V Domenica del Tempo ordinario (B)


ANNO B - 8 febbraio 2009
V Domenica del Tempo ordinario

Gb 7,1-4.6-7
1Cor 9,16-19.22-23
Mc 1,29-39

UNA GIORNATA DI GESÙ
A CAFARNAO TRA AMICI

Dopo la congiunzione "e", la prima parola registrata dal testo greco dell'odierno vangelo è l'avverbio di tempo "subito". Questo termine ritorna dal v. 18 al v. 43 del primo capitolo dieci volte. Ma non è solo un espediente linguistico. Leggere della giornata inaugurale del ministero pubblico trascorsa a Cafarnao da Gesù comunica un senso di frenesia. Non ci sono soste. In questo, non ci è difficile avvertire il Cristo come uno di noi, un uomo perfettamente contemporaneo alla modernità. L'antidoto alla fretta, per noi, consiste spesso nel sottrarci a impegni che tuttavia avvertiamo come inderogabili. Il vangelo offre una risposta decisamente diversa.
Ci sono almeno due segnali che distanziano i ritmi di vita di Gesù dai nostri. Sono, come vedremo, intimamente connessi fra loro. Il primo riguarda il rapporto con la sofferenza e la malattia. Al di là del disagio che produce spesso in noi la sofferenza davanti alla quale siamo impotenti, la nostra vita sovraccarica di impegni è un'ottima scusa per tirarci indietro. Gesù viene come attirato in casa di Simone e Andrea. Non è solo una visita di cortesia. La malattia della suocera è con tutta probabilità il motivo per cui i discepoli conducono Gesù nella loro dimora. Subito, infatti, le parlano di lei.
Il v. 31 segnala l'awicinamento del Nazareno alla donna. È un avvicinamento al quale segue un contatto e un sollevamento. Gesù prende la donna per la mano e la rialza. Nei due verbi è racchiuso tutto il ministero di sostegno alla sofferenza. Potremmo dire che non c'è reale avvicinamento quando esso non produce un contatto e il contatto non si traduce nel sollevare l'altro. Sono tutte azioni che Gesù compie realmente.

Ma, in fondo, stanno a indicare che cosa vorremmo fare quando accostiamo il mondo del dolore: raggiungere davvero l'altro, "toccarlo" e "rialzarlo" dal suo disagio. Marco allude alla natura della febbre che colpisce la donna quando racconta che cosa faccia appena ristabilita. Si mette a servire - Marco usa il verbo della "diaconia" (v. 31) all'imperfetto - il gruppo che è entrato in casa. La malattia della donna è paralizzante. Inibisce quel tratto così tipicamente umano e cristiano che è l'accoglienza e il servizio all'altro che domanda ospitalità. Gesù salva la persona della donna nella sua integralità. Per queste ragioni possiamo scorgere una grande profondità di senso nei gesti che compie. Stupisce forse ancora di più la levità con cui il Figlio di Dio esce da quella casa. Il contatto è stato tanto intenso quanto libero, non avviluppante. Spesso ondeggiamo nei nostri rapporti con il dolore tra l'indifferenza e la totale immersione, certamente dannosa oltre che inutile, nella sofferenza dell'altro. Non c'è vera comunione se manca la capacità di allontanarsi oltre a quella di avvicinarsi.
La giornata di Cafarnao volge al termine consegnandoci un Cristo "mangiato" da un oceano di sofferenza. Finisce il sabato, infatti, ed è finalmente possibile per la popolazione trasportare i propri ammalati alla porta della casa. Sembra una processione interminabile, come il bene e l'amore che Gesù comunica alla porta di quella casa. Ma solo con il v. 35 giungiamo al secondo segnale che svela come il Cristo domini il tempo e l'impegno senza lasciarsene sopraffare. Egli, prima dell'alba, si ritira in preghiera. Quando Pietro vorrebbe riportarlo alla folla che già non sa più stare senza di lui, Gesù mostra di nuovo una stupefacente libertà interiore. Non torna là dove sarebbe semplice, dove ormai è popolarissimo, dove sarebbe circondato di gratitudine e affetto. Sa andare oltre. Per questo, infatti, recita ancora il testo greco è "uscito".

Non possiamo intendere il verbo come un semplice movimento fisico. Gesù allude alla natura intima della sua "uscita" dal seno del Padre per guarire il male del peccato. In una sola frase è racchiusa la prima cristologia di Marco: il figlio "procede" dal Padre e ogni suo passo altro non è che eco a questa fondamentale uscita. La preghiera di Gesù è il luogo dell'espressione e del perenne recupero di questa coscienza fondante. Il motivo per cui un ritmo vorticoso può convivere con l'assoluta lucidità è semplicemente questo. Non è il dolore o il bisogno incolmabile della gente che può dettare i ritmi di una vita, ma la volontà del Padre e il suo disegno di salvezza. Spesso giustifichiamo il nostro affanno con la nostra filantropia e disponibilità. Poi ci ritroviamo dipendenti e incapaci di rinunciare al bene da compiere che forse è più essenziale per noi piuttosto che per chi lo riceve. Non siamo liberi di allontanarci perché non è il bene secondo Dio che vogliamo fare.
È il bene secondo noi. Chi è toccato dal Cristo, come la suocera di Pietro, a sua volta può essere apostolo di servizio e di guarigione. Ma solo la preghiera garantisce la lucidità necessaria a ben interpretare il nostro operare. Possiamo ricondurre i tanti verbi di movimento che troviamo nel brano - tutti legati in greco dalla stessa radice - a questo unico fondamentale movimento. Le attività allora possono essere molteplici e diverse, senza apparente interruzione, senza riposo. Eppure avranno tutte la medesima radice e porteranno tutte il medesimo frutto: l'amore di Dio nella storia dell'uomo.

VITA PASTORALE N. 1/2009 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)



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