Solennità di Tutti i Santi
Lectio divina

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Lectio divina
Abbazia di Santa Maria di Pulsano (FG)
(26 ottobre 2020)

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SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI

Apocalisse 7,2-4.9-14 • Salmo 23 • 1 Giovanni 3,1-3 • Matteo 5,l-12
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Celebriamo oggi una festa che riguarda soprattutto noi cristiani, discepoli di Gesù Cristo, ma non solo. Sia che siamo ancora viventi, sulla terra, sia che siamo passati attraverso l'esodo della morte e siamo dunque "in cielo", nel regno di Dio, tutti noi siamo partecipi della beatitudine, della felicità. L'essere umano cerca la felicità, la vita piena e senza fine, e Gesù vuole dare una risposta a questa sete profonda presente nel cuore di ogni persona.


Un po' di storia
Già nel IV secolo, incontriamo in Oriente la commemorazione di tutti i martiri. In Antiochia, essa veniva celebrata nella prima domenica dopo la Pentecoste, in Siria orientale, il venerdì dopo la Pasqua; a Edessa, il 13 maggio. A Roma, troviamo le tracce di queste celebrazioni, ma la solennità stessa assume importanza a partire dai tempi di Bonifacio IV (+ 615). Col permesso dell'imperatore, il papa trasforma il tempio pagano del Pantheon in chiesa dedicata alla Beatissima Vergine Maria e a tutti i Martiri. La solenne consacrazione del tempio e il collocamento delle reliquie ebbero luogo il 13 maggio 610. L'anniversario della consacrazione si celebrava ogni anno con grande partecipazione dei fedeli e il papa stesso prendeva parte alla Messa della stazione. Verso l'anno 800, la Commemorazione di Tutti i Santi viene celebrata in Irlanda, in Baviera e in alcune Chiese della Gallia, però il giorno 1° novembre. Durante il pontificato di Gregorio IV (828-844), il re Luigi IX estende la festa a tutto il territorio del suo Stato. In questa maniera, la festa locale di Roma e di alcune altre Chiese diventa una festa della Chiesa universale. Roma accoglie però, per i motivi che non conosciamo, la data gallica delle celebrazioni, cioè il 1° novembre. In questo giorno, la Chiesa venera tutti i santi, cioè i martiri e i confessori. Nei primi secoli, si conosce il culto dei martiri, che hanno dato la loro vita per Cristo. Col tempo, però, compare il culto dei confessori, coloro cioè la cui vita risultava una fedele sequela delle parole di Cristo. Tra i confessori troviamo anzitutto i grandi vescovi, che in modo particolare davano testimonianza della fede cristiana, l'insegnavano, difendevano la sua purezza e la confermavano con l'esempio della loro vita. Si rendeva culto agli asceti, alle vergini ed ai monaci, poiché essi davano testimonianza con una vita eroicamente cristiana. La festa di un santo era originariamente festa della comunità nella quale egli era vissuto, della Chiesa alla quale apparteneva. Col tempo, il culto dei santi assume la portata universale. Attualmente, nel calendario di tutta la Chiesa commemoriamo i santi, che hanno carattere universale, sono conosciuti in tutta la Chiesa e indicano la sua universalità. Le Chiese particolari e le famiglie religiose hanno i loro calendari particolari e così rendono culto ai santi che sono loro vicini in modo speciale. Celebrare la Solennità di Tutti i Santi vuol dire annunciare il mistero pasquale nei santi, che soffrirono insieme con Cristo ed insieme con lui furono glorificati. La santità cristiana consiste infatti nella imitazione e nella partecipazione a quell'unico amore che aveva Cristo nell'offrire al Padre la sua vita per gli uomini. La santità cristiana consiste nella vita paziente di ogni giorno nello spirito delle beatitudini; è nello stesso tempo l'adempimento della perenne vocazione dell'uomo alla perfezione. La chiamata alla santità riecheggiava nel Vecchio Testamento. Cristo dirà ai suoi: siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste (Mt 5,48). San Paolo ricorderà ai Tessalonicesi: questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione (cf. 1Ts 4,3).
Cambiano i tempi e le condizioni in cui vive la Chiesa, ma la chiamata alla santità non viene meno. La santità si manifesta esteriormente in modi diversi, viene realizzata dagli uomini secondo le doti della natura, i tempi e le circostanze della vita. Alla base però della santità vi è un'unica cosa: l'amore. Il santo camminava per la vita praticando il comandamento nuovo lasciato da Cristo. Oggi, la Chiesa contempla con gli occhi di Giovanni apostolo «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua; tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all'Agnello» (Ap 7,9) ed esulta con grande gioia. Contempla la Città santa, la Gerusalemme celeste dove un gran numero dei nostri fratelli glorifica già adesso il nome del Signore. In questo giorno solenne, la Chiesa manifesta ai suoi figli ancora pellegrinanti sulla terra il loro esempio di vita. Ai nostri fratelli, che sono già arrivati alla patria celeste, la Chiesa chiede aiuto e sostegno per coloro che sono ancora in via.

Dall'eucologia:

Antifona d'Ingresso
Rallegriamoci tutti nel Signore
in questa solennità di tutti i Santi:
con noi gioiscano gli angeli
e lodano il Figlio di Dio.


Nella composizione del testo dell'antifona d'ingresso si canta la gioia nel Signore per la celebrazione di oggi, della quale si allietano anche gli Angeli e glorificano il Figlio di Dio.

Canto all'Evangelo Mt 11,28
Alleluia, alleluia.
Venite a me,
voi tutti che siete affaticati e oppressi,
e io vi darò ristoro.
Alleluia.

"Il Signore, la Sapienza divina incarnata, giubilando nello Spirito Santo (Lc 10,21, testo parallelo), celebra il Padre Rivelatore divino ai piccoli, e chiama questi, tribolati dalla vita, ad andare a Lui per ricevere l'anápausìs, il divino beatificante Riposo. È la suprema ricompensa donata ai santi, la Quiete perfetta nel Seno della Beatitudine, fuori di ogni miseria, di ogni diminuzione e mutamento doloroso, nel Luogo desiderato. Termine denso, anápausis, che dice tutto: ai «beati», i santi del Regno il Dono, preparato dall'eternità, è donato con infinita supereffluenza; è lo Spirito Santo divinizzante" (T. Federici).

Ecco dunque davanti a noi le beatitudini di Gesù attestate dall'evangelo secondo Matteo, una pagina talmente conosciuta, citata, commentata e predicata che rischiamo di presumere di conoscerla già e di non avere più bisogno di ricominciare a leggerla, meditarla, comprenderla. Gesù ha iniziato il suo ministero pubblico predicando la venuta del Regno (cf. Mt 4,17) e chiamando alla sua sequela alcuni che sono diventati suoi discepoli (cf. Mt 4,18-22). Ormai è un rabbi, un profeta anche per molti credenti di Galilea e di Giudea, e attorno a lui c'è una piccola folla, nella quale abbondano malati, oppressi, poveri, persone che soffrono e piangono (cf. Mt 4,23-25). Gesù sa guardare a quelli che lo cercano, lo incontrano e lo seguono, sa discernere innanzitutto la loro fatica e la loro sofferenza ed è profondamente toccato dai mali delle persone. Non è un predicatore distaccato, che annuncia e parla guardando solo a Dio che lo ha inviato e lo ispira in ogni momento; sa anche guardare all'uditorio concreto, a chi ha di fronte e, come sa ascoltare Dio, così sa ascoltare questa gente che si rivolge a lui con gemiti, invocazioni, lamenti, domande senza risposta. Secondo Matteo, Gesù decide allora di consegnare a queste persone le promesse di Dio, che possono essere anche un programma per chi vuole seguirlo. Il testo evangelico, proclamato anche nella IV Don. Tempo Ord. A, si estende da 5,1 a 7,29 ed è il primo dei 6 grandi discorsi di Gesù riportati dall'evangelista Matteo. Al termine del lungo discorso Matteo nota che le folle rimangono incantate dall'insegnamento di Gesù(7,28-29). Del discorso sulle beatitudini Matteo e Luca (6,20ss) presentano due redazioni differenti; la prima differenza è già nell'ambientazione geografica, luogo pianeggiante per Luca, montagna per Matteo. In Luca il discorso è più breve che in Matteo, poiché Luca toglie ciò che troppo giudaico per interessare i suoi lettori. Matteo ha 8 beatitudini, Luca 4 beatitudini e 4 maledizioni. Quelle di Matteo tracciano un programma di vita virtuosa con una ricompensa celeste; quelle di Luca annunciano il rovesciamento delle situazioni da questa vita a quella futura (cfr. Lc 16,25). In Matteo Gesù usa la terza persona, tipica della letteratura sapienziale, in Luca apostrofa l'uditorio. In sintesi possiamo dire che questo discorso, vero nel contenuto, non fu tenuto da Gesù nella forma in cui lo troviamo oggi, discorso continuo, unitario pronunciato di fronte allo stesso uditorio, ma sicuramente proviene da vari discorsi tenuti in occasioni diverse. Lo scopo manifesto del lavoro di Matteo era quello di offrire un insegnamento attuale alla sua chiesa. Dopo la distruzione del Tempio con l'occupazione della città di Gerusalemme (70 d.C.) il ruolo di capi spirituali riconosciuti, del giudaismo del tempo, era tenuto saldamente in mano dai rabbini. Questi per creare un centro di unità del popolo disperso avevano iniziato a codificare l'eredità giudaica incentrata sulla conservazione e interpretazione della legge di Dio. La comunità cristiana di Matteo viene provocata a interrogarsi quale sia stato in proposito l'atteggiamento di Gesù; si domanda se la sua interpretazione della legge collimi o meno con quella rabbinica; si vuol sapere se egli sia stato uno dei tanti dottori della legge oppure un maestro eccezionale ed unico. Il tema fondamentale del discorso è che Gesù non è venuto ad abolire la Legge o i Profeti ma ad adempierli (5,17). Dobbiamo tenere presente che per l'evangelista tutto ciò che è detto nel discorso serve a illustrare o è coerente con questo principio fondamentale. Riassumendo i motivi che hanno portato l'evangelista Matteo a comporre il discorso delle beatitudini distinguiamo:
  1. una ragione pratica che è quella di avere un riassunto completo e continuo dell'insegnamento etico di Gesù, da utilizzare con facilità nella predicazione e nell'insegnamento della Chiesa.
  2. Un'altra ragione importante per Matteo è quella di presentare Gesù come il nuovo Mosè, fondatore di un nuovo popolo che conduce alla comprensione della Legge e dei suoi precetti. Il discorso presenta un compendio degli insegnamenti di Gesù in primo luogo ai Giudei con lo scopo di mostrare come Gesù adempia la Legge e i Profeti, non quello di dimostrare la superiorità del suo insegnamento sulle Scritture o sulla tradizione ebraica.
  3. Nel discorso Gesù presenta ciò che per i cristiani è un'interpretazione autorevole della Torah. Il discorso è più interessato ai principi e agli atteggiamenti che non al dirimere questioni giuridiche o allo stabilire nuove norme.
  4. Il discorso non rappresenta né un'etica strettamente individuale né un progetto di utopia sociale. Tuttavia presenta implicazioni per la vita sia personale che comunitaria. Gran parte dell'insegnamento di Gesù riguarda la buona condotta al presente.
La lettura evangelica nella festa di oggi non è un sogno sganciato dalla realtà della nostra esistenza, ma la celebrazione di ciò verso cui noi stessi ci stiamo incamminando. Perché quella di oggi è anche la festa del santo in potenza che ciascuno porta dentro di sé. «Quelli che sono vestiti di bianco, chi sono e donde vengono?» (Ap 7,13). È necessario rispondere a questa domanda perché ci sono molti errori di prospettiva da correggere a proposito dei santi. Il primo è quello di immaginarli soltanto nella loro condizione finale, con un'aureola sopra la testa, collocati su un altare o nella gloria della loro canonizzazione. In realtà, i santi sono in mezzo a noi, anche se «ciò che saremo non è stato ancora rivelato» (1Gv 3,2). Essi appartengono in primo luogo alla terra, a quel popolo in cammino che viene dalla grande prova della vita e sale, in corteo ininterrotto, verso la città definitiva. Spesso rischiamo anche di considerare i santi come dei superuomini, che si elevano al di sopra dei comuni mortali con i loro miracoli e con un'eccezionale forza d'animo. Anche qui, se si guarda con maggior attenzione, ci si accorge che neppure in loro i difetti del carattere sono sempre vinti ed aboliti: anch'essi sono soggetti alle passioni umane, ma le mettono al servizio della santità. Perché la stessa santità non è che una passione convertita; adeguandosi alla nostra vocazione divina, essa diventa capace di operare in noi profonde trasformazioni, frutto della grazia e della libertà. S. Bernardo descriveva la chiesa, fra le due venute del Signore, come «ante et retro oculata». Con essa anche noi dobbiamo saper guardare indietro, verso l'ideale delle beatitudini, e nello stesso tempo rivolgere lo sguardo avanti, verso la folla dell'Apocalisse, a cui ci uniamo quando, con un gesto di uomini liberi, ci inginocchiamo davanti a quel Dio che vuole essere tutto in tutti.


ESAMINIAMO IL BRANO DELL'EVANGELO

vv. 1-2: In poche righe Matteo riesce a darci il quadro esterno del discorso: due cerchie di ascoltatori, la folla dietro e in primo piano i discepoli; il monte da cui scende la Parola; l'atteggiamento di Gesù; la qualifica di insegnamento del suo parlare.

«La folla»: Sta sullo sfondo, è presente come uditrice, pronta alla fine a stupirsi; è la moltitudine dei potenziali discepoli, ai quali la chiesa è mandata in missione a portare l'insegnamento di Gesù (cfr Mt 28,19-29). Il sommario della pericope 4,23-25 aveva adunato un pubblico per il Discorso sul Monte nominando i luoghi in cui molto probabilmente l'Evangelo di Matteo aveva cominciato a circolare (Siria, Galilea, la Decapoli, Gerusalemme e la Giudea, oltre il Giordano). L'accenno alle folle all'inizio (5,1) e al termine (7,28-29) del discorso fa da cornice all'insegnamento impartito da Gesù a Israele.

«I discepoli» (mathetai): L'accenno ai discepoli in 5,1 non esclude la folla. L'insegnamento del discorso non è inteso solo per il ristretto gruppo dei discepoli, che in ogni caso non sono necessariamente i «dodici apostoli», sono certo i dodici che hanno fatto vita comune con Cristo ma rappresentano anche i credenti della chiesa.

«Il monte»: Secondo alcuni si riferisce alla zona collinosa sovrastante la riva occidentale del lago di Tiberiade. Ma poiché Luca dà una circostanza topografica del tutto diversa è probabile che Matteo abbia voluto dare al celebre discorso una cornice teologica, più che topografica, richiamando alla mente dei lettori lo scenario in cui fu promulgata l'antica Legge. Il monte delle beatitudini è l'eco e la pienezza del monte Sinai; è il luogo della rivelazione divina [cfr. vocazione di Mosè sull'Oreb (Es 3,1ss); consegna della Legge sul Sinai (Es 19,1ss); il sacrificio del Carmelo (1 Re 18,20ss); Elia sull'Oreb (1Re 19,lss); la trasfigurazione (Mt 17,1-8); l'apparizione del risorto ai discepoli (Mt 28,16).

«messosi a sedere»: Si annota che Gesù parla stando seduto, è la posizione del maestro e la sua parola ha un timbro autorevole. Nelle scuole ebraiche il maestro si metteva a sedere su una panca con gli studenti seduti per terra davanti a lui. In Matteo, Gesù si mette a sedere su una barca (13,2) e sul Monte degli Ulivi (24,3). Matteo parla anche (letteralmente o simbolicamente) della (autorevole) «cattedra di Mose» (23,2). In Luca Gesù si mette a sedere per insegnare nella sinagoga di Nazaret (Lc 4,20).

«prendendo la parola li ammaestrava»: Letteralmente: «e aprendo la sua bocca insegnava», espressione semitica usata quando qualcuno sta per iniziare un discorso pubblico (Gb 3,1-2), un insegnamento pubblico (Sal 77,2) o una dichiarazione solenne (Gdc 11,35-36). Il verbo «insegnare» (edidasken) in Matteo è usato esclusivamente in questo discorso, qui e in 7,29. Il discorso è sapienziale anche nella formula, che rinvia al Sal 77,1ss: «Ascolta, popolo mio, la mia legge, porgi l'orecchio alle parole della mia bocca. Aprirò la mia bocca con una parabola, rievocherò gli enigmi dei tempi antichi. Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che egli ha compiuto. Ha stabilito un insegnamento in Giacobbe, ha posto una legge in Israele, che ha comandato ai nostri padri di far conoscere ai loro figli, perché la conosca la generazione futura, i figli che nasceranno. Essi poi si alzeranno a raccontarlo ai loro figli, perché ripongano in Dio la loro fiducia e non dimentichino le opere di Dio, ma custodiscano i suoi comandi» (cfr At 8,35; 10,34). Le parole di Gesù sono dunque un insegnamento, termine tecnico per indicare che Gesù è l'interprete autorizzato della Parola di Dio contenuta nelle sacre scritture dell'A.T.

vv. 3-11: Segue la proclamazione d'apertura, con 8 beatitudini (ma sono 9 se si considera quella riassuntiva del v. 11). In gr. makárioi è dire uno beato, makários è il beato. Noi traduciamo quest'espressione tante volte presente nei Salmi e nella sapienza di Israele con "beati" (dal greco makárioi, che gli evangeli prendono dalla versione dei LXX), ma purtroppo non abbiamo un termine italiano che ne sveli adeguatamente il contenuto. "Beati" non è un aggettivo, è un invito alla felicità, alla pienezza di vita, alla consapevolezza di una gioia che niente e nessuno può rapire né spegnere (cf. Gv 16,23). "Beati" ha anche il valore di "benedetti" (cf. Mt 25,34), in opposizione ai "guai" (cf. Mt 23,13-32; Lc 6,24-26), ma indica qualcosa che non è soltanto un'azione di Dio che rende giusti e salvati nel giorno del giudizio (cf. Sal 1,1; 41,2), ma che già da ora dà un senso, una speranza consapevole e gioiosa a chi è destinatario di tale parola. Promessa e programma! Nessuno dunque pensi alla beatitudine come a una gioia esente da prove e sofferenze, a uno "stare bene" mondano. No, la si deve comprendere come la possibilità di sperimentare che ciò che si è e si vive ha senso, fornisce una "convinzione", dà una ragione per cui vale la pena vivere. E certo questa felicità la si misura alla fine del percorso, della sequela, perché durante il cammino è presente, ma a volte può essere contraddetta dalle prove, dalle sofferenze, dalla passione.
L'A.T. è pieno di makárismòi, di proclamazioni di beatitudine: il Sal 1,1 lo pone in inizio; beato è Israele perché ha il Signore per suo Dio (cfr Dt 33,29; Sal 143,15) e lo sa acclamare (cfr. Sal 88,16); è beato l'uomo che ha acquisito la sapienza divina (cfr. Prov 3,13); ecc.
Ciascuna «beatitudine» dichiara che il possessore di questa caratteristica sarà «benedetto» da Dio. Una benedizione formale è un'azione divina, a volte effettuata per mezzo di un intermediario (sacerdote, re, genitore, ecc.). Le beatitudini sono usate di frequente nei libri sapienziali dell'AT (es.: Prov 3,13; 28,14). Le beatitudini del NT si riferiscono a un premio futuro (o escatologico), mentre le beatitudini sapienziali presuppongono che il premio sia già presente.
Il Programma divino per i «beati» è paradossale, quasi assurdo per la logica solo umana; se si legge l'elenco dei beati con termini correnti o con la morale corrente essi sono solo dei «disgraziati», dei falliti che la società del profitto e del successo vuol cancellare dalla faccia della terra. Il brano si presenta costruito con arte; ci si accorge subito della divisione in due strofe, simmetricamente disposte: i vv. 3-6 e 7-10. Ciascuna presenta quattro beatitudini; la promessa del regno ricorre all'inizio della prima strofa e alla fine della seconda (è una inclusione letteraria; vuol dire che tutte le benedizioni sono una realtà del Regno).

«beati i poveri quanto allo spirito»: Non in spirito (che purtroppo è la traduzione letterale), quasi fossero ricchi sciocchi che fanno finta di essere poveri, ma coloro che sono onesti, pii, praticanti la giustizia e aperti a Dio che li ricompenserà (cfr I lettura). Una traduzione più libera porta «coloro che hanno spirito di povertà» (= che hanno un'anima da poveri); la bibbia in lingua corrente porta «quelli che sono poveri davanti a Dio», indicando così coloro che nella vita hanno imparato a contare solo su Dio. La spiegazione è difficile; si vuole indicare l'atteggiamento religioso di colui che ha la viva coscienza del bisogno delle ricchezze di Dio, dei doni celesti di salvezza, dell'integrità della vita e dell'apertura agli altri. Si tratta di quelli che si lasciano fare poveri del tutto, economicamente e moralmente, ma da Dio. Accettano la situazione non per rinuncia, tutt'altro, bensì perché hanno finalmente conosciuto due fatti: confidare solo in Dio e che i beni materiali e morali sono il diaframma insidioso che impediscono di aderire a Dio ed ai suoi diritti. Sono gli «'anawìm» (- poveri) dell'A.T. che non hanno nessuna pretesa o falsi orgogli. Il rimando è ai testi di Is 57,15; 66,2; cfr Mt 11,29; 18,3.
Luca 6,20 ha soltanto «i poveri». Il termine ptochos denota un «accattone», non semplicemente una persona povera con pochi possedimenti. Le beatitudini devono essere lette in relazione alla tradizione anticotestamentaria della cura speciale che Dio ha per i poveri (vedi Es 22,25-27; 23,11; Lv 19,9-10; Dt 15,7-11; Is 61,1). La precisazione di Matteo «in spirito» serve a definire meglio i «poveri» come coloro che hanno riconosciuto nel regno di Dio un dono che non può essere forzato. Le espressioni «poveri» e «poveri in spirito» erano usate dai membri delle comunità ebraiche contemporanee per definire se stessi, come mostrano rispettivamente i Salmi di Salomone 10,6 [E i pii renderanno grazie nell'assemblea del popolo e Dio avrà pietà dei miseri con letizia di Israele]; 15,1 [Quando ero perseguitata ho invocato il nome del Signore, ho sperato nell'aiuto del Dio di Giacobbe e sono stata salvata: speranza e scampo per i miseri tu sei, o Dio.] e il Rotolo della guerra 14,7 di Qumran.

«di essi è il regno dei cieli»: La serie di beatitudini che si snoda dal v. 3 al 10 sono racchiusi dalla identica promessa, mentre i vv. 11-12 riprendono in una nuova forma il v. 10. Siamo di fronte ad una struttura letteraria detta inclusione.
Possiamo inoltre costatare che i vv. 3-10 sono composti di due parti completamente simmetriche (3-6; 7-10), che in greco hanno persino lo stesso numero di parole (questo ci conferma che siamo di fronte ad un brano molto elaborato e ritenuto molto importante dal redattore).
Il regno si riferisce al governo o alla sovranità di Dio. Qui predomina il suo significato escatologico, anche se non è esclusa la ricompensa al presente. Il termine «cielo» è un sostituto ebraico di «Dio» (vedi 1 Maccabei), probabilmente per non usare troppo liberamente il termine «Dio».

«gli afflitti»: Letteralmente penthountes = i piangenti, sono innanzi tutto coloro che soffrono per gli ostacoli posti dal mondo all'adempimento della volontà divina di salvezza (cf. Lc 4,16-22; Is 61,1-6); quanti soffrono per le miserande condizioni del mondo senza Dio o a lui avverso. Lo sfondo è Is 61,2-3, dove la missione del profeta è quella di confortare tutti coloro che piangono in Sion. L'occasione del loro pianto è la devastazione del Primo Tempio di Gerusalemme nel 587 a.C. Secondo Sir 48,24, Isaia «consolò gli afflitti di Sion». A questi Gesù promette consolazione (cfr. Lc 2,25), anzi Egli stesso asciugherà le loro lacrime (cfr. Ap 7,17, che cita Is 25,8; Ap 21,4).

«quelli che sono miti»: Lo sfondo è il Sal 37,11: «I miti invece possederanno la terra e godranno di una grande prosperità [pace]». Il termine ebraico per «i miti» ('anawìm) corrisponde sostanzialmente al termine «i poveri (in spirito)» di Mt 5,3. La comunità di Qumran ha preso il Sal 37,11 per una profezia della loro lotta contro i loro nemici (4QpPsa). Non sono dunque i pavidi o i timorosi, ma gli stessi poveri di spirito che accettano senza amarezza o rancore la loro condizione e trovano la forza nella serenità ed in una coraggiosa sopportazione (rileggi Sal 37,7-9.11.29.40).

«erediteranno la terra»: La «terra» non è necessariamente limitata al territorio di Israele. Nella letteratura apocalittica (vedi 1 Enoch 5,7) la promessa viene stesa fino ad abbracciare il mondo intero dato in dono ai giusti: «Per gli eletti ci sarà luce, gioia e pace, ed essi erediteranno la terra». Alcuni manoscritti mettono 5,5 subito dopo 5,3, riunendo in tal modo le due beatitudini relative agli 'anawìm e l'abbinamento cielo/terra.

«fame e sete»: La fame e la sete, nella bibbia (Is 55,1-2; Sal 42,2-3), indicano la tendenza a Dio e la nostalgia di lui. Lo sfondo è il Sal 107,5.8-9, che descrive come Dio abbia soddisfatto la fame e la sete degli Israeliti. Matteo ha ampliato la fonte Q (Lc 6,21) aggiungendo la «sete» (in conformità al Salmo 107) e «della giustizia» (per chiarire la natura della fame e della sete). La giustizia si riferisce in primo luogo alla giustizia di Dio, ma anche ai rapporti umani e alla condotta. In un contesto apocalittico la giustizia si riferisce alla rivendicazione dei giusti nel giudizio finale.

«di giustizia»: che è (per la bibbia) l'adempimento perseverante e fedele di ogni dovere verso Dio (cfr. Lc 1,6; Mt 1,19). Questi bisogni saranno saziati e non solo nel giudizio finale, la speranza si vede nell'apparizione del Messia, che è chiamato «YHWH nostra giustizia» (cfr. Ger 23,6; 33,16). Chiude il primo gruppo di beatitudini e ritornerà per chiudere poi il secondo gruppo (v. 10).

«i misericordiosi»: in gr. hoi eleèmones sono coloro che imitando Dio sanno comprendere e perdonare il prossimo secondo l'impegno evangelico che ripetiamo con la preghiera del Padre nostro (cfr. Mt 6,11-12.14-15).
Lo sfondo è Prov 14,21; 17,5 (LXX), dove la «benedizione» è il premio per la gentilezza mostrata ai poveri. La misericordia è prima di tutto un attributo di Dio, che a sua volta desidera di vedere la misericordia praticata dagli esseri umani. Matteo cita due volte Os 6,6: «poiché voglio l'amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti» a proposito del desiderio di Dio di vedere praticata la misericordia (9,13; 12,7) e include la misericordia tra «le prescrizioni più gravi della Legge» (23,23). La misericordia che ci si può aspettare di ricevere è quella al giudizio finale.
Oiktirmon ed Eleèmon, Tenero e Misericordioso è il Signore stesso (cfr. Es 34,6 qui in ebraico troviamo la radice rhm il cui verbo è connesso con il sostantivo rehem - seno materno e il plurale rahamin - viscere materne; Sal 102,8), il quale vuole che tutti i suoi figli siano eleèmonen (misericordiosi), il culmine della loro perfezione (cfr. Lc 6,36 e Mt 5,48). Questo concetto di Dio «misericordioso e pietoso» sarà spesso ripreso negli scritti biblici (Sal 85,15; 102,8; Giona 4,2; Gl 2,13; ecc.) e culminerà nella definizione di Gv «Dio è amore» (1 Gv 4,8.16).

«i puri di cuore»: Non riguarda solo la castità (coloro che custodiscono il 6° e 9° comandamento), ma anche la purezza della vita; indica chi opera non solo con carità ma anche con chiarezza, senza doppiezza (cf. Sal 24,3). Lo sfondo è il Sal 24,3-4, che descrive coloro che potranno salire «il monte del Signore» (il monte Sion), e sono quelli che hanno «mani innocenti e cuore puro».
L'espressione «cuore puro» non è né un riferimento dunque alla purità sessuale-rituale né alla sincerità, ma caratterizza le persone oneste la cui integrità morale si estende al loro essere interiore e le cui azioni sono coerenti con le intenzioni.
Per la bibbia il cuore è la sede della intelligenza, della volontà e dei sentimenti; nell'intimo dell'uomo infatti si annidia il male (cfr. Mc 7,21-23; Mt 23,27-28). Perciò «l'interno del piatto» dev'essere limpido, non tanto l'esterno (cfr. 23,25), poiché «dal cuore», cioè dall'intimo dell'uomo, «provengono pensieri malvagi, omicidi, adulteri, ecc.» (15,19). L'ideale evangelico della purezza «interiore» si ricollega espressamente alla predicazione dei profeti che insisteva sulla interiorità del culto e del servizio prestato a Dio (cfr. Am 4,1-5; Os 6,6; Is 1,10-17; ecc.). Da qui la preghiera del salmista: «Crea in me o Dio un cuore puro» (Sal 50,12).

«vedranno Dio»: Il «vedere Dio» qui non si riferisce più al visitare il Tempio di Gerusalemme, bensì al giudizio finale.

«gli operatori di pace»: Lo sfondo è l'idea anticotestamentaria di shalom intesa come la pienezza dei doni di Dio. Anche se qualsiasi pace viene da Dio e la pace perfetta sarà realizzata solo nel regno di Dio, il seguire Gesù al presente comporta la ricerca attiva della pace. I portatori di pace saranno invitati ad unirsi agli angeli («figli di Dio», vedi Gen 6,1-4) in occasione del giudizio finale.
"I portatori di pace" non sono dunque gli amanti del quieto vivere ma gli attivi operatori di pace, che agiscono come Dio stesso, perché Dio è il Dio della pace (Rm 16,20). L'uomo di pace per molti (ieri come oggi) è solo chi non fa la guerra. Oggi anche nella civile e tranquilla (sic?) Europa si chiamano ipocritamente "operatori di pace" i soldati che combattono vere guerre; passi l'America che ancora oggi come ieri nella sua violenta epopea western chiamava pacificatori quegli uomini che con una stella sul petto a colpi di pistola "pacificavano" le frontiere e gli "indiani ribelli" (quasi tutti!) affinché la civiltà potesse progredire anche nelle selvagge terre dell'ovest.
La scrittura loda l'uomo pacificato dentro!

«i perseguitati...»: È l'eco della prima beatitudine con la quale racchiude tutte le altre, contempla infatti la stessa prospettiva, «il regno».

«per la giustizia»: Il riferimento alla «giustizia» riecheggia la quarta beatitudine (5,6) e prepara il campo per l'esigenza della vera giustizia (5,20).

«perché di loro è il regno dei cieli»: La ricompensa lega questa beatitudine alla prima. Gli appartenenti alla comunità di Matteo probabilmente vedevano in questa beatitudine una descrizione delle restrizioni e dell'ostracismo sociale che dovevano sopportare per il loro modo inconsueto di vivere il giudaismo.

«quando vi insulteranno»: Il linguaggio passa dalla terza persona di Mt 5,3-10 alla seconda persona plurale (come nelle beatitudini Q di Lc 6,20-23). I verbi in Mt 5,11 («insulteranno ... perseguiteranno ... diranno») in confronto a Lc 6,22 («odieranno ... metteranno al bando ... insulteranno ... respingeranno») indicano che la comunità di Matteo è impegnata in un conflitto ancora in corso, mentre i verbi di Luca suggeriscono che la separazione era già avvenuta. Il passaggio dalla terza persona plurale alla seconda comporta anche il coinvolgimento diretto dei discepoli.

«mentendo»: Il participio pseudomenoi («che mentiscono») non si trova in Lc 6,20 né nei testi occidentali di Mt 5,11. Potrebbe essere stato inserito da un copista per limitare la generalizzazione. Ma questo potrebbe anche essere stato fatto dallo stesso evangelista.

«Rallegratevi ed esultate»: Chairete e agalliasthe due imperativi presenti che ordinano di continuare un'azione già iniziata; quella che ha visto prima Maria, la madre di Gesù, prima discepola beata (Lc 1,45) rallegrarsi all'annuncio dell'angelo (cf Lc 1,28) "il Signore è con te! Concepirai un figlio..." ed esultare (Lc 1,47) "l'anima mia magnifica il Signore ed il mio spirito esulta in Dio mio salvatore..." perché ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto. Oggi anche noi, discepoli del Signore Risorto, cantiamo sia nella divina liturgia latina (cfr Alleluia all'Evangelo) che bizantina (Lit. Dom. 30 gennaio): «Effrenèsto ta urania, agalliasto ta epìghia... Esultino i cieli e si rallegri la terra poiché il Signore operò potenza con il suo braccio: calpestando la morte con la morte, divenne il primogenito dei morti. Egli ci ha scampati dal profondo dell'inferno ed ha accordato al mondo la grande misericordia» (Lit. biz. Tropario della Resurrezione tono III).

«la vostra ricompensa»: L'idea che Dio ricompensa i perseguitati è presente anche in alcune opere ebraiche (1 Enoch 108,10; 4 Esdra 7,88-101). I cristiani sono perseguitati a causa di Gesù (5,11), mentre in 4 Esdra 7 vengono premiati coloro che soffrono per «la perfetta osservanza della Legge del Legislatore» (7,89). Il motivo della persecuzione dei profeti in passato è ripreso in Mt 23,29-30. Vedi 2 Cr 36,16: «Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l'ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio». Nella situazione venutasi a creare dopo il 70 d.C. questo commentario alla distruzione del Primo Tempio doveva apparire particolarmente appropriata.
La ricompensa dei discepoli e nostra è la grande misericordia (mega èleos): la partecipazione alla Resurrezione di Cristo Gesù, il Figlio di Dio.
Questi vv. che sono chiamati la «magna charta» del regno di Dio, terminano con un tono meno universale e astratto (davvero lo erano?), ma concreto e personale.
Sarà l'esperienza che i discepoli vivranno dopo la morte del Maestro.
Solo gli uomini di quelle categorie che abbiamo ora tracciato sono posti al centro del Regno: essi portano sul loro volto il Volto del Signore che soffre con loro, per renderli «perfetti come il Padre celeste» (Mt 5,48).
A rileggere bene l'elenco, si è colpiti da un fatto: l'anonimato. È beato chi si trova in questa o quella situazione, certo. Ma chi si trova in tutte quelle situazioni, ed insieme, e totalmente? Solo Cristo!
Lui è povero di spirito, sofferente, mite, ebbe fame e sete, è misericordioso, puro di cuore, pacifico, ha sopportato la persecuzione, la maledizione e la calunnia. Egli si pone come unico modello della beatitudine, e mostra che è possibile. Esistono quelli che accettano simili beatitudini?
Certamente! Solo che non compaiono mai ai posti di comando, non contano socialmente, economicamente. Si tratta della maggioranza di noi.

"La casa di Dio è una casa di uomini, non di superuomini. I cristiani non sono superuomini. E i santi neppure, anzi, meno ancora, perché sono i più umani degli uomini. I santi non sono sublimi, non hanno bisogno del sublime, anzi, è il sublime se mai che avrebbe bisogno di loro. I santi non sono eroi alla stregua dei grandi personaggi di Plutarco. Un eroe dà l'illusione di superare l'umanità, mentre il santo non la supera, l'assume. Si sforza di realizzarla nel miglior modo possibile. Capite la differenza? Si sforza di avvicinarsi il più possibile al suo modello, Gesù Cristo, cioè a colui che è stato perfettamente uomo con una semplicità perfetta, al punto da sconcertare gli eroi rassicurando gli altri, perché il Cristo non è morto soltanto per gli eroi, è morto anche per i deboli. Se i suoi amici lo dimenticano, non lo dimenticano i suoi nemici. È noto che i nazisti hanno sempre opposto alla santa agonia del Cristo nell'orto degli ulivi la morte gioiosa di tanti giovani eroi hitleriani. Il fatto è che il Cristo vuole aprire ai suoi martiri la via gloriosa di un trapasso senza paura, ma vuole anche precedere ciascuno di noi nelle tenebre dell'agonia mortale. La mano ferma, impavida, può cercare appoggio sulla sua spalla per compiere l'ultimo passo, ma la mano che trema è sicura di incontrare la sua.... Quelli che fanno molta fatica a comprendere la nostra fede sono quelli che si fanno un'idea troppo imperfetta della grande dignità dell'uomo nella creazione, al posto in cui Dio l'ha elevato per potervi discendere. Noi siamo creati a immagine e somiglianza di Dio, perché siamo capaci di amare. I santi hanno il genio dell'amore". (G. Bernanos - Romanziere e polemista francese (Parigi 1888-Neuilly-sur-Seine 1948). Autore del famoso "Diario di un curato di campagna" scritto nel1936 e tradotto in 20 lingue).

Colletta
Dio onnipotente ed eterno,
che doni alla tua Chiesa
la gioia di celebrare in un'unica festa
i meriti e la gloria di tutti i Santi,
concedi al tuo popolo,
per la comune intercessione di tanti nostri fratelli,
l'abbondanza della tua misericordia.
Per il nostro Signore...




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