sua drammaticità. Perché ciò che è importante non è arrivare a capo del problema del male, ma riuscire a collocarlo dentro l'orizzonte della fede nel Dio dell'elezione e dell'alleanza: come può il male affliggere proprio coloro che Dio ama?
Per Gesù il male non chiama in causa la colpa. Né il cieco, né i suoi genitori sono la causa del male che affligge noi e il mondo, come se qualcuno o qualcosa potesse essere, o anche essere stato, più forte di Dio o come se Dio fosse stato, anche solo momentaneamente, sconfitto dal «più astuto di tutti gli animali selvatici» (Gen 3,1). Per Gesù, credere significa superare radicalmente la necessità di trovare un colpevole: qualsiasi dolore, qualsiasi amputazione, qualsiasi carenza non sono vestigia della sconfitta di Dio, ma luogo di manifestazione della sua gloria. Lì Dio è presente, lì farà sentire la sua forza, lì rivelerà la sua misericordia e mostrerà la sua gloria. Le guarigioni che hanno accompagnato la predicazione di Gesù hanno testimoniato che Dio salva. Per questo di fronte alla venuta di Gesù e alla sua rivelazione, però, non si può più restare nella cecità.
Mai Gesù ha scelto le tenebre: non l'oscurità di insegnamenti esoterici e misteriosi, non le angustie di circoli religiosi elitari e neppure la solitudine sdegnosa e altera delle grandi figure religiose. Ha scelto di parlare nelle piazze e a tutti. Per questo Giovanni dirotta l'attenzione sulla domanda che può e deve precedere tutti gli altri interrogativi: chi è il vero cieco? Il cieco dalla nascita sa molto bene che per vedere la solarità di Dio servono gli occhi. Gli altri credono di vedere e si arrogano il diritto di valutare tutto ciò che Gesù ha fatto con il metro della loro supponenza: è questa la vera cecità! Non si tratta di malattia, ma di peccato. Il cieco viene a contatto con quanto esce dalla bocca di Gesù: la sua saliva. È soltanto il primo passo. Ci vuole ancora un lavacro nella piscina di Siloe. Collocata a sud-est di Gerusalemme, era il luogo da cui si attingeva l'acqua per la liturgia della festa delle capanne. La glossa giovannea, che collega questo deposito d'acqua alla missione di Gesù, va considerata allora un'allusione al battesimo cristiano, lavacro che dà la luce.
La lettera agli Efesini, poi, non traspone soltanto il problema dello scontro tenebre-luce sul piano della prassi etica, invitando a una fattiva presa di distanza dalle opere delle tenebre, ma pone a fondamento di tutto l'agire cristiano la risurrezione di Gesù. È questa la linea di confine sulla quale si è combattuta l'ultima e definitiva battaglia tra luce e tenebre e il battesimo ha scandito il passaggio dalle tenebre della notte al risveglio dell'alba. Nel nostro Paese da molto, troppo tempo, si parla di questione morale. Un'ennesima "questione" che va ad aggiungersi a tutte le questioni, come quella romana o quella meridionale, sulle quali mai è stata fatta realmente chiarezza. Perché lasciamo sempre che una coltre di tenebra copra il nostro agire collettivo, non condanniamo le opere delle tenebre, ma irridiamo bontà, giustizia e verità? Forse, andare verso la Pasqua ci chiede di ripensare seriamente a quel battesimo che ci ha, tutti e ciascuno, risvegliati dal sonno: anche nella notte più chiara dell'anno, infatti, la cecità può impedire di vedere.
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)
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IV Domenica di Quaresima (A)
ANNO A - 3 aprile 2011