XXV Domenica del Tempo ordinario
Sap 2,12.17-20
Gc 3,16-4,3
Mc 9,30-37
TUTTA LA PROPRIA VITA
Il Cristo che cammina verso Gerusalemme, nei capitoli 8-10 del secondo vangelo, è un uomo profondamente solo. Marco sembrerebbe descrivere un cammino intimo e appartato: Gesù percorre la Galilea e vuole che nessuno lo sappia (v. 30). Se anche ignoriamo i motivi della discrezione voluta dal Messia, rimane il fatto che il tratto di strada percorso fu coperto da un gruppo piuttosto ristretto. Gesù è con i Dodici e i Dodici sono con lui: le folle sembrano ormai parte di un remoto passato.
Inoltre, mai come in questa sezione del vangelo di Marco l'intimo legame che sembra stringere Gesù e i suoi è solo una apparenza. La scomparsa della gente e dei suoi malati, la scomparsa di ploranti disposti a tutto pur di avere l'attenzione di Gesù, non favorisce una reale comprensione tra il Maestro e i discepoli. Il loro dialogo è un dialogo tra sordi. I discepoli non comprendono e non parlano con Cristo, ma conversano tra loro. Pare quasi che un demonio sordo si sia impadronito dei Dodici. In realtà, come ha mostrato la guarigione-esorcismo del giovane epilettico (Mc 9,14-29), sono essi, non i malati che Gesù incontra, a necessitare della guarigione. Sono schiavi di un demonio che non può essere scacciato se non con il digiuno e la preghiera, come dice il versetto che precede immediatamente l'inizio dell' odierna pericope.
Il v. 31 ci ammonisce sulla qualità delle parole del Maestro: la sezione del cammino verso Gerusalemme è anche la sezione in cui Gesù istruisce i discepoli direttamente e intensamente. L'oggetto del suo insegnamento è la propria fine. Si avvicinano i giorni ultimi. La profezia di Gesù fa delle sue parole una sorta di definitiva consegna. Non ne pronuncerà ancora molte. Per questo possiamo considerarle parole che, più che mai, contano per il futuro della Chiesa. Eppure, se i piedi dei tredici uomini che camminano, muovono tutti nella stessa direzione, i cuori e le menti divergono paurosamente. È questo che determina la profonda solitudine di Gesù. La profezia del Figlio dell'Uomo si apre con un verbo al passivo: "viene consegnato". Il verbo seguente, di nuovo, non ha Gesù come soggetto ma come oggetto: "lo uccideranno". Il Messia promesso è destinatario di una inaudita violenza. Il verbo "essere consegnato" è un verbo tragico perché è un verbo al passivo: Gesù non potrà più disporre di sé. Questo termine si riaffaccerà, con una certa sfumatura di significati, durante il racconto della passione. Oltre a "consegnare", significa anche "tradire". Gesù sarà tradito, e dunque consegnato, da Giuda alle autorità gerosolimitane (14,10). I sommi sacerdoti, a loro volta, lo consegneranno a Pilato (15,1). Pilato lo consegnerà ai suoi flagellatori perché sia crocifisso (15,15). La storia della passione può essere riassunta come una catena di consegne dove il Figlio di Dio perde volontariamente e per amore la libertà di disporre di sé. Eppure, nei vangeli, alcuni verbi passivi sottintendono un soggetto preciso: Dio. È il caso di questo verbo di consegna. L'uccisione di Gesù non sarà il tragico epilogo di un'avventura religiosa e politica fallimentare. La profezia del Figlio dell'uomo vuole inserire i Dodici in una serie di eventi che domanda una spiegazione più ampia.
Nessuno potrebbe uccidere Gesù se egli non fosse stato consegnato dal Padre nelle mani degli uomini, e se Lui stesso non avesse accettato di bere il calice della volontà patena. Gesù si presenta ai suoi come un uomo espropriato, che ha scelto volontariamente di rinunciare al pieno controllo di ciò che gli accadrà. Anche i verbi con cui Marco descrive la reazione dei Dodici alle parole e all'interrogativo di Gesù sono carichi di significato: "non comprendere", "avere timore", "tacere", "discutere"... Sono verbi che scavano un abisso fra il Maestro e la sua comunità. Come apprendiamo dal narratore, ma non dalla bocca dei discepoli, la distanza che divide Gesù e i Dodici non è di carattere intellettuale. Essi non capiscono (v. 32): non tanto a causa della difficoltà delle parole pronunciate da Gesù, quanto piuttosto a causa di una mentalità molto differente. Impiegano parole ed energie a stabilire classifiche e consegnare primati di gloria, mentre il Figlio dell'uomo preannuncia la sua discesa fino agli inferi.
La pazienza di Gesù è uno dei tanti volti del suo amore: la calma con cui si siede chiamando a sé i Dodici testimonia come le parole che sta per pronunciare non siano un esercizio accademico, ma una chiara scelta di vita. Gesù è realmente servo di tutti, compresi i suoi cocciuti discepoli. Anche il suo insegnamento ha i tratti del servizio, per l'umiltà con cui egli avvicina e ammaestra coloro che ragionano di supremazie. Per accogliere Cristo occorre accogliere gli ultimi, significati dal bambino che il Signore prende tra le braccia. Chi discute di primati, dimentica coloro che stanno in fondo alla fila. Ma dimenticando loro, dimentica Cristo. Il verbo "accogliere" in questa pagina, non è altro che un sinonimo della fede, di cosa comporti credere davvero. Cristo, come un bambino, chiede accoglienza. In Lui, il Padre stesso chiede accoglienza. La concretezza del nostro atteggiamento verso coloro che sono insignificanti è il primo test, offertoci da Gesù stesso, per valutare, indirettamente ma efficacemente, quanto siamo disposti ad adottare della logica di Dio. Quella logica in base alla quale il Cristo consegna tutta la propria vita, operando la salvezza del mondo.
VITA PASTORALE N. 8/2009
(commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)