Reciprocità: beatitudine del servire



Il diaconato in Italia n° 216
(maggio/giugno 2019)

CAMMINIO


Reciprocità: beatitudine del servire
di Luigi Vidoni

Il cammino di santità che il diacono è chiamato a percorrere ha nella dimensione del servizio la sua necessaria ed essenziale espressione, la sua icona nella lavanda dei piedi secondo l'esempio di Gesù, "Maestro e Signore". Sappiamo, inoltre, che «Gesù ha spiegato con tutta semplicità che cos’è essere santi, e lo ha fatto quando ci ha lasciato le Beatitudini. In esse si delinea il volto del Maestro, che siamo chiamati a far trasparire nella quotidianità della nostra vita» (GE 63).

Quando i beati stanno in cielo
Il termine usato nei Vangeli, makários/makárioi, che viene tradotto con "beato/beati" è un vocabolo molto forte che non indica una semplice felicità o una condizione di soddisfazione. Nel nostro linguaggio corrente, infatti, usando la parola beato pensiamo normalmente ai beati che sono in cielo e quindi fuori dalla nostra vita concreta, oppure la utilizziamo con una valenza proverbiale o ironica, come "beato lei che è riuscito ad andare in pensione…; beato te che non ti lamenti mai…".
In verità, quando Gesù parla di beatitudine non parla di una felicità o una soddisfazione passeggera, ma della realizzazione piena e profonda della persona: beato è colui che è "salvato", colui che è toccato dalla salvezza che viene da Dio nella pienezza del suo Regno, che partecipa qui ora, anche se non compiutamente, dell'unione con Dio.
Matteo e Luca riportano un elenco di beatitudini a cui si fa normalmente riferimento, mentre Giovanni ne elenca soltanto due, quella detta a Tommaso e rivolta ai futuri discepoli («beati quelli che non hanno visto e hanno creduto», Gv 20,29) e quella che riguarda il servizio, dove Gesù dichiara beati i discepoli che si laveranno i piedi gli uni gli altri sull'esempio del Maestro (cfr. Gv 13,17).
Senza nulla trascurare di quanto i sinottici ci dicono sulle beatitudini pronunciate da Gesù, mi è tuttavia stimolante porre l'attenzione sulle due beatitudini riportate da Giovanni. Per quanto riguarda la prima, il poter vedere Gesù è sempre il sogno di tutti noi. È il sogno dei giusti dell'Antico Testamento: «Il tuo volto, Signore, io cerco» (Sal 27/26,8), fino a gridare «Mostraci il tuo volto e noi saremo salvi» (Sal 80/79,20). Ma quel Dio invisibile, che non si può vedere senza morire (cf. Es 33,20), si è reso visibile in Gesù. «Chi ha visto me, ha visto il Padre», dirà Gesù a Filippo (Gv 14,9). Tornando alla beatitudine pronunciata dal Risorto davanti a Tommaso, possiamo notare che l'apostolo, che era assente quando apparve il Signore, non aveva creduto ai compagni che dicevano : «Abbiamo visto il Signore!» (Gv 20,25), che a loro volta non avevano creduto a Maria di Magdala che aveva detto loro: «Ho visto il Signore» (Gv 20,18). È curioso notare che queste persone, più che non credere al Signore risorto, non credono alla testimonianza di chi lo ha visto.

Cosa desideriamo vedere quando cerchiamo il Signore?
Se i cristiani sono quelli che amano il Signore senza averlo visto (cf. 1Pt 1,8), è pur vero che noi desideriamo il suo volto nella speranza di contemplarlo faccia a faccia nel "giorno del Signore". Tuttavia, in questa "assenza del volto" che nessuno può compiutamente riempire, il Signore ci ha lasciato tracce del suo volto, impronte di una presenza impresse ancora e sempre in un volto che, per essere percepito, richiede un itinerario e soprattutto degli occhi capaci di scorgere dietro un volto umano il suo Volto. «Chi accoglie voi accoglie me» (Mt 10,40) ha detto Gesù agli apostoli; e, in altra occasione: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25,40).
Queste parole ci fanno comprendere che non si può amare Dio che non si vede, se non si ama il fratello che si vede (cf. 1Gv 4,20). Anche da questi pochi accenni è possibile cogliere il legame che intercorre tra le due beatitudini riportate da Giovanni: il prossimo è come il tramite per poter sperimentare ed entrare nella beatitudine offerta da Gesù.

Il servizio reciproco
La seconda beatitudine, poi, è legata direttamente al servizio, ed in modo speciale al "servizio reciproco". Leggiamo il passo: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine. Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugamano di cui si era cinto. Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: "Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi. In verità, in verità io vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica"» (Gv 13,1-5.12-17). Questa beatitudine, di cui parla Gesù, si realizza nel "mettere in pratica" ed è una beatitudine rivolta ad un servizio concreto, anzi ad un servizio che trova la sua espressione più genuina nella reciprocità: «Anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri». L'imitazione, infatti, che Gesù ci chiede non consiste nel ripetere pedestremente il suo gesto, anche se è bene averlo sempre presente come esempio a cui continuamente ispirarsi. Consiste, piuttosto, nel comprendere che imitare Gesù significa che noi, come cristiani, abbiamo senso se viviamo "per" gli altri, se comprendiamo la nostra esistenza come un servizio reso ai fratelli.
Infatti, la rivelazione di Gesù sull'amore del prossimo si esprime in maniera completa nel "suo" comandamento: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Gv 15,12); e «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). Il comandamento di Gesù comporta quindi la reciprocità. Ne consegue che il nostro amore per il prossimo, non sarà perfetto, non sarà pieno, se non sarà vissuto in reciprocità con altri discepoli di Gesù, dove anche l'amore umano parteciperà a quella comunione di amore che sussiste nella Trinità.

Dove sperimentare la presenza e l'unione con Dio?
Un amore così però non potrà realizzarsi senza l'effusione dello Spirito Santo, senza che il Risorto stesso col suo Spirito sia spiritualmente presente in mezzo ai suoi discepoli. Nasce, di conseguenza, l'esigenza di fare dell'«altro», del servizio al prossimo, la via per un cammino di santità, anzi di fare della reciprocità dell'amore il luogo dove si possa sperimentare la presenza e l'unione con Dio: da un cammino personale verso il centro dell'anima dove dimora Dio e da cammino verso il fratello da servire nel quale si riconosce Cristo, verso un cammino comunitario che riscopre, per la grazia dello Spirito, l'unione tra i fratelli come luogo della presenza del Risorto.

La spiritualità di comunione
Non solo ogni cristiano è tempio di Dio, ma lo siamo anche tutti insieme, pietre vive del nuovo tempio in cui Dio vive (cf. 1Pt 2,5). Da qui nasce la possibilità di sperimentare l'unione con Dio dove il prossimo non è più soltanto una persona da servire, da amare, ma anche da coinvolgere nella reciprocità dell'amore, perché solo in questa reciprocità si può vivere l'amore che è tipico di Dio, della Trinità. Questa originale prospettiva del servizio ci porta a promuovere nella Chiesa una spiritualità di comunione, secondo quanto ha scritto Giovanni Paolo II: «Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo. […] Spiritualità della comunione significa innanzitutto sguardo del cuore portato nel mistero della Trinità che abita in noi, e la cui luce va colta sul volto dei fratelli che ci stanno accanto. Spiritualità della comunione significa inoltre capacità di sentire il fratello di fede nell'unità profonda del Corpo mistico, dunque, come "uno che mi appartiene", per saper condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia. Spiritualità della comunione è pure capacità di vedere innanzitutto ciò che di positivo c'è nell'altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio: un "dono per me", oltre che per il fratello che lo ha direttamente ricevuto. Spiritualità della comunione è infine saper "fare spazio" al fratello, portando "i pesi gli uni degli altri" (Gal 6,2) e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie. Non ci facciamo illusioni: senza questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz'anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita» (NMI, 43).
È una spiritualità del "noi". Anzi, la "mistica del noi" di cui parla papa Francesco si muove sull'onda di questa "spiritualità di comunione". In questa via della comunione si cammina insieme e si raggiunge l'unione con Dio "in cordata", uniti gli uni agli altri come membri di un medesimo corpo, avendo stabilito con i fratelli e le sorelle rapporti improntati alla mutua e continua carità, secondo il monito di san Pietro: «Soprattutto conservate tra voi una fervente carità» (1Pt 4,8). L'incontro con gli altri diventa così un momento di raccoglimento in Dio e il rapporto con loro una fonte di grazia e di unione con il mistero della Trinità.
Papa Francesco scrive nella Evangelii gaudium: «Quando viviamo la mistica di avvicinarsi agli altri con l'intento di cercare il loro bene, allarghiamo la nostra interiorità per ricevere i più bei regali del Signore. Ogni volta che ci incontriamo con un essere umano nell'amore, ci mettiamo nella condizione di scoprire qualcosa di nuovo riguardo a Dio. Ogni volta che apriamo gli occhi per riconoscere l'altro viene maggiormente illuminata la fede per riconoscere Dio» (EG, 272). In questo cammino di vita, dove non tutto è dato per scontato, si rivela indispensabile un rinnovato e costante atteggiamento di perdono, dove occorre mettere in preventivo gli sbagli degli altri, e quindi ad essere pronti, secondo la norma data da Gesù alla sua comunità, a perdonare settanta volte sette (cf. Mt 18,22).
Il perdono, inoltre, implica la rinuncia ad imbrigliare l'altro in propri schemi rigidi, perché l'amore dà fiducia e crede nella possibilità di rinnovarsi, perché l'amore «tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1Cor 13,7). Ognuno, poi, deve poter contare sul perdono degli altri e sulla loro misericordia.

Non possiamo servire impacciati dalle vesti di autoreferenzialità
È utopia? Se noi vogliamo essere partecipi della beatitudine offertaci da Gesù, occorre seguire l'esempio del Maestro che «si alzò da tavola e depose le vesti» (Gv 13,4). Occorre alzarsi e togliersi le vesti, perché non si può servire impacciati da troppe "vesti" di cui siamo ricoperti, che sono il nostro orgoglio, le nostre aspettative, il nostro desiderio di riconoscimento, la nostra tendenza all'autoreferenzialità. Occorre spogliarsi per poter «farsi tutto a tutti» (cf. 1Cor 9,22), sull'esempio di Gesù che «svuotò se stesso» (Fil 2,7), condividendo tutto di noi: Lui che non conosceva peccato si è fatto peccato per noi (cf. 2Cor 5,21), ha provato la nostra separazione dal Padre (cf. Mc 15,34), si è sottoposto alla nostra stessa morte.
La nostra condivisione, sul modello di quella di Cristo, è data da un reale «portare i pesi gli uni degli altri» (cf. Gal 6,2), condizione essenziale per far sì che il nostro servizio rivolto agli altri diventi, da dimensione unidirezionale, un servizio reciproco, in cui possiamo «lavarci i piedi gli uni gli altri». Non c'è, infatti, comunione vera se non si accetta di entrare nella vita dell'altro e se non si consente all'altro di entrare nella nostra.


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