IV Domenica di Quaresima (C)




Omelie - Il Vangelo della domenica
a cura di Goffredo Boselli
Vita Pastorale (n. 3/2025)


ANNO C – 30 marzo 2025
IV Domenica di Quaresima

Giosuè 5,9a.10-12 • Salmo 33 • 2 Corinzi 5,17-21 • Luca 15,1-3.11-32
(Visualizza i brani delle Letture)


NOI, FRATELLI DEL FIGLIOL PRODIGO

Possiamo leggere le parabole dei Vangeli senza sapere se siamo l'operaio della prima ora o l'operaio dell'undicesima ora, se siamo la pecora perduta o una della novantanove lasciate nel deserto. Ma nella parabola del figliol prodigo no: il nocciolo del discorso di Cristo è rivolto al figlio maggiore, perché siamo tutti fratelli del figliol prodigo.
E questa parabola vuole farci comprendere cosa Dio si aspetta da noi, e capire che credere in lui non significa solo obbedire a norme, regole e tradizioni. Tutto questo viene spesso riassunto sotto il nome di moralità. Gesù Cristo non ha predicato una nuova morale, ma un'altra possibile dimensione dell'esistenza che sta oltre la pur necessaria morale. Questa è la novità del Vangelo.
La parabola del figliol prodigo offre un'antimoralità, cioè rivela un volto di Dio che ci allontana da ciò che travestiamo con il nome di Dio quando vogliamo governare gli uomini, la società, la Chiesa. Questa parabola ci mette in guardia contro la tentazione di una religione delle prestazioni e della compravendita, basata sulla logica della punizione e della ricompensa. Dicendo al figlio maggiore "tutto ciò che è mio è tuo", il padre contraddice l'idea di una ricompensa automatica e proporzionale per una vita docile, fedele e obbediente in tutto.
Questa religione è quella dei farisei e dei dottori della Legge, che non amano che Gesù accolga i peccatori e mangi con loro. Una religione in cui si obbedisce per ottenere una ricompensa in modo meccanico. Il Vangelo ci invita ad allontanarci dalle nostre inclinazioni "naturali", da questo tipo di moralità che si fonda sul conformismo, sull'unica regola, sull'unico automatismo di una giustizia semplicissima, del tutto e solo umana. Sì, questa parabola ci dice che la giustizia di Dio non è la bella copia della giustizia degli uomini.
Quando il padre della parabola dice di essere contento che suo figlio «era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» è per affermare che, di fronte alla vita fatta di eccessi, errori, vizi e disperazione, la sua logica non è una logica di punizione, ma quella di aprire le braccia oltre il perdono. A dire che il rapporto con il padre Dio si costruisce attraverso una storia, un amore e non in relazione a norme. La misericordia di Dio non è la ricompensa per i più meritevoli, ma la speranza dei perduti. Questo Vangelo ci ricorda che la certezza della retta via è comoda ma illusoria: il figlio maggiore crede che riceverà una ricompensa dal padre e non ha capito di aver già ereditato tutto. La sua unica preoccupazione per l'obbedienza lo chiude alla grandezza dell'amore del padre, poiché il suo universo mentale esclude la festa per il ritorno del fratello perduto.
Questo Vangelo ci dice che l'amore di Dio è più grande di quanto immaginiamo. Ecco il rischio della fede, ecco lo splendore della grazia: poiché la libertà è donata a ciascuno, la nostra salvezza è riposta nelle mani di Dio e non nelle ambizioni umane di santificazione. Dobbiamo essere certi che il padre apre le braccia mentre noi restiamo imbronciati nel nostro angolo, che il padre apre le porte mentre noi restiamo fuori contando la nostra piccola eredità in monete d'argento. E non dimentichiamo che il mondo reale - la società come la Chiesa - è il più delle volte governato dal fratello del figliol prodigo.


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