Verso la Città Santa



Il diaconato in Italia n° 221
(marzo/aprile 2020)


EDITORIALE

Verso la Città Santa
di Enzo Petrolino

Apriamo questo numero della Rivista con la tristezza nel cuore per la morte del nostro caro don Giuseppe, direttore, ma con la gioia per averlo conosciuto, amato, apprezzato, per aver condiviso un tratto di strada della sua vita.
Oggi anche noi ci troviamo a Cesarea di Filippo (ho negli occhi e nel cuore ancora la giornata a Cesarea con don Giuseppe nel luglio 2012), luogo dove Pietro riconosce in Cristo il Messia atteso, dove Gesù comincia apertamente ad annunziare la sua passione ai discepoli rimasti con lui ed intraprende decisamente una specie di viaggio verso Gerusalemme. Giovanni riporta almeno tre salite di Gesù a Gerusalemme prima di quella della sua passione (cf. Gv. 2,13; 5,1; 7,10). Sì, perché Gesù ne è ormai convinto: «è necessario... che io vada per la mia strada, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme» (Lc 13,33).
Voglio immaginare la morte di don Giuseppe a Gerusalemme, quella Città in cui lui tante volte è salito facendosi pellegrino e guida e che era adesso diventata il suo letto d'ospedale, dove ha trascorso questi ultimi anni della sua vita, nel silenzio, nella semplicità ed essenzialità.

Lo sgabello dei Suoi piedi
Un profeta non può morire fuori di questo luogo. Non ricordo quando è stata l'ultima volta che lui si sia recato nella Città Santa, ma adesso sicuramente è giunto alla Gerusalemme celeste, dove la luce è la gloria di Dio.
«L'angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino» (Ap 21,10-11).
La raffigurazione della Città Santa apocalittica, nella Basilica Romana di Santa Prassede, è splendida. Si legge sulla pagina del libro che Gesù tiene aperto tra le mani: «Si quis sitis, veniat» (Se qualcuno ha sete, venga a me, Gv 7,37-53). E don Giuseppe ha avuto sete di quell'acqua che Gesù ha donato alla Samaritana, così come abbiamo gustato in questo tempo di Quaresima.

Per lasciarsi conformare al Figlio
Un'espressione di Gesù che molte volte citiamo a riguardo dei diaconi è questa: «Il Figlio dell'uomo, infatti, non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in redenzione della moltitudine» (Mc 10,45). In questo versetto Gesù compone nella sua personalissima vocazione un'originale fusione tra due figure fino allora distinte nella tradizione ebraica: quella del Figlio dell'uomo glorioso che verrà con le nubi del cielo e giudicherà le genti e quella dell'umile Servo (Diacono) di Jhwh. Egli sa, infatti, che per poter «entrare nella sua gloria», deve prima portare a compimento tutta una vita di servizio al Padre suo ed agli uomini, proprio attraverso l'estremo dono della vita. Con la fiduciosa certezza che il Regno da Lui inaugurato verrà comunque, non solo nonostante la sua morte, ma soprattutto grazie ad essa.
Questo è il senso profondo di ciò che è avvenuto, «dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine», ed attraverso un gesto estremamente significativo di servizio, quale la lavanda dei piedi e la consegna irrevocabilmente attraverso una "profezia gestualizzata", nell'atto, di spezzare il pane, bere il calice e donare la Parola. Un servizio alla Parola di cui Giuseppe è stato maestro attento ed ascoltatore assiduo insegnandoci a scrutarne i segreti più reconditi, facendo della Parola la diaconia della sua vita.

La preghiera nel Getsèmani
Nell'orto del Getsèmani della sua sofferenza, accolta e trasfigurata, ha gridato al Padre la sua angoscia silenziosa. È in questo "luogo" il momento decisivo del dramma della Passione, perché essa si presenta nella sua totalità e crudezza come raccolta nell'intimo della sua vita. In questa notte oscura c'è, tuttavia, un unico raggio di luce: l'invocazione, come quella di Gesù, "Abbà, Padre", che ha mantenuto don Giuseppe chiaramente in relazione col Padre e con gli amici. Lui che sembra non aver dato alcuna risposta abbandonando il Figlio in balla della morte.
Siamo sicuri che don Giuseppe, come Gesù, è uscito vittorioso dal conflitto del Getsèmani, perché nella preghiera, ha trovato la forza di compiere la volontà del Padre e di essere fedele alla sua missione di presbitero, sino alla morte. Una morte giunta in un tempo di isolamento e di grande prova per l'umanità intera, senza nemmeno poter porgere l'ultimo saluto ed unirci alla preghiera di suffragio con i familiari, gli amici del Consiglio e la Comunità parrocchiale di Santa Maria della Mercede, della quale era parroco attento e premuroso.
Poiché non siamo contemporanei di Gesù, non abbiamo mai visto una morte di croce. Per questo ci viene difficile capire che cosa significasse in realtà questa pena capitale romana. Gli stessi evangelisti, che ci raccontano in modo compiuto quanto è successo, non si soffermano in descrizioni particolareggiate e danno per scontato che uno conosca ciò di cui parlano. Sicuramente attraverso la testimonianza di tanti nostri amici, familiari che hanno attraversato il tunnel della malattia e della sofferenza fino all'estremo, possiamo cogliere, se pure marginalmente, il senso della morte di croce.
È dunque la fine di tutto, la tragica conclusione di una fatale illusione, la nostra sconfitta definitiva? Eppure... sembra di no guardando Gesù: «il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare in quel modo, disse: "Veramente quest'uomo era figlio di Dio!"». È questo che bisogna sentire dire di fronte alla morte dei discepoli di Gesù: «Veramente quest'uomo era figlio di Dio!». Ma che cosa avrà mai visto in quel momento, che cosa avrà mai sentito questo militare pagano, per riconoscere in un povero crocifisso che muore ... addirittura il figlio di Dio?

La kenosi di ogni uomo
Il Centurione, che - a differenza degli altri - gli stava proprio di fronte, ha colto il grido di Gesù e ne è rimasto profondamente impressionato. Gesù, in realtà, non avrebbe gridato Elia' ta' (Elia vieni), bensì Eli 'attah, che vuoi dire: «Dio mio, sei tu». Sì, un grido di fede: che cosa rimane, infatti, di Gesù appeso in croce, nello stato di massima derelizione, spoglio di tutto, di ogni certezza umana, tranne quella della morte, se non la fede? Questa certezza incrollabile di essere sempre e comunque nelle mani del Padre, di aver compiuto la sua volontà salvifica? E don Giuseppe ha compiuto la Sua volontà bevendo il calice amaro fino in fondo.
Oltre il baratro della morte ci sono le sue braccia, al fondo dell'oscurità in cui è sprofondato c'è il suo Volto, dentro l'incomprensibilità del mistero c'è il suo Amore: questo Gesù lo sa, questo Gesù lo crede, ed a questo Padre Gesù rimette tutta la causa del Regno ed il futuro dell'opera da Lui compiuta sulla terra. È esattamente quello che ci dicono in un altro modo gli evangelisti, mettendo sulla bocca di Gesù morente le parole di fede dei salmi di Israele. In tutti salmi citati dai quattro evangelisti è presente anche quest'ultimo grido di Gesù: «Tu sei il mio Dio».
Sì, l'aurora di un nuovo giorno scaturisce dal grido di Gesù, che ha squarciato l'oscurità della morte insieme al velo del tempio: è il giorno stesso della Pasqua che Gesù inaugura cantando dall'alto della croce il salmo dell'hallel, proprio il salmo che viene recitato dopo il convito Pasquale e che termina con l'espressione: «Tu sei il mio Dio e ti esalto».

La testimonianza della Chiesa e dei suoi ministri
Ora tutto è nelle mani del Padre e Creatore, sarà Lui a raccogliere il grido di Gesù morente e rispondere, facendolo diventare il ponte che unisce la terra e il cielo; sarà Lui ad accogliere il dono del suo sangue versato, perché diventi la nuova Alleanza fra Dio e l'umanità, sarà Lui a dissetare la carne inaridita del crocifisso, e trasformarla in «sorgente d'acqua che zampilla per la vita eterna». E vorrei concludere con un meraviglioso ed antichissimo inno scaturito dalla fede e dallo stupore della chiesa primitiva. Inno che anche san Paolo ha imparato a cantare e che ci ha tramandato come una preziosa reliquia nella lettera ai Filippesi (2,6-11). È la sintesi contemplativa di tutto ciò che don Giuseppe ha cercato di testimoniare e cantare con la sua vita, nonostante le sue fragilità e debolezze.
Cristo Gesù, pur essendo di natura divina,
non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò se stesso,
assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana, umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e alla morte di croce.
Per questo Dio l'ha esaltato
e gli ha dato il nome
che è al di sopra di ogni altro nome;
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra;
e ogni lingua proclami
che Gesù Cristo è il Signore,
a gloria di Dio Padre.


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