Dare la vita per la propria gente




Il diaconato in Italia n° 229
(luglio/agosto 2021)

MINISTERO


Dare la vita per la propria gente
di Luigi Vidoni


L'enciclica di papa Francesco Fratelli tutti ha fatto da sfondo ai temi proposti dalla Rivista "Il Diaconato in Italia" di quest'anno, in particolare con la parabola del Buon Samaritano. Gesù, infatti, ci invita a farci presenti - scrive papa Francesco - «alla persona bisognosa di aiuto, senza guardare se fa parte della propria cerchia di appartenenza»; e fa una precisa richiesta: «"Va' e anche tu fa così" (Lc 10,37). Vale a dire, ci interpella perché mettiamo da parte ogni differenza e, davanti alla sofferenza, ci facciamo vicini a chiunque» (FT 81).
In quest'ottica vorrei proporre alcune esperienze dell'amico Rocco Goldini, diacono di Gela (diocesi di Piazza Armerina, Sicilia), morto dodici anni fa. Sono alcuni stralci di corrispondenza intrattenuta negli ultimi due anni della sua vita. Personalmente è stato per me uno stimolo e una testimonianza significativa nel mio ministero per il suo modo di essere diacono, sia in campo ecclesiale che in quello civile. Rocco, infatti, sposato con Rosa e padre di Giuseppe, Nuccia e Elisabetta, era ispettore capo della polizia municipale della sua città.

Uno sgombero
Rocco mi scrive: «Mi si stringeva il cuore perché, mentre a livello istituzionale insieme con altri colleghi dovevo provvedere ad uno sgombero da una casa abitata abusivamente, dall'altro pregavo la Madre di Dio perché questa famiglia potesse trovare un ricovero idoneo al più presto. Sì al mio lavoro e amore ai poveri: un insieme non facile. Alla conclusione della mattina un mio collega ha esclamato: "Sei stato determinante, perché il colloquio improvvisato che tu hai avuto con quella persona ha ridato la calma a tutta la mattinata di lavoro. Entrare di forza in un appartamento è stato spiacevole per tutti e tutti avremmo voluto scappare, ma è il nostro lavoro. Meno male che poi c'è Rocco che provvede a far ritornare la calma. E come? Con la forza dell'amore, che è ancora più grande di tutto quello che prima si era consumato. Sì, perché il suo amore per la gente è tale che le situazioni si capovolgono! Infatti, appena ho visto che nel nostro gruppo c'era lui, ho capito che oggi sarebbe stato diverso da altri giorni. E dire che il termometro era alto: una famiglia dentro casa chiusa con i lucchetti e un'ordinanza di sfratto del sindaco che si doveva eseguire. Come dire: da una parte la carità e dall'altra la giustizia". A parlare così è un mio collega che alla fine ha tirato un lungo sospiro di sollievo da come sono andate le cose. Qui a Gela si continua a vivere nell'emergenza: un povero da sloggiare in cambio di un altro povero che ha vinto la graduatoria delle case popolari. Storie di umana miseria. E sono tali e tante le povertà che nessuno vorrebbe vederle e neanche raccontarle».

Farsi carico del dolore – I semi e i frutti
Papa Francesco ci ricorda: «Non c'è più distinzione tra abitante della Giudea e abitante della Samaria, non c'è sacerdote né commerciante; semplicemente ci sono due tipi di persone: quelle che si fanno carico del dolore e quelle che passano a distanza…» (FT 70). E in un'altra lettera Rocco scrive: «"Morire per la propria gente" è un motto e un'esperienza che ha segnato me e mia moglie nel profondo. Abbiamo scelto di condividere la situazione delle persone più disagiate della nostra città, andando ad abitare con la famiglia in uno dei quartieri di nuova formazione. Qui la parrocchia aveva la sua sede in un garage di pochi metri quadri e tutto si presentava come un deserto: strade di terra, senza illuminazione pubblica, senza rete idrica né fognaria. Di servizi sociali e trasporti pubblici neanche parlarne. Sono stati dieci anni di vita difficile, ma ora si cominciano a vedere dei frutti.
Abbiamo cercato di creare con ciascuna famiglia del quartiere un rapporto di conoscenza e di dialogo, tentando di ricucire lo strappo tra i cittadini e l'amministrazione pubblica. Pian piano i circa tremila abitanti del quartiere sono diventati soggetti attivi nel rapporto con le istituzioni pubbliche attraverso un comitato creato appositamente. Si è giunti ad ottenere dall'amministrazione regionale lo stanziamento pubblico di una forte somma per il risanamento del posto, diventato ora un quartiere-pilota, che ha dato vita ad attività formative per i rappresentanti di tutti gli altri comitati di quartiere della città.
Da alcune domeniche ci siamo trasferiti nei nuovi locali parrocchiali che la Regione siciliana ha costruito: un primo lotto con i locali pastorali e la canonica. È venuto il vescovo per la benedizione e c'è stata grande festa per questo evento che aspettavamo da anni»
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Vivere la speranza con chi non più speranza
«La parabola (del Buon Samaritano) ci mostra - scrive Francesco - con quali iniziative si può rifare una comunità a partire da uomini e donne che fanno propria la fragilità degli altri, che non lasciano edificare una società di esclusione, ma si fanno prossimi e rialzano e riabilitano l'uomo caduto, perché il bene sia comune (FT 67)». Mi scrive Rocco: «Ascoltare i fratelli è caricarsi i pesi, condividere le fatiche e aiutarci nel cammino. Bussare alla porta delle case per la benedizione delle famiglie è una fatica ma con il sapore del divino. Significa accogliere il dolore, il peso, la malattia, la tristezza, la povertà, la lontananza da Dio: è morire con la tua gente, versare il sangue... Quel Sangue di cui tu sei "ministro". È vivere la speranza con chi non ha più speranza. Così anche oggi ho bussato alla porta di una famiglia. Mi accoglie la madre e mi fa accomodare. Non mi lascia andar via, perché il suo cuore è oppresso, tanto che esclama: "Ho bisogno che qualcuno mi ascolti, perché non so a chi dire tutte le mie cose". E così inizia il suo racconto: "Siamo poveri e con me vive mia figlia. Mio marito è in carcere da tre anni per un reato commesso e ne avrà almeno altri tre. Mia figlia ha altri due figli e io non posso buttare fuori lei e i suoi piccoli. Così le condizioni economiche a casa mia si sono fatte difficili. Come se non bastasse, da una settimana hanno arrestato anche mio figlio per una cosa commessa quando era minorenne. Ora i pentiti lo hanno accusato ed è stato arrestato. Lui ci aiutava a portare avanti la casa, ma adesso le cose sono precipitate. Tra avvocati, visite al carcere, di soldi ce n'è bisogno parecchio. Come fare? Noi non siamo gente di chiesa: siamo persone che si vergognano e non usciamo nemmeno da casa. L'altro giorno siamo stati a chiedere un aiuto in una parrocchia, ma la cosa ci ha ulteriormente mortificati: un parroco cosa può offrire con tanti bisognosi che ci sono? E poi di lavoro non ce n'è. Con il marito in galera, come fai a cercare Dio? Dov'è questo Dio che lei dice che mi ama?". Volti diversi, ma tutte storie sacre. Come essere la Parola che dà speranza? Come servire la Parola fatta carne? La mia è una testimonianza carica di tutto il limite legato alla mia umanità, ma con piena confidenza in Gesù, fonte della nostra diaconia. A quella mamma alla fine ho detto: "Perché non viene in chiesa? Gesù l'aspetta". E lei: «Sì, debbo venire!".
Alla messa, che di lì a poco si celebra, verso nel calice tutto il dolore incontrato e dico con tutto il cuore: "Sei tu, Signore, l'unico mio bene! Soccorri quella tua famiglia, quella che mi hai fatto incontrare pocanzi e manda il tuo Spirito, manda la speranza e fa tornare il sereno. Anche oggi, Signore, ti ho riconosciuto abbandonato, solo, povero, offeso, carcerato. A me hai fatto un dono, quello di essere come una spugna: andare per i condomini della mia parrocchia e asciugare le lacrime che incontro, perché Tu, Signore, sei il Risorto, il Dio con noi, il compagno di viaggio. Io credo e spero in te! Continuerò a bussare… e se mi dovessi anche stancare o mi ammazzassero per il tuo nome, tu hai già preparato per tutti noi un banchetto nel Cielo. Voglio condividere questo momento solenne con questa mia gente, privata di tutto, ma non del tuo Amore"»
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Un battesimo tanto atteso
E in un'altra lettera scrive: «Ho celebrato il sacramento del battesimo a due ragazzi di 14 e 12 anni. Hanno atteso tanto perché aspettavano che il papà uscisse dal carcere. Così quella mattina la chiesa era piena di gente, parenti, amici, conoscenti. Mi sono ricordato che questa è la gente per cui debbo dare la mia vita: è la mia gente! È stato un momento di festa, di vera festa. Alla fine mi hanno detto loro stessi che è stata una celebrazione dove è passato veramente l'amore di Dio. Il padre diceva che fino ad allora non si era mai posto il problema di Dio; ora però partecipare a questa festa dei suoi bambini lo ha fatto riflettere. Un buon motivo per cambiare vita. L'amore penetra. Quello che io ho capito è che devo essere Amore da farmi mangiare dagli altri. È solo questo quello che conta! E lo puoi fare sempre, soprattutto verso gli ultimi, i violenti, i carcerati. Il Crocifisso vivo trasforma tutto: è veramente il Risorto in mezzo a noi!».

Un popolo che cerca Dio
E nella visita e benedizione delle famiglie è l'occasione per stabilire rapporti veri: «Subito dopo Pasqua il parroco e io iniziamo la benedizione delle famiglie. Un'azione pastorale che ci introduce nell'intimità delle case dei parrocchiani. Mi dispongo con l'anima in modo da vedere in ogni persona che incontro Gesù da amare, sapendo che con ognuno posso rinnovare il rapporto o stabilirlo ex novo. Le persone che avvicino fanno parte di una popolazione che già ha sofferto parecchio e che, per non avere una casa ed avendo un basso reddito, è stata ammessa nelle case popolari. Qui si ritrovano sia quelli offesi per mafia, sia quelli che hanno offeso per mafia. Comunque un popolo in ricerca, in ricerca di Dio, sia gli uni che gli altri, anche se non lo sanno.
C'è ancora molta gente in mezzo a noi che soffre la fame e manca delle cose più elementari. Bussando ad una porta mi risponde una signora con sette figli: mi spiega che due sono del primo marito, ammazzato per omonimia, gli altri sono nati dall'attuale convivente (qui non ci si sposa di nuovo per paura e allora si convive...). Le "leggi sull'onore" si rispettano. Ma come? Con la paura e la mortificazione. E poi ti chiedi: e la parità? Quale parità? Il bisogno prevale su tutto, anche sull'etica, se ce n'è una. Questa signora ha una splendida figlia di 20 anni che vuole uscire dal bunker dove è stata posta per via di quel padre ucciso e che lei non ha conosciuto. È molto arrabbiata, perché suo papà era un onesto lavoratore e glielo hanno ingiustamente ammazzato, scambiandolo con un altro. Storie di mafia, che qui diventano storia sacra! Storia di una ventenne che crede, che ha incontrato un giorno Dio Amore e che adesso sta incominciando a fare la sua esperienza, iniziando proprio nella sua famiglia.
La madre racconta: "Mia figlia ha pagato più di tutti per questa esperienza di mio marito ammazzato ed è quella che più di tutti soffre per il riscatto dei suoi fratelli. Cosa non farebbe per non farli cadere nella trappola della mafia e cosa non fa per aiutarli! Solo Dio lo sa". Fin qui il racconto, che continua con l'elenco dei vari bisogni, che sono tanti.
Davanti a tutto questo ho presente nell'anima una sola Persona, Gesù Crocifisso, che incontro per le strade di questa città, tentando di asciugare qualche lacrima e sapendo ciò che viene chiesto a me, diacono di questa parrocchia, che busso a quella porta, che passo per questa via, che cerco di donarmi a tutti. E mi chiedo: Non è forse questa la mia gente? Il popolo che Egli ama? Che Egli preferisce più degli altri? Non viene chiesto a me di credere a tutto questo? Qual è la mia fede? E se passasse Gesù per questa via, si sporcherebbe le mani?
Per rispondere a tutte queste domande hai solo un secondo perché non puoi perdere tempo. Devi fare in modo che la carità trionfi sempre, quella carità che è al di sopra di tutto, che è Dio, quel Dio appeso a due legni incrociati. Queste persone in questo luogo e in questo momento ne sono una continuazione; non puoi scappare se sei cristiano. Ed io vorrei esserlo.
Un desiderio mi prende: seguire lui nelle vie del mio quartiere, in questo condominio e portare la sua festa, l'accoglienza del suo amore. Così un momento di dolore, di sconforto diventa un suo momento, un momento di gioia: "Hai tramutato il mio lamento in danza!".
Nella scala dei bisogni si dà una priorità e pian piano si cerca di capire da dove iniziare. La donna che ho di fronte intuisce che qui c'è il dito di Dio che si è fermato a casa sua e ne gioisce insieme a me. Pian piano torna il sereno con la forza di continuare a vivere. È fortemente provata, "ma adesso - esclama - con l'aiuto di Dio e della parrocchia tutto sarà più facile, soprattutto continuare a sperare!". Poi chiede: "Chi ti ha mandato? Il Signore!". Per me una sola considerazione: tutto vince l'amore!»
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Solo Lui
Tutta questa instancabile ansia apostolica ha un segreto e un prezzo nell'esperienza di un'anima. Rocco mi confida in una delle sue ultime lettere: «In questo periodo la mia vita è tracciata tutta al silenzio, allo scomparire. Tutto gira intorno e mi sembra per un momento tutto pace, gaudio, silenzio, amore. A volte di tutto questo che mi circonda ho perfino paura! Perché? Il rumore, le circostanze, i bisogni, la gente che va e che viene… Non è che non ci siano più, ma il mio vivere ora è tutto proteso a «non essere» per essere solo amore.
Questo mio voler "non essere" mi costa fatica, dolore: significa concretamente "scomparire" per fare posto in me a Maria… A Lei ho affidato tutto, tutto, tutto... E mi sembra un gioco, un voler continuare a giocare, anche se a volte, penso: ma non ho tutto sempre sulle spalle?. No! Continuare a vivere come se tu non esistessi, perché ciò che esiste veramente è solo Lui e tu devi metterti da parte!
A volte penso che non sia facile… ma ci debbo riuscire! In fondo non sono io a salvare la patria, non sarò io a colmare tutti i vuoti esistenti! Io sono solo una piccola parte e debbo esistere solo se amo, se continuo a sperare che solo Lui può veramente guarire, trovare lavoro, asciugare le lacrime, coprire i bisogni, dare speranza ai prigionieri, ai carcerati, aiutare gli affamati, i poveri, i soli, i delusi, le prostitute, insomma tutto ciò che è scartato, buttato nell'immondizia, tutto ciò che non serve più. Lì in ognuno di questi poveri ci sono io, io che spero che solo Lui possa passare ancora una volta e redimermi e donarmi l'Amore!


Uno straccione
«Caro Gesù, ti ho scoperto così straccione e mi dai ancora il coraggio di insistere, di continuare a lottare… E quel bambino che ho rivisto da tre settimane che mi perseguita, e quella donna che chiede aiuto per il proprio bambino, e quella lì che vuole il latte, e quell'altro che non può pagare la bolletta dell'Enel… a tutti tu dai amore dall'alto della Croce e io sono ai tuoi piedi che continuo a sperare in Te. Non lasciarmi solo, mio Dio, non lasciarmi solo! E dovunque io passo, Ti vedo, e dovunque io vado, Tu sei lì! E continuo a sperare, contro ogni speranza perché Tu sei dove non sono più io… Dammi, Signore, di esserti fedele, di non barattarti mai… perché Tu sei l'unico, il solo, il tutto. Grazie, Gesù, del mio non essere, perché tu Sei!».
Nel frattempo la malattia lo stava consumando, me ne aveva parlato l'ultima volta che ci eravamo visti dopo tanto tempo: «Ho un tumore! Ma voglio continuare a darmi alla gente fino alla fine». Non poteva dire che così, conoscendo il suo carattere deciso ed appassionato.
Al funerale, svoltosi il 22 aprile del 2009, nella chiesa madre di Gela, stracolma di gente, con il vescovo Michele Pennisi, il sindaco Crocetta, il sindaco di Butera e altre personalità. Un grande tributo di affetto da parte di tanti. Rocco aveva 54 anni. Riporto alcuni stralci del profilo che è stato letto in quella occasione:
«(…) "Chi vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua" (Lc 9,23). La croce, Gesù abbandonato, era il faro, la stella polare della sua vita. (…) E se è vero che, così come si vive, così anche si muore, vorremmo ripercorrere gli ultimi momenti della sua vita perché ci hanno colpito profondamente. Non si improvvisa una fedeltà a Dio anche nel dolore. C'è dietro tutta una vita di allenamento. Quando Rocco si è aggravato, è stato portato in ospedale a Ragusa lo scorso venerdì 27 marzo. Da allora ha semplicemente continuato a fare ciò che era abituato a fare: ha amato. Ha amato i compagni di stanza che hanno condiviso con lui la degenza in ospedale, al punto da lasciare in loro un segno indimenticabile con le sue parole ricche di speranza, di forza, di serenità».
«Ha amato i medici e il personale dell'ospedale e, poco prima di tornare nella sua casa di Gela, li ha radunati e li ha voluti salutare uno ad uno, ringraziandoli e raccomandando loro di lavorare sempre uniti. Un dottore ha esclamato di non aver mai visto una cosa del genere, impossibile, vedere morire un uomo vivo, che non si è mai ripiegato sul proprio dolore, su se stesso. Ha amato ogni fratello, ogni sorella che andava a trovarlo. Era sempre lui, con il suo temperamento energico, non lesinava consigli o suggerimenti. Non sopportava tentennamenti o incertezze o mezze misure nella vita con Dio. Ha invitato ciascuno a donare con generosità il proprio tempo e la propria vita per Dio. Ha chiesto scusa a tutti per gli errori che sentiva di avere commesso. Ci ha benedetto solennemente. Con affetto. Più volte. Aveva a cuore Gela, la sua terra, nella quale doveva brillare l'amore e l'unità. "Sarà la prima cosa che chiederò all'Eterno Padre. Non lascerò incompiuto questo compito" ci ha detto ieri.
Ieri mattina aveva chiesto ai medici la verità del suo stato e, saputo del suo aggravamento irreversibile, aveva subito chiesto di essere portato a casa».
«Ha potuto parlare a lungo con la moglie Rosa, con i figli. Ha voluto mettere in ordine, sistemare, ogni cosa. Ha ringraziato Rosa per tutto l'amore e la fedeltà in un'ora e mezza di continuo parlare del paradiso, di Gesù, di Maria. Ha gioito della presenza accanto a lui, nel momento del passaggio al Cielo, di alcuni amici che erano venuti per salutarlo; fino alla fine ha chiesto che gli cantassimo la canzone che preferiva: "Ama e capirai perché". "Ci vediamo in paradiso", aveva detto a Maurizio, un medico che gli era stato accanto in ospedale. Ci vediamo in paradiso, Rocco! E te lo diciamo come un impegno, con il tuo stesso impeto generoso! Non da soli, ma assieme: come comunità, con tutta la Chiesa locale, e con tutti i cittadini di questa città di Gela, città di luce e di amore, perché è la tua, la nostra città, che tanto hai amato».

Vorrei concludere questa testimonianza con le parole di papa Francesco: «Il samaritano della strada se ne andò senza aspettare riconoscimenti o ringraziamenti. La dedizione al servizio era la grande soddisfazione davanti al suo Dio e alla sua vita, e per questo un dovere» (FT 79).


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