Farsi santi nel nostro servizio al prossimo



Il diaconato in Italia n° 215
(marzo/aprile 2019)

CAMMINIO


Farsi santi nel nostro servizio al prossimo
di Luigi Vidoni

La chiamata universale alla santità ha la sua fonte nel Battesimo, «dove siamo fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi»(LG 4), e «chiamati a conformarci all'immagine del Figlio» (cf. Rm 8,29). In particolare per il diacono, questa conformazione a Cristo assume un carattere specifico, il servizio. Infatti, chi è chiamato ad essere nella comunità degli uomini, ed in particolare in quella dei credenti, segno sacramentale di Cristo Servo tende a realizzare le parole di Gesù: «Il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45).
Il cammino di santità del diacono passa, quindi, attraverso l'esercizio di quella carità che lo rende prossimo ad ogni fratello, soprattutto l'ultimo e il più bisognoso. E nel servizio affina le virtù tipiche di ogni cammino di santità: l'umiltà, la povertà, il distacco da sé, la perfezione della carità, l'unione con Dio. L'unione con Dio, alimentata nella preghiera, trova la sua "continuità" nel Dio incontrato ed amato nei prossimi che è chiamato a servire e per i quali vuole donare la propria vita.

Come realizzare l'impegno ascetico di santità?
È una cammino particolare: il diacono, che nella maggioranza dei casi è sposato, esercita una professione ed è immerso totalmente nella vita del mondo, non è chiamato a realizzare l'impegno ascetico di santità (il disprezzo delle vanità del mondo, l'amore al sacrificio, il fervore della penitenza, il sopportare le avversità, la rinuncia a se stessi…, qualità descritte nel libro L'imitazione di Cristo) attraverso una vita monastica e separata dal mondo. È chiamato a rimanere in mezzo al mondo e ad arrivare a Dio attraverso il fratello, attraverso l'amore al prossimo e l'amore reciproco, cioè nel servizio. Impegnandosi a camminare in questa via evangelica il diacono potrà trovare arricchita la propria anima di tutte queste virtù.
Il disprezzo delle vanità del mondo: non c'è miglior disprezzo che l'oblio e la noncuranza. Se siamo tutti tesi a pensare agli altri, ad amare gli altri, non ci curiamo del mondo, lo dimentichiamo. L'amore al sacrificio: amare gli altri significa proprio sacrificare se stessi per dedicarsi ai fratelli. Il fervore della penitenza: è una via, quella della carità al prossimo, nella quale si può sperimentare la migliore e principale penitenza. La rinuncia a se stessi: nell'amore verso gli altri c'è sempre implicita la rinuncia a se stessi. Sopportare le avversità: molti dolori sono causati dalla convivenza con gli altri. Nel saper sopportare tutti ed amarli per amore di Cristo si potranno superare molti ostacoli della vita.

Solo con la grazia dell'incontro personale con Dio
È certo che ogni autentico cammino ascetico porta in sé la grazia dell'incontro personale con Dio. E il Dio che abita la propria anima è lo stesso Dio presente nel fratello: è lo stesso Cristo, il Figlio nel quale è tutta la pienezza della Trinità. Ogni incontro col prossimo è un incontro con Gesù, nella consapevolezza che l'incontro col fratello, che magari ci procura sofferenza, è anche un incontro intimo con Gesù dentro di noi. Occorre per questo che il nostro cuore si dilati nella misura del cuore di Cristo. E questo comporta sacrificio, fatica, sforzo quotidiano. Si tratta, infatti, di amare e servire ogni prossimo che ci viene accanto come Dio lo ama. È un amore disinteressato, senza condizionamenti, perché è lo stesso Gesù che si ama, presente in me e nel fratello che incontro. Coltivando in cuore un amore puro, manteniamo viva in noi la castità di Dio, che ha la sua sorgente nello Spirito Santo. Amare con questa intensità ci libera il cuore e ci impegna a non reprimervi l'amore ma a dilatarlo sul cuore di Cristo, e, di conseguenza, ad amare tutti, senza distinzione alcuna, persino il nemico.

L'alito divino
Il prossimo, ogni persona, diventa, così, "sacramento" dell'amore di Dio.
Ma occorre coltivare una profonda interiorità, sull'esempio di Maria, la Serva del Signore, nel suo "vivere dentro". Perché anche il nostro "vivere fuori", proiettati nei prossimi, se non è corretto e sostenuto da una molla spirituale che attira l'anima nel suo profondo, può diventare motivo di evasione, divagazione, o peggio di chiacchiera..., quando invece il prossimo che incontriamo dovrebbe poter respirare, anche senza saperlo, un alito di divino.
C'è un modo semplice di poter attuare ciò: imitare Gesù che nel suo "svuotarsi", quando si è fatto uno di noi, non considerò un privilegio il suo essere come Dio, ma si è fatto servo di tutti, fino al dono della propria vita (cf. Fil 2,6-8). "Farsi prossimo", secondo l'esempio di Paolo: «Pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero... Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1Cor 9,19.22). "Farsi uno" con chi ho davanti, con chi devo servire. Per poter attuare ciò in modo fruttuoso occorre avvicinare il prossimo con l'animo totalmente "spoglio" di sé. E questa è ascetica! Non c'è miglior "silenzio" (virtù necessaria per chi vuole impegnarsi in un serio cammino di santità) di quello che dobbiamo avere di fronte ad un prossimo, nell'ascolto. Non si può entrare, infatti, nell'animo di un fratello per comprenderlo, per condividere il suo dolore, se il nostro spirito è ricco, per così dire, di una apprensione, di un giudizio…, di qualunque cosa. Il "farsi uno" esige l'essere "poveri in Spirito", sapendo dimenticare anche il bello che invade la nostra anima per essere pronti a saper morire per l'altro, in una morte spirituale, del proprio io, per sperimentare il perdere Dio in sé per il Dio presente nel prossimo; e rientrare poi in noi stessi invasi dalla pienezza che viene dallo Spirito in una unione più intensa col Padre. Agendo così, in questo cammino di santità, semplice ma impegnativo, si può raggiungere quel "nulla di sé" cui aspirano le grandi spiritualità.

Morire a se stessi
Si sperimenta di "passare dalla morte alla vita, perché si amano i fratelli" (cf. 1Gv 3,13), sapendo che questo è possibile ogni giorno, sempre. Se il prossimo è, per così dire, il sacramento che ci mette in contatto con Dio, allora ogni prossimo che ci passa accanto, qualsiasi prossimo, non è da vedersi soltanto come un beneficiato da noi, ma come uno che realmente benefica noi, facendoci incontrare con Dio e sperimentare la sua presenza.

Il luogo privilegiato della comunità diaconale
L'amore al prossimo vissuto nell'imitazione di Cristo, quando è ricambiato, diventa reciproco, attuando così le parole di Gesù: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). Ora esiste un luogo privilegiato, oltre alla famiglia, dove poter sperimentare il dono dello Spirito nella reciprocità della carità, per poter poi "uscire" con maggior frutto a servizio del prossimo: la comunità diaconale. Essa «è un balsamo che sostiene e stimola la generosità nel ministero», dove il diacono può «sperimentare la collaborazione fraterna e la condivisione spirituale» (cf. Ratio 76), il luogo dove poter vivere e rinnovare continuamente la reciproca carità, in un cammino di santità fatto "insieme".

Per essere una cosa sola
In questo contesto di fraternità sono facilitato a far sì che il mio essere "per gli altri" abbia il suo fondamento nella configurazione esistenziale, e non solo sacramentale, a Cristo. Nella misura in cui io "sono" (sono diacono - amore concreto - servizio puro - altro Cristo, fatto partecipe della sua kenosi) gli altri "sono", non solo singolarmente, ma anche come comunità. Questo comporta il mio "non essere", il mio "scomparire". Essere, in una parola, "nulla", un nulla d'amore che contribuisce a far generare, per la grazia del sacramento dell'ordine, la comunità.
"Io sono gli altri!" potrebbe essere il leitmotiv della vita e della missione del diacono, nel senso che il mio "non-essere", come detto sopra, fa "essere" gli altri, fa loro sperimentare l'amore di Dio, fa sperimentare il loro essere comunità. La dinamica del diacono, infatti, è l'amore che si annulla - che si fa uno con l'altro -, facendo sì che gli altri prendano coscienza (e quindi "siano"), non solo di sentirsi realizzati come persone, ma di essere comunità, chiesa.
"Io sono gli altri"... Io sono quella comunità che sono chiamato a servire e per la quale devo dare la vita, come il chicco di grano che muore per dar vita alla spiga. Da qui la convinzione profonda, che coinvolge tutta la propria vita spirituale e pastorale, che il diacono è tale non tanto per quello che fa, ma per quello che è!


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