«Farsi uno»

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da L'arte di amare
di Chiara Lubich



«Farsi uno»
«Mi sono fatto tutto a tutti»
(1Cor 9,22)



Il vero amore
La strada percorsa da Dio
Poveri in spirito
«Farsi uno» del tutto
Morti al proprio io
Perdere Dio per Dio
Avere un cuore di carne
"Tagliare" per meglio amare
Un parlare essenziale
Opere, opere
Farsi carico completo dei pesi altrui
Occorre "essere l'Amore"
Tutto, tranne il peccato
Il rischio della parola
Il dono dell'altro
...credere, sopportare ogni cosa
Anche soffrire
Fino all'amore reciproco
È Gesù!


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Il vero amore


C'è un punto, dell'arte di amare, che insegna come mettere in pratica il vero amore agli altri. È una formula semplice, di due sole parole: farsi uno.

Farsi uno con gli altri significa far propri i loro pesi, i loro pensieri, condividere le loro sofferenze, le loro gioie.


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La strada percorsa da Dio


«Mi san fatto debole con i deboli, mi sono fatto tutto a tutti... per guadagnarne il maggior numero» (1Cor 9,22.19).

È questa una parola della Scrittura che va amata in maniera del tutto particolare. Essa infatti ci ricorda il metodo di chi vuole contribuire a realizzare la preghiera di Gesù al Padre: «Che tutti siano uno», e cioè: «farsi uno con ogni prossimo».

Sì, questa è la strada, perché è la stessa percorsa da Dio per manifestarci il suo amore: Egli si è fatto uomo come noi, e crocifisso e abbandonato, per mettersi al livello di tutti; si è fatto veramente «debole con i deboli».


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Poveri in spirito


Farsi uno.

Cosa significano e cosa esigono queste due piccole parole, così importanti da essere il modo d'amare?

Non si può entrare nell'animo di un fratello per comprenderlo, per capirlo, per condividere il suo dolore, se il nostro spirito è ricco di un'apprensione, di un giudizio, di un pensiero... di qualunque cosa. Il «farsi uno» esige spiriti poveri, poveri in spirito. Solo con essi è possibile l'unità.

E a chi si guarda, allora, per imparare questa grande arte d'esser poveri di spirito, arte che porta - lo dice il Vangelo - il Regno di Dio con sé, il regno dell'amore, l'amore nell'anima? Si guarda a Gesù Abbandonato. Nessuno è più povero di Lui: Egli, dopo aver perso quasi tutti i discepoli, dopo aver donato la madre, dà anche la vita per noi e prova la terribile sensazione che il Padre stesso lo abbandoni.

Guardando Lui, si comprende come tutto va dato o posposto per amore dei fratelli: vanno donate o posposte le cose della terra e anche - se occorre - in certo modo, i beni del Cielo. Guardando Lui, infatti, che si sente abbandonato da Dio, quando l'amore per i fratelli ci chiedesse (e può succedere anche spesso) di lasciare persino - come si dice - Dio per Dio (Dio per esempio nella preghiera, per «farsi uno» con un fratello nel bisogno; Dio in quella che ci sembra un'ispirazione per essere completamente vuoti e accogliere in noi il dolore del fratello), guardando Lui è possibile ogni rinuncia.

E il «farsi uno» comporta questa rinuncia.


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«Farsi uno» del tutto


Di fronte ad ogni prossimo dobbiamo saper dimenticare (anche per pochi attimi, se il dovere ci chiama ad altro) tutto quanto facciamo di bello e di grande e di utile ed esser pronti a «farci uno» con lui del tutto, a «farci uno» con la misura del saper morire per l'altro.

Questa è vita cristiana.


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Morti al proprio io


Il farsi uno abbraccia tutti gli aspetti della vita ed è la massima espressione dell'amore.

Vivendo così si è morti a se stessi, al proprio io e ad ogni attaccamento spirituale.

Si può raggiungere quel «nulla di sé» cui aspirano le grandi spiritualità e quel vuoto d'amore che si realizza nell'atto di accogliere l'altro.

Si dà spazio all'altro, che troverà sempre un posto nel nostro cuore.

«Farsi uno» significa mettersi di fronte a tutti in posizione di imparare, perché si ha da imparare realmente.


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Perdere Dio per Dio


La pratica di «farsi uno» con gli altri non è una cosa semplice. Essa richiede il vuoto completo di noi: togliere dalla nostra testa le idee, dal cuore gli affetti, dalla volontà ogni cosa, far tacere persino le ispirazioni, perdere Dio in sé per Dio presente nel fratello per immedesimarci con gli altri.

Quando, nei primi tempi del Movimento, parlavo con qualche persona che desiderava confidarsi con me, mi esercitavo a lungo - dato che sarebbe venuta subito una certa qual risposta -, a spostare le mie idee, finché lei avesse potuto svuotare in me la piena del suo cuore. E, così facendo, ero convinta che alla fine lo Spirito Santo mi avrebbe suggerito proprio quello che dovevo dire.

Perché? Perché dato che, "facendo il vuoto", io amavo, Egli si manifestava. E ho avuto la prova migliaia di volte, che, se avessi interrotto il discorso a metà, avrei detto qualcosa di non giusto, di non illuminato, di semplicemente "umano". Mentre, lasciando per amore che l'interlocutore facesse entrare in me le sue ansie, i suoi dolori, permettendo che egli scaricasse su di me il suo fardello, trovavo la risposta che risolveva ogni cosa o mi venivano le idee per aiutarlo.


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Avere un cuore di carne


Dobbiamo essere uno con il fratello, non in modo ideale, ma reale. Non in un modo futuro, ma presente.

Essere uno e cioè sentire in noi i sentimenti dei fratelli. Risolverli come cosa nostra, fatta nostra dalla carità. Essere loro. E questo per amore di... Gesù nel fratello.

Sciogliere i lacci di questo duro lapideum cuore e avere un cuore di carne per amare i fratelli 17.


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17 Cf. Ez 11,19: «toglierò dal loro petto il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne» [N.d.E.].


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Tagliare per meglio amare


Occorre realizzare perfettamente il «farsi uno» con ogni prossimo, tagliando tutto ciò che lo può impedire.

Molti fattori possono compromettere questo nostro atteggiamento d'amore.

A volte sono le distrazioni, altre volte il desiderio di dire precipitosamente la nostra idea, di dare inopportunamente il nostro consiglio. In altre occasioni siamo poco disposti a «farci uno» con il prossimo perché riteniamo che non comprenda il nostro amore, o siamo frenati da altri giudizi a suo riguardo. In certi casi siamo impediti da un recondito interesse di conquistarlo alla nostra causa.

Ancora: siamo incapaci di «farci uno» perché il nostro cuore è già preso dalle nostre preoccupazioni, dai nostri dolori, dalle nostre cose, dai nostri programmi.

Come possiamo allora «farci uno», e come le preoccupazioni, i dolori, le ansie del fratello possono entrare in noi?

È proprio necessario tagliare o posporre tutto quanto riempie la nostra mente e il nostro cuore. Sì, "tagliare" per essere più liberi, più totalitari nell'amore. "Tagliare", per meglio amare.


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Un parlare essenziale

A chi si fa uno perfettamente, Gesù dà un'autenticità straordinaria nel suo dire, un parlare essenziale, senza cose superflue, senza fronzoli, che entra nel cuore del fratello come una spada, che brucia veramente ciò che ha da cadere e lascia in piedi solo la verità. E il fratello può crescere in quella, nella verità, che è sinonimo di crescere in Gesù.


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Opere, opere


Farsi uno, vivere l'altro, partecipare totalmente.

E «farsi uno» non a parole o con i sentimenti soltanto. Il «farsi uno» cristiano significa rimboccarsi le maniche, significa agire: opere, opere; fare, fare.

Gesù ha dimostrato cos'è l'amore quando ha sanato gli ammalati, ha risuscitato i morti, quando ha lavato i piedi ai discepoli. Fatti, fatti: questo è amare.


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Farsi carico completo dei pesi altrui


Occorre intendere nel senso più vero, nel modo più giusto, l'amore.

L'uomo si sente veramente amato da un altro se questi riesce a farlo contento. Si capisce allora come a volte il nostro non è vero amore, quando, ad esempio, ci tratteniamo su argomenti, teniamo atteggiamenti, prestiamo attenzioni che non interessano l'altro.

Il vero comportamento che interpreta la parola «amore», «amare», è il farsi uno, andare incontro al fratello, ai suoi bisogni, addossarsi le sue necessità, come anche i suoi dolori. Allora avrà significato dar da mangiare, da bere, offrire un consiglio, un aiuto.

Ma cosa succede se ci comportiamo così?

Avviene come, constatando i grandi problemi di tante regioni del Terzo e Quarto mondo, attanagliate dalla morsa della miseria, dalla mancanza di case, di vestiti, di lavoro, ecc., si comprende che non si può pretendere che queste persone pensino, ad esempio, a crearsi una cultura o si elevino nello spirito con la preghiera. Prima occorre fare in modo che siano sollevate dal peso della miseria che le schiaccia, poi si potrà pensare anche a tutto ciò che riguarda la vita della persona umana: la sua istruzione, il suo sviluppo integrale, ecc.
La stessa cosa succede con le singole persone quando noi le amiamo con il «farci uno». Noi, in tal modo, togliamo da esse completamente ciò che occupa il loro cuore e che può essere motivo di affanno. Esse avvertono che noi ci carichiamo di ciò che le opprime, e si sentono libere.

Ma, sentendosi sollevate, libere, vuote di preoccupazioni, sono pronte ad accogliere anche quel messaggio di amore, di pace che vorremmo portar loro.

E saranno attratte da questa vita nuova, evangelica che scoprono in noi - cui tutti anelano in fondo al cuore - perché pensata da Dio per tutti i suoi figli.


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Occorre "essere l'Amore"


C'è chi fa le cose "per amore". C'è chi fa le cose cercando di "essere l'Amore".

Chi fa le cose "per amore", le può far bene, ma credendo, ad esempio, di fare un gran servizio a un fratello, magari ammalato, può annoiarlo con le sue chiacchiere, con i suoi consigli, con i suoi aiuti: con una carità poco indovinata e pesante.
Poveretto: lui avrà un merito, ma l'altro ha un peso...

E questo perché occorre "essere l'Amore".

Il nostro destino è come quello degli astri. Se girano sono, se non girano non sono. Noi siamo - nel senso che non la nostra vita, ma la vita di Dio vive in noi - se non smettiamo un attimo di amare.

L'amore ci stanzia in Dio e Dio è l'Amore.

Ma l'Amore che è Dio, è luce e con la luce si vede se il nostro modo di accostare e servire il fratello è conforme al cuore di Dio, come il fratello desidererebbe, come sognerebbe se avesse accanto non noi, ma Gesù.


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Tutto, tranne il peccato


Fin dove debbo «farmi uno» con ogni prossimo per amarlo, per servirlo, per arrivare presto o tardi all'unità? La risposta ce la dà Gesù stesso. Egli si è fatto uno con noi facendosi uomo; poi ha provato la nostra stanchezza, la nostra sofferenza, ha sperimentato persino la morte. Tutto ha sperimentato del nostro stato, tranne il peccato.

Così anche noi: dobbiamo «farci uno» con chiunque incontriamo nell'attimo presente della vita. Vivere le sue sollecitudini, i suoi dolori, le sue gioie: ogni cosa, tranne il peccato.

Allora e solo così questo modo cristiano d'amare avrà benedizione e sarà fecondo. E molti risponderanno. E il cerchio di chi vuole Dio come ideale si allargherà attorno a ciascuno di noi come quello di un sasso gettato nell' acqua.


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Il rischio della parola


Per amare occorre prima «farsi uno» con i prossimi in tutto, ma non nel peccato. E questo va bene. Ma ciò non deve diventare un pretesto per non affrontare il rischio della parola. Bisogna stare attenti a non confondere la vera con la falsa prudenza, sì da arenarsi in un deprecabile silenzio.

Gesù si faceva uno senz'altro con tutti, cambiando l'acqua in vino, moltiplicando i pani, sedando la tempesta, guarendo gli ammalati, risuscitando i morti. Contemporaneamente, però, parlava. E come parlava! E la parola gli attirava l'amore e anche l'odio.

Così sarà pure di noi, che non per questo dobbiamo tacere.

Ascoltiamo bene la voce interiore che ci guida: ci saranno date possibilità sempre nuove di comunicare il nostro dono opportunamente e anche, come esorta san Paolo, inopportunamente (cf. 2Tm 4,2).


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Il dono dell'altro


Facendosi uno con l'altro, questi si apre, si rivela, si manifesta, si spiega e dona qualcosa del suo essere ad esempio ebreo, o musulmano, o buddhista...

Fa brillare dinanzi al nostro animo qualcosa delle sue immense insperate ricchezze.


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...credere, sopportare ogni cosa


Il «farsi uno» contiene tutte le qualità elencate da san Paolo nel suo inno alla carità 18.

Infatti per «farsi uno» è necessario esser longanimi, che etimologicamente significa: privi di ogni impazienza.

Quando ci si fa uno, si vuole sicuramente il bene.

Da questo atteggiamento è ben lungi l'invidia.

Per farsi uno non ci si può gonfiare, ma anzi occorre esser vuoti di sé.

Si pensa solo all'altro e non c'è posto quindi per l'ambizione o l'egoismo.

Quando ci si fa uno non ci si irrita, perché occorre molta calma; non si pensa male, poiché ci si fa uno proprio sperando nell'altro il trionfo del bene, della giustizia, della verità.

Il farsi uno è soffrire, credere, sopportare ogni cosa.


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18 Cf. 1Cor 13,1-13.


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Anche soffrire


Si ama il prossimo vivendo in noi la sua vita e provvedendo quindi a ciò di cui abbisogna. Sì, amare il prossimo vuol dire questo.

Ma non solo questo.

Se guardiamo a Gesù, possiamo osservare che Egli ha amato il prossimo sfamandolo, guarendolo, perdonandolo, ecc. Senza, tuttavia, fermarsi a questo. Per amarlo perfettamente e compiutamente ha sofferto e ha offerto la sua vita per lui.

Il comportamento di Gesù ci deve essere di luce. Dobbiamo dedurre da esso che anche per noi l'amore al prossimo non può limitarsi al «farsi uno» con lui. Dobbiamo aggiungere qualcosa d'altro. E questo qualcosa ha un nome: soffrire.

La vita che conduciamo su questa terra è senz'altro segnata dalle gioie, da quelle soddisfazioni profonde che dà, per esempio, il portare il Regno di Dio. Ma non possiamo negare che essa è segnata anche dal dolore: malattie, tentazioni, angustie, tormenti, miserie, incomprensioni, imprevisti dolorosi...

Che significato hanno tutte queste manifestazioni di dolore? Per quale motivo Dio-Amore le permette? Sono un volto di Gesù abbandonato da abbracciare e l'abbracciamo 19, ma spesso non ci chiediamo il perché di tali sofferenze. Invece per Dio, che tutto fa concorrere al bene, hanno sempre un preciso motivo, ogni volta che ci affliggono. Esse sono predisposte dalla sua volontà o dalla sua permissione per la nostra purificazione o per il bene degli altri, come per la loro rinascita spirituale o anche per il progresso del loro cammino verso Dio.

Sì, tutto ha sempre un perché.


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19 Chiara Lubich ha sempre visto nel grido emesso da Gesù al culmine della sua passione: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34) il momento in cui egli ha assunto e quasi personificato tutti i dolori dell'umanità. Egli è il solo, lo stanco, il muto, l'angosciato, il fallito... Di conseguenza lei invita a riconoscere un suo volto in qualsiasi dolore fisico o spirituale, e ad abbracciarlo accettando (o prendendo su di sé) quel dolore e continuando ad amare [N.d.E.].


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Fino all'amore reciproco


Farsi uno: ecco l'amore.

Farsi uno con quanti incontriamo durante la nostra giornata. Farsi uno, finché chi è così amato comprende l'amore e vuole amare a sua volta.

E nasce così l'amore reciproco, il distintivo valido ancora oggi, come ai tempi dei primi seguaci di Cristo, dei cristiani.

Amore reciproco che è il comando per eccellenza di Gesù, la vita della Santissima Trinità trasferita in terra.

Amore reciproco perfetto, radicale perché mette in pratica quel «come» che ne è la misura: Gesù nel suo abbandono, che tutto ha donato di sé per noi, perfino - in qualche modo - la sua unione con Dio.

Amore reciproco che, se così vissuto, realizza l'unità e genera Gesù in mezzo agli uomini.


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È Gesù!


Il «farsi uno» presto o tardi "conquista".

E succede che pure l'altro si mette ad amare, vuole farsi uno e prova e cerca di farsi uno con tutti, e anche con noi.

Avviene allora che siamo in due a «farci uno», ad amarci veramente come Gesù vuole. E Lui vuole che ci amiamo fino a morire l'uno per l'altro. Non che ci amiamo aspettando di morire domani, dopodomani, o un altro anno: vuole che moriamo adesso, vuole che viviamo morti, morti a noi stessi perché vivi all'amore.

Allora, quando due anime si incontrano e si amano così, ecco succedere un fatto straordinario, veramente straordinario.

Come quando due elementi si combinano e ne viene fuori un terzo, che non è la somma di due elementi, ma è un'altra cosa, così quando due persone si amano in questa maniera, avendo cioè come misura dell'amore la morte, viene fuori un terzo elemento. Non sono più una più l'altra, non è un miscuglio di due persone, non un gruppo di due o più persone: è Gesù! Gesù! Una cosa favolosa!

«Dove due o più sono uniti nel mio nome - dice Gesù - (che vuol dire in questo amore, in me), io sono lì in mezzo a loro», che vuol dire: in loro.

Due o più che si amano in questa maniera portano nel mondo, generano nel mondo una fiamma: lo stesso Gesù.



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