IV Domenica del Tempo ordinario (B)


ANNO B - 1° febbraio 2009
IV Domenica del Tempo ordinario

Dt 18,15-20
1Cor 7,32-35
Mc 1,21-28

LA PAROLA SMASCHERA
IL MALE CHE È IN NOI

Lo stupore delle folle registrato da Marco all'inizio del brano evangelico è il sigillo di verità che possiamo apporre sulla promessa che YHWH formula a Israele per mezzo di Mosè: sorgerà un altro profeta dal popolo eletto. È Lui che dovrà ascoltare il popolo di Dio (Dt 18,15). Tuttavia, il libro del Deuteronomio, come nota Benedetto XVI in apertura del suo Gesù di Nazareth, si chiude affermando che non è più sorto in Israele un profeta come Mosè (Dt 34,10). Solo il nuovo Mosè, Cristo, adempirà la promessa di Dt 18. Il segno del compimento è l' ''autorità'' di cui parla l'evangelista a proposito della parola di Gesù (v. 22). Nella nostra mente l'idea di parola autorevole, si potrebbe facilmente legare al concetto di coerenza. È autorevole la parola di chi predica bene e "razzola" altrettanto bene. Ma opereremmo forse una delle nostre tipiche riduzioni moralistiche.
L'immagine più espressiva della forza della parola pronunciata dal Cristo è la chiamata dei quattro primi discepoli letta nella precedente domenica. Si tratta dell'intimo legame fra il mistero di Dio e quanto viene pronunciato. Qui sta la forza della Parola. Essa risuona nel cuore umano, plasmato a immagine di Dio, e suscita un'eco inconfondibile e irresistibile. È la verità della Parola intesa come promessa: il desiderio umano è anelito e nostalgia. Se non esiste Bene capace di saziarlo, allora è promessa vana. Ma se tale Bene esiste e ha un volto, allora il desiderio umano ha diritto di cittadinanza nel cuore. Le due coppie di fratelli nell'immediatezza della loro risposta sanciscono l'autenticità di una promessa: diventare pescatori di uomini al servizio del regno di Dio. Altra è la parola degli scribi (v. 22), parola vuota, nave senza carico, suono senza pregnanza pronunciata da chi attende altri compimenti e coltiva altre speranze rispetto alla poesia del Regno.

La pagina odierna scolpisce l'essenza di tale potente Parola da un altro versante. Quando il verbo umano è davvero gravido di Dio, il male che è nell'uomo non può non manifestarsi e non reagire alla santità della Parola. Siamo in una sinagoga (v. 23), in giorno di sabato. Il luogo e il giorno sono quanto mai sacri. Eppure un uomo fra i presenti è posseduto da uno spirito immondo. Può sembrare paradossale, ma la situazione non è differente dalla nostra: sempre il male alberga in diverse forme e misure anche nel nostro cuore. Spesso tuttavia non riusciamo a scorgerlo per l'abilità con cui si camuffa. Ciò che sembra, non corrisponde mai totalmente alla realtà: le nostre assemblee domenicali a partire dalla nostra presidenza sacerdotale sono forse così ricche di santità e trasporto da escludere qualsiasi ipocrisia e compromesso? Non siamo forse alla presenza di Cristo per essere liberati dal male, come domandiamo ogni domenica attraverso il "Padre nostro" prima di accostarci alla mensa eucaristica? Serve però una parola potente che evidenzi il male che è dentro ciascuno di noi. Esso, infatti, non può convivere con la santità di Dio. Grida e si ribella. Alcuni nostri momenti di rigetto davanti ai sacri misteri, di ripulsa e ribellione non nascono forse da qui?
È importante considerare la forza esorcistica della Parola di Dio. Essa non può avere potere pacificante, quasi fosse un analgesico o un tranquillante, se prima non debella il male che è dentro di noi. Non possiamo cercare pace in Dio, se prima il nostro cuore non viene unificato nelle sue tensioni e lacerazioni interiori. C'è qualcosa, ed è il nostro peccato, che non ha nulla in comune con Gesù di Nazareth: «Che c'è fra noi e te, Gesù Nazareno?». La presenza salvi fica viene intesa quasi come rovina (v. 24). Ed è rovina dell'uomo vecchio che non vuole morire e rimane attaccato in modo spasmodico alla volontà propria, chiamata philautia dai padri della Chiesa. La vita spirituale è lotta e combattimento. Ma il conflitto non può aprirsi fino a che una parola autorevole non ci trascina nel mondo di Dio.

Il lungo e mai concluso processo di purificazione che si attua nel credente è descritto in poche parole dal v. 26 del nostro brano. È come se l'indemoniato rischiasse la vita. L'uscita dello spirito immondo è cruenta, spaventosa. La conversione cristiana non può avvenire senza che si realizzi uno scontro aperto tra la signoria di Dio e quella del maligno. Non è un caso che il nostro brano si inserisca coerentemente nell'impianto narrativo del primo vangelo, dove la demonologia ha un certo peso. Marco sceglie di presentare come primo segno compiuto dal Figlio di Dio proprio un esorcismo. L'opzione non è casuale. Tutto il ministero del Nazareno non potrà essere compreso, se si elimina quel processo di purificazione cui specialmente i dodici saranno sottoposti. L'accettazione subitanea ed entusiasta della sequela in Pietro e negli altri convivrà a lungo con l'incredulità, il tentennamento e la ricerca, fino all'abbandono nell'orto degli Ulivi (Mc 14,50).
Solo dopo l'esorcismo la folla può dare un nome più compiuto all'autorevolezza del Messia: «Una dottrina nuova insegnata con autorità: comanda persino agli spiriti immondi e gli obbediscono» (v. 27). Non è la parola dello scriba ma neppure quella insignificante che a volte cerchiamo perché non ci inquieti e non turbi i nostri compromessi con il male. Molto presto, proprio per questa ragione, il ministero del Cristo dovrà affrontare l'opposizione demoniaca sotto molte vesti fino a essere accusato di scacciare i demoni nel nome stesso di Beelzebul (Mc 3,22).

VITA PASTORALE N. 1/2009 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)



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