Il diaconato in Italia n° 161
(marzo/aprile 2010)
MOTU PROPRIO
Vecchio e nuovo a confronto
di Ferdinando Appiotti
Sono un diacono permanente al quale la lettura del Motu Proprio di Papa Benedetto XVI, che modifica il testo dei can. 1008-1009 del Codice di Diritto Canonico, crea non poche perplessità.
A scanso di equivoci dico subito che accetto senza riserva alcuna quanto deciso dal Santo Padre né mi permetto di tentare una lettura o un'interpretazione diversa da quanto Lui ha deliberato con tutta la sua autorità, ordinando che abbia fermo e stabile vigore, nonostante qualsiasi cosa contraria anche se degna di particolare menzione. Nemmeno intendo fare della dietrologia sui motivi che hanno indotto il Papa ad emettere questa dichiarazione. Non posso però evitare di considerare le possibili conseguenze che questa nuova e diversa definizione rischia di avere sulla mia vita di diacono ordinato. Per una migliore comprensione di quanto andrò ad esporre in appresso scrivo, in forma sinottica, le due diverse stesure dei canoni
in oggetto.
Vecchio testo Can. 1008 | Nuovo testo Can. 1008 |
La pura e semplice critica testuale dello scritto mi induce ad effettuare queste considerazioni. Il can. 1008 è stato semplificato e reso molto più generico con l'abolizione del riferimento a Cristo Capo in nome del quale i sacri ministri erano chiamati a pascere il popolo di Dio. Questa definizione rendeva teologicamente assai problematico l'inserimento dei diaconi tra i sacri ministri perché è ferma e stabile dottrina che la loro diaconia sia svolta non in nome di Cristo Capo e di Cristo Sacerdote ma, eventualmente, solo in nome di Cristo Servo. Assai bene ha fatto il Papa nell'eliminare questo possibile fraintendimento confermando implicitamente i diaconi tra i sacri ministri che sono chiamati a servire il popolo di Dio, nello specifico, con un titolo loro peculiare.
Le difficoltà nascono tutte nella redazione del nuovo 3° comma aggiunto al can. 1009. Infatti nello specificare quanto sia peculiare al loro specifico grado il Papa evidenzia una sostanziale differenza tra la consacrazione episcopale o presbiterale, nella quale si riceve la missione e la facoltà di agire nella persona di Cristo Capo, da quella diaconale nella quale si viene semplicemente abilitati a servire il popolo di Dio nella diaconia della liturgia, della parola e della carità.
La differenza tra missione ed abilitazione non è solo semantica ma sostanziale. Una cosa è ricevere una specifica chiamata del Signore, confermata dall'autorità della Chiesa ed avere un mandato che, con l'aiuto dello Spirito Santo, consente, a seconda del grado ricevuto, di agire in rappresentanza di Cristo stesso in tutto o parte nel suo triplice munus. Questa è una modificazione ontologica che orienta tutta la vita e l'agire del ministro ordinato. Altra cosa è un'abilitazione che, nella comune accezione del termine, consiste solo nella possibilità di effettuare alcune azioni liturgiche o sacramentali in nome della Chiesa, cosa che non coinvolge il diacono nella profondità della sua persona ma solo in un servizio esterno a se stesso. Anche i laici ministri della comunione sono abilitati a svolgere un servizio liturgico senza aver bisogno di alcuna particolare consacrazione.
Inoltre la missione ha un carattere permanente ed obbligante a vario titolo, non ultimo quello dell'obbedienza al proprio vescovo. Una semplice abilitazione ha invece carattere facoltativo e può essere usata liberamente da chi l'ha ricevuta nel modo e nei tempi che vengono stabiliti da lui e non da chi l'ha concessa. Se ho superato l'esame di patente sono io che decido se e quando guidare e non l'esaminatore che mi ha dato questa abilitazione.
Io ho servito con gioia la Chiesa come diacono per 28 anni nella convinzione di andare incontro alla gente nel nome di Cristo. È questa alta considerazione della mia missione che mi ha sempre sostenuto e permesso di superare fatiche, disagi, incomprensioni e rifiuti. Se invece tutto è solo stato frutto di un permesso, una concessione che mi colloca a metà strada tra un chierichetto specializzato e un prete di serie B ho la sensazione angosciosa di aver gettato via trent'anni della mia vita.
Se però esamino l'originale testo latino leggo che Benedetto XVI, in perfetta continuità con quanto affermato dal suo venerato predecessore, dice: accipiunt diaconi vero vim popoli Dei serviendi... Ricevere la forza è meno di una missione ma certamente assai più di una semplice facoltà. In questo caso dovrei leggere il termine abilitazione in un'accezione diversa da quella consueta e cioè in quella di rendere più capaci di svolgere un compito.
Sono molto confuso. Mi si affollano in mente mille domande, soprattutto queste due: se il diacono non agisce in nome e per conto di Cristo Servo si troverà ancora qualcuno che avrà voglia di sottoporsi a tanti sacrifici per essere inserito in una istituzione ecclesiale che lo impiega e lo confina in un ruolo marginale? Se ho fatto una promessa basandomi su una convinzione che oggi sembra sbagliata devo ritenerla ancora vincolante o considerarla invalida per "vizio di consenso"?
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