II Domenica di Pasqua
At 4,32-35
1Gv 5,1-6
Gv 20,19-31
CREDERE IN CRISTO
È RICEVERE IL PERODONO
Per antichissima tradizione la domenica dopo Pasqua è detta "domenica di Tommaso". La liturgia, non diversamente dal giorno di Natale, dal giorno dell'Epifania e dal giorno di Pasqua ripropone sempre il medesimo vangelo. Esiste dunque qualcosa di strutturale nell'esperienza di Tommaso che appartiene ad ogni credente e da cui non si può prescindere.
Potremmo dire che, senza il dubbio di Tommaso, i racconti pasquali non sarebbero completi. Non basta il sepolcro vuoto, la corsa di Pietro e del Discepolo amato. Non basta il "vide e credette" che sigilla in modo lapidario il contatto con la tomba deserta e le bende piegate. Non sarebbe un racconto sufficientemente incarnato dentro a una umanità che fatica a credere, che mette Dio alla prova, che vuole toccare con le proprie mani.
La fede del discepolo amato e l'incredulità di Tommaso sempre stanno l'una di fronte all'altra come due facce della stessa medaglia, come due volti del medesimo collegio apostolico, come due componenti ineliminabili del nostro credere di non credere, come del nostro non credere di credere.
La figura di Tommaso non contrasta, come vedremo, con la tonalità assunta da questa domenica, consacrata alla divina misericordia, tonalità comunque secondaria rispetto all'antichissima tradizione liturgica. La fede cristiana è credere all'amore folle con cui siamo stati amati. Anche l'odierno testo evangelico, come tutti gli altri, non ha un oggetto diverso dall'essenza della "buona novella": mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto e risorto per noi. Venendo nello specifico al testo giovanneo, colpisce l'annotazione temporale: è sera.
Nel quarto vangelo non possiamo ridurre questo dettaglio a una mera indicazione cronologica. Il mattino di Pasqua ha segnato l'irrompere della luce nella tenebra del sepolcro, nella tenebra della morte e nell'incredulità di almeno un discepolo. Come è possibile che, la sera di quello stesso giorno, capitale per la storia dell'umanità, gli Undici siano ancora asserragliati nel cenacolo, a porte chiuse, per paura dei giudei? Non v'è situazione così pre-pasquale come quella descritta dal v. 19.
A ben vedere, il timore che attanaglia il cuore degli apostoli è un sentimento multiforme. Quando giunge, il Risorto offre la pace e poi mostra le mani e il costato. I segni che permettono ai discepoli di riconoscere Gesù sono anche i segni della violenza scatenatasi su di lui. Ma sono anche i segni del loro abbandono. Possiamo dire che i discepoli siano del tutto innocenti davanti alla morte del loro Maestro? Non furono certo loro a ucciderlo. Ma nessuno dei giudei era stato scelto, amato e compagno di vita come lo furono i dodici.
La notte della passione non è solo la notte dell'arresto, ma anche quella dell'abbandono e del tradimento. Il solo discepolo amato, figura reale e allusiva insieme, giunge fino alla croce con la Madre di Gesù. Manca allora la luce. Cronologicamente è Pasqua, ma ancora la tenebra domina perché domina, come vedremo, la colpa e il tradimento. Il gesto di mostrare le mani e il costato è un gesto che può avere anche un altro significato oltre a quello del riconoscimento: «Guarda che cosa mi hai fatto».
Conosciamo bene questo genere di rivalsa contro il responsabile di un torto che abbiamo subito. Non è più identificazione di Gesù, ma dei suoi traditori. Quel sangue parla di me, non parla di lui. L'ostensione delle ferite avrebbe provocato subito gioia negli undici senza il saluto premesso al gesto da Gesù? Il senso di quelle ferite, il senso di quel dolore sta proprio nelle parole ripetute due volte da Gesù: «Pace a voi». La morte patita è la via misteriosa attraverso cui la luce ha sopraffatto le tenebre del male. L'amore ha vinto l'odio assorbendolo in sé stesso.
Solo il Risorto poteva pronunciare quelle parole di perdono e riconciliazione. Solo la vittima può assolvere il colpevole. Spesso pronunciamo assoluzioni senza senso, parole tranquillizzanti a chi ha fatto del male a terzi come se fossimo noi ad avere il potere di rimettere la colpa. Tutto questo non serve a nulla. Sono parole a buon mercato che non costano nulla a noi ma costerebbero a chi ha ricevuto il torto. Il perdono di Cristo è reale perché è il perdono concesso dalla vittima ai propri indiretti carnefici.
La risurrezione è questo: molte volte i fantasmi del passato risorgono e ci accusano. I sensi di colpa non muoiono mai ma risorgono continuamente in noi. Allo stesso tempo, noi diveniamo come morti davanti a colui che abbiamo ferito, dimenticato, trascurato. La colpa uccide un rapporto, cancella un'amicizia o mina alle fondamenta un matrimonio.
La Pasqua è il ritorno alla vita per la vittima che può offrire nuova vita agli offensori. Questa è riconciliazione. Questa è vera e nuova relazione. Cristo, incarnazione di ogni vittima della storia, Inviato del Padre, può davvero dire: «Pace a voi». Il compito degli undici sarà effondere la riconciliazione e comunicare quel perdono che essi stessi hanno ricevuto per primi. La pace del Risorto raggiungerà il mondo intero. Credere in Cristo è credere al perdono. Questa è anche la fatica di Tommaso.
VITA PASTORALE N. 3/2009 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)
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