Vino nuovo in otri nuovi



Il diaconato in Italia n° 221
(marzo/aprile 2020)


ESPERIENZE

Vino nuovo in otri nuovi
di Luigi Vidoni

Le parole di Gesù, riportate da Luca riguardanti la disputa con i farisei osservanti rigorosi delle regole e del digiuno (cf. Lc 5,33-39), mettono sempre in discussione il nostro modo di essere alla sequela del Maestro e del mandato ricevuto di annunciare il "nuovo" che Lui ha portato. Gesù dice espressamente: «Il vino nuovo bisogna metterlo in otri nuovi». È un'affermazione che può essere accostata anche al "nuovo" che il diaconato porta nella Chiesa. La grazia del diaconato, ripristinato come forma permanente di ministero dopo parecchi secoli di oblìo, è una delle "novità" che lo Spirito ha elargito alla Chiesa del nostro tempo.
È un "vino nuovo" che ci è stato offerto. Tuttavia, è lecito chiedersi il perché questo "nuovo" stenti ad essere, non solo accolto, ma anche compreso. E ritornano sempre alla mente le parole del Vangelo: «Il vino nuovo bisogna versarlo in otri nuovi» (Lc 5,38). Non solo, ma anche: «nessuno versa vino nuovo in otri vecchi», e «nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per metterlo su un vestito vecchio». Le conseguenze sono certe: «il nuovo non si adatta al vecchio», «il vino nuovo spacca gli otri» e tutto si disperde (cf. Lc 5,36-38).

Il nuovo sempre nuovo del Concilio Vaticano II
È un fatto, anche se non esclusivo, che molto spesso nelle nostre comunità i diaconi esercitano il loro ministero con modalità e mentalità in cui non sempre viene in luce quel "nuovo" che il Concilio Vaticano II ha portato nella Chiesa. Può essere un'esperienza ricorrente aver sperimentato che «nessuno che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: Il vecchio è buono!» (Lc 5,39). È più facile, infatti, restare ben saldi nell'esistente già ben sperimentato, nelle pratiche religiose consolidate, che non affidarsi a quella novità dello Spirito che ci spinge ad "uscire" dal nostro recinto per andare incontro all'umanità che ci circonda e non desidera altro che sperimentare nei cristiani, o meglio nella comunità dei discepoli, l'amore di Dio per l'umanità.

Come leggere l'operato pastorale del diacono?
È sotto i nostri occhi, purtroppo, la constatazione, dopo tutti questi anni dal ripristino del diaconato in forma permanente, della difficoltà a cogliere e sperimentare quella dimensione profetica di cui il diaconato è oggi portatore.
Sappiamo che la stragrande maggioranza dei diaconi sono inseriti nelle comunità parrocchiali in aiuto ai parroci in compito di supplenza o di una qualche responsabilità in ambiti pastorali particolari. Non di rado il diacono svolge un servizio di supplenza anche in rapporto alla presidenza di alcune celebrazioni. Tuttavia, pur potendo il diacono svolgere tali funzioni, ritengo importante sottolineare che i diaconi (e non solo) debbano prendere sempre più coscienza del proprio ruolo specifico all'interno del ministero ordinato. Andrebbe a discapito loro e quindi della comunità che sono chiamati a servire, se nell'opera pastorale dei ministri le persone, soprattutto le più semplici e meno preparate, non riescono a distinguere il ruolo del diacono da quello del prete, espletando loro stessi praticamente le medesime cose.
Ci sono, si sa, situazioni di emergenze e di supplenza che non si possono eludere, tuttavia il diacono non può mai dimenticare che se anche presiede una celebrazione liturgica, il suo ruolo specifico è un altro. E questo dovrebbe risultare anche dal modo di condurre la celebrazione stessa o di tenere l'omelia. Si potrebbe obiettare: perché allora i diaconi vengono inviati in alcune zone dove il presbitero non riesce sempre ad arrivare? Vengono mandati per delega e non per innato carisma di presidenza, proprio del vescovo e dei presbiteri.

La dimensione ministeriale si allarga a tutto l'universo umano
La conseguenza di ciò ci riporta a considerare che la ministerialità diaconale non si esaurisce nella dimensione liturgica, ma si allarga sull'universo mondo umano. Questa dimensione "del fuori" è, infatti, intrinseca alla realtà sacramentale del diaconato e si esprime nell'opera di evangelizzazione, in modo speciale nelle aree di marginalità delle nostre città e comunità, fra gli ultimi, i poveri e gli esclusi.
Purtroppo l'esperienza storica, i cui riflessi sono presenti tutt'oggi, ci mostra il ministero ordinato più uniformato su modelli sempre più coincidenti con la società civile, rivolti prevalentemente ai membri della stessa comunità cristiana, venendo meno la spinta missionaria sul mondo circostante. Constatiamo inoltre che le nostre stesse comunità cristiane non sono viste come soggetto compartecipe della comune missione evangelizzatrice, ma come semplice destinatario delle cure pastorali, esprimendo una deriva individualistica del ministero ordinato, dove la stessa funzione diaconale è spesso aleatoria ed evanescente. Occorre, pertanto, riscoprire il primato dei poveri e ridare alla diaconia ordinata la sua funzione di mediazione sacramentale, secondo lo spirito dei padri conciliari.

«Non tenete i diaconi sull'altare!»
Lo stesso papa Francesco non perde occasione per invitare i diaconi ad "uscire", a non chiudersi in sacrestia o a stare dietro l'altare. Interessante, a questo proposito quanto lo stesso pontefice ha recentemente ricordato ai vescovi del Madagascar durante la visita in quel Paese, il 7 settembre 2019: «E mi raccomando, per favore: non clericalizzate i laici. I laici sono laici. Io ho sentito, nella mia precedente diocesi, proposte come questa: "Signor vescovo, io nella parrocchia ho un laico meraviglioso: lavora, organizza tutto… lo facciamo diacono?". Lascialo lì, non rovinargli la vita, lascialo laico. E, a proposito dei diaconi: i diaconi tante volte soffrono di clericalismo, si sentono presbiteri o vescovi mancati… No! Il diacono è il custode del servizio nella Chiesa. Per favore, non tenete i diaconi sull'altare: che facciano i lavori fuori, nel servizio. Se devono andare in missione a battezzare, che battezzino: va bene. Ma nel servizio, non fare i sacerdoti mancati».
Sta di fatto, comunque, che è nella parrocchia che il diacono vive essenzialmente il suo legame con la Chiesa locale. Ed è lì che è chiamato, nel concreto, a "far vedere" nella propria persona e nell'azione pastorale la "novità" che il diaconato porta in sé.

I luoghi dell'incontro
Nella mia esperienza, nelle varie comunità dove sono stato inviato, ho cercato di non preoccuparmi del numero di persone che frequentano la chiesa, superando la tentazione di richiamare nei discorsi la frequenza alla messa domenicale, ma di guardare a tutte le persone del territorio, che sono la maggioranza e sono lontani dalla Chiesa.
Allora mi sono detto che se le chiese sono sempre più vuote, le famiglie rimangono sempre "piene". Ed è lì il luogo dell'incontro: nelle case, nei posti di lavoro, nei luoghi di svago, al bar..., facendo sentire loro la vicinanza della Chiesa. Concretamente, nella parrocchia dove presto servizio, organizziamo la visita alle famiglie come metodo "ordinario" per incontrare le persone, non limitandoci alle tradizionali benedizioni pasquali, ma attuando un programma capillare durante tutto l'anno pastorale.
La maggioranza delle persone che incontriamo non frequentano la chiesa. E queste visite sono l'occasione preziosa per un dialogo, un ascolto, senza pretesa di soluzioni preconfezionate. Proponiamo, se del caso, anche una breve lettura della Bibbia con alla fine una preghiera comune. Se si ritiene opportuno si ritorna, in maniera informale, per una visita soprattutto dove ci sono anziani o ammalati. Questo modo di fare è stato per me l'occasione di accompagnare fino all'ultimo più di una persona e di stare vicino alle persone rimaste sole. Quelli non praticanti, alla fine, magari dopo un anno, li vedo entrare in chiesa, ma non da "estranei", perché il rapporto, costruito fuori, non si è mai interrotto. In questa visita alle famiglie si incontrano situazioni di precarietà e non solo economiche. Il dialogo e il rapporto personale, discreto, affettuoso, produce i suoi effetti. Come per esempio, durante una visita assieme al cappellano (studente in una università romana, di colore, che presta il suo servizio nella parrocchia), una signora, peraltro non praticante ma che incontro occasionalmente per strada e con un figlio disabile, non vuole farci entrare in casa con la scusa che molti si travestono da carabiniere o da prete con intenzioni non buone, ed ha paura. Ma poi, guardandomi mi dice: "Ma lei la conosco!". E ci fa entrare…

Per una credibilità pastorale
Da questa esperienza mi convinco sempre più che la situazione di crisi attuale delle nostre comunità cristiane è una nuova chance per il Vangelo. Guardando ai racconti del Vangelo, ci troviamo di fonte, da un lato alla "cerchia dei ristretti" e, dall'altro, alla moltitudine, a personaggi che entrano ed escono nel racconto evangelico di cui non si sa più niente. Ma fanno anch'essi parte del Regno, perché hanno incontrato Gesù, anche se non sono entrati nella "cerchia dei ristretti". E questi, oggi, sono la maggioranza. Si comprende, allora, che occorre rinunciare a "padroneggiare" su questi, a superare la logica pastorale di "inquadramento", che significa non solo trasmettere, ma suscitare la vita che nasce dall'annuncio e lasciare che Dio la porti avanti. È quella che potremmo definire la pastorale della gestazione, dove le persone non sono lasciate sole, ma messe nella condizione di sperimentare la vicinanza della tenerezza di Dio, sapendo che è lo Spirito l'agente principale.
Per essere credibili occorre una conversione nel nostro modo di fare pastorale: credere innanzitutto che il Signore risorto è presente con la sua forza unificante, e che Lui ci precede, sempre: nell'oggi della nostra Galilea (cf. Mt 28,10). A noi l'impegno di attualizzare questa presenza, perché la funzione della Chiesa è quella di generare Cristo, che è la funzione di Maria.


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