Lectio divina
Abbazia di Santa Maria di Pulsano (FG)
(10 giugno 2019)
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ANNO C - Domenica I dopo Pentecoste
DOMENICA «DELLA SANTISSIMA TRINITÀ»
Proverbi Pr 8,22-31 • Salmo 8 • Romani 5,1-5 • Giovanni 16,12-15
(Visualizza i brani delle Letture)
Celebrare la SS. Trinità sollecita in noi il desiderio di conoscerla e questa ci risponde, perché Dio fa sempre il primo passo verso di noi. Quest'anno, viene accentuato in modo particolare il fatto che Dio si manifesta, si rivela, si fa conoscere e ci offre una conoscenza «personale».
Gli uomini poi hanno sempre bisogno di speranza. Questa speranza gli uomini l'hanno concreta nel Cristo. Dio li ha «giustificati» nel Figlio suo: in lui ha compiuto quest'opera di liberazione, di restaurazione, di «rettifica», che è la «redenzione». Questa è «cosa fatta», non più da sperare perché già realizzata, e capace di influire su tutto il futuro; di essa sono segno e frutto la pace, la fede, la grazia. Speranza certa, di cui Dio ci ha dato la garanzia, e questa garanzia è l'amore che è stato infuso nei nostri cuori ad opera dello Spirito di Dio. Il dinamismo della rivelazione di Dio sta in questo: Dio ha impegnato tutto se stesso per salvarci. Si sono impegnate le tre Persone divine, con aspetti e modalità personali distinte, per un'opera che è un tutt'uno come un tutt'uno è Dio. Padre, Figlio e Spirito Santo si rivelano proprio facendoci conoscere ciò che ciascuno fa per noi.
Gli apostoli si sono lasciati prendere dalla tristezza: Gesù sta per lasciarli. Sono più impressionati di questo che non delle cose meravigliose che egli ha detto loro nell'ultima cena; sono preoccupati più dei fatto che egli li «lascia», che non del perché e del «senso» che ha questo «lasciarli». Gesù spiega il profondo significato della sua partenza: è più una trasformazione che non un distacco, più una manifestazione che non un nascondersi. Gesù che «va», è Gesù che «manda» da parte del Padre lo Spirito. E lo Spirito è la perenne manifestazione di Gesù, del Figlio di Dio fatto Figlio dell'uomo per salvare gli Uomini. Lo Spirito testimonierà con la sua luce e la sua forza di amore che Cristo è sempre presente e operante, che Cristo sempre comunica lo Spirito, perché lo Spirito faccia conoscere che l'opera di Cristo è opera di amore: amore di lui che si è offerto, amore del Padre che lo ha dato. La Trinità si manifesta massimamente nel comunicare agli uomini lo Spirito di amore, perché gli uomini, amandosi come Cristo li ha amati, amino Dio ed entrino in intimità con la divina Comunità di amore.
Dall'eucologia:
Antifona d'Ingresso
Sia benedetto Dio Padre,
e l'unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito Santo:
perché grande è il suo amore per noi.
Canto all'Evangelo Ap 1,8
Alleluia, alleluia.
Gloria al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo:
a Dio che è, che era e che viene.
Alleluia.
L'antifona d'ingresso è la classica benedizione ebraica rivolta al Signore Unico che opera verso l'uomo la Bontà sua dell'alleanza divina. Il Signore Unico è acclamato nella Trinità delle Persone, nelle quali tutto e per intero sussiste in eterno, si manifesta agli uomini ed essi lo amano, contemplano, adorano con un atto unico indivisibile.
Il canto all'Evangelo è la dossologia trinitaria più più nota ed usata: il «Gloria al Padre» integrato con Ap 1,8.
Compiuti i giorni pasquali, portati a pienezza dal giorno di Pentecoste, si chiude il Tempo di Pasqua e si riapre quello Ordinario.
Le prime due domeniche sono dedicate a due solennità che non hanno una data fissa nel calendario e la loro celebrazione è fissata nelle due domeniche seguenti la domenica di Pentecoste: la Santissima Trinità e il Ss. Corpo e Sangue di Cristo. Il tempo durante l'anno o Tempo Ordinario è considerato come un tempo minore o «non forte», come se i periodi privilegiati di Avvento, di Quaresima e di Pasqua fossero gli unici ad avere diritto di cittadinanza nell'anno liturgico. È un tempo che sembrerebbe meno importante degli altri; è chiamato «ordinario» perché non è caratterizzato da nessuna festa particolare, tuttavia è un tempo importante perché senza di esso la celebrazione del mistero di Cristo e la progressiva assimilazione dei cristiani a questo mistero sarebbero ridotte a puri episodi isolati invece di impregnare tutta l'esistenza dei fedeli e delle comunità.
In un certo modo la forza di tale tempo non sta solo in qualche Domenica chiave, ma in tutte le trentatré o trentaquattro Domeniche in cui il mistero di Cristo viene contemplato nella sua globalità.
L'attuale calendario liturgico, per rivalorizzare il giorno del Signore, garantire continuità e progressivo approfondimento, ha escluso l'assegnazione perpetua alla domenica di qualsiasi celebrazione, fatta eccezione per le solennità della Ss. Trinità, il Corpo di Cristo e Gesù Cristo Re.
Naturalmente, tutte queste solennità, dalla loro particolare prospettiva, sono celebrazioni dell'unico mistero pasquale che determina tutto l'anno liturgico.
La riforma liturgica ha dotato queste solennità di tre serie di letture, una per ogni anno, così che ogni solennità ha nove letture. Nei tre anni del ciclo liturgico la lettura evangelica, della solennità della Ss. Trinità, evidenzia successivamente ciascuna delle tre Persone divine. In quest'anno C, il brano preso da Giovanni propone soprattutto lo Spirito Santo. In questo brano del secondo discorso dell'ultima cena Gesù torna sulla promessa dello Spirito Santo: mentre nel primo discorso aveva annunciato l'opera a favore della comunità dei discepoli (14,16-17.25-26), adesso ne prospetta la testimonianza di fronte al mondo, che opererà in un duplice modo (cf Gv 14,6):
La pericope di oggi narra della quinta volta di questo evento (cfr Gv 14,15-17; 14,25-26; 15,26-27; 16,5-11). I destinatari del messaggio furono allora le comunità cristiane del primo secolo ma, insieme con loro, sono tutte le successive comunità impegnate nella lotta contro il male e nella propria crescita; anche noi quindi qui ed oggi.
La prima lettura parla della Sapienza divina creatrice del mondo, che nella tradizione cristiana è riletta come simbolo del Cristo «per mezzo del quale tutto è stato fatto e senza del quale nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste» (cf Gv 1,3). La tradizione cristiana orientale ha invece intravisto in quella personificazione anche i lineamenti dello Spirito Santo sulla scia del Salmo 104,30 («Mandi il tuo Spirito ed essi sono creati e rinnovi la faccia della terra»).
La presenza divina nella creazione è tuttavia il vero tema di questo inno del libro dei Proverbi; la Sapienza di Dio è dipinta con una vera e propria cascata di immagini cosmiche che incarnano 1'armonia del progetto divino. Ma la raffigurazione più originale è quella finale in cui la Sapienza è rappresentata mentre danza con i figli dell'uomo.
Per Dio creare è una festa, è gioia, è pace; l'uomo che sa scoprire il mistero dell'essere partecipa a questa armonia e a questa felicità divina (cf Salmo responsoriale dove l'orante deduce, stupito dalla contemplazione del creato, la sublime dignità dell'uomo, molto vicina a quella della Sapienza). Anche la seconda lettura, il brano della lettera ai Romani, è di ampio respiro trinitario, ma in particolare Paolo ricorda che lo Spirito Santo sta alla radice della speranza e della carità diffuse nei nostri cuori.
Nel complesso le letture di questa domenica non sono facilissime, come del resto non è facile la verità teologica che oggi viene celebrata: il mistero della Trinità; noi affermiamo ogni domenica nel Credo la nostra fede trinitaria, ma molti anche praticanti confessano, se non proprio dubbi, per lo meno l'insignificanza di questa dottrina per la vita quotidiana del credente.
Occorre sgomberare il campo da un diffuso senso del mistero che è confuso con un falso senso di rispetto che ci tiene a distanza da Dio.
«Mistero» non significa, come comunemente si pensa, «qualcosa che non si capisce» e che quindi ben difficilmente può avere senso per noi, ma piuttosto la realtà salvifica che Dio liberamente rivela, come ci ricorda il Concilio Vaticano II [Nota: «Piacque a Dio far conoscere il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini, per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono così resi partecipi della sua divina natura» (Dei Verbum n. 2).]. Così pensando noi siamo ancora prigionieri dell'immagine distorta che di Dio fornisce il serpente: un Dio geloso che vorrebbe precluderci la via della conoscenza (cf Gen 3,4-5). Dio invece vuole darsi a conoscere: tutta la Bibbia ne è testimonianza.
I santi e i mistici non si sono mai fatto scrupolo e non hanno mai avuto timore di indagare il mistero della Trinità; Sant'Agostino che pure afferma: «se lo comprendessi, non sarebbe Dio» (cf Sermones 52,6,16), dedica a questo tema una delle sue opere più belle, il De Trinitate.
Proprio Agostino ci ha lasciato una splendida intuizione della Trinità d'amore: «Le persone divine sono tre, la prima che ama quella che da lei nasce, la seconda che ama quella da cui nasce e la terza che è lo stesso amore» (cf De Trinitate VI,5,7). Possiamo anche trovare formule nuove ma il messaggio centrale ci dice che Dio è relazione, già in se stesso è un Dio che si comunica e che ama, un Dio che si apre all'altro da sé: crea, si rivela, si incarna.
Già Paolo nella seconda lettura ha operato una delle sue audaci sintesi: la fede, la grazia, la gloria, la speranza, l'amore sono interdipendenti, in una circolarità che è la stessa tra le persone divine.
Gesù Cristo ci ha riconciliati, lo Spirito d'amore fonda la nostra speranza, la gloria del Padre è la realtà della salvezza promessa: pur nella difficoltà delle parole, ci sentiamo come circondati in un abbraccio che ci sostiene. Dio non è un idolo, non è una filosofia, non è una formula: è comunione, partecipazione, dialogo e per questo non ci opprime, ma ci viene incontro con infinite manifestazioni. Questa è la «Trinità economica»: un movimento d'amore con cui Dio ci chiama a sé, ci «divinizza», come spesso dicono i cristiani delle Chiese orientali.
La pericope evangelica (ancora una scelta operata dopo per sostenere il tema della Domenica) è inserita nel gruppo di versetti 4-20 dove l'argomento e la forma letteraria di questo passo sono dominati dalle parole di Gesù sul Paráclito nei vv. 7-15. A queste parole è premessa una breve introduzione nella quale Gesù insiste sulla sua partenza (vv. 4-6) e riprende questo tema dopo le sue parole sul Paráclito per concludere questa suddivisione (vv. 16-20). I vv. 4-20 presentano quindi il seguente svolgimento:
ESAMINIAMO IL BRANO DELL'EVANGELO
v. 12 - «Molte cose ho ancora da dirvi…»: Gesù avverte i discepoli che avrebbe ancora da rivelare e spiegare «polla, molti fatti», il suo parlare, légo, potrebbe proseguire all'infinito. Però arti, adesso, a queste condizioni di preparazione dei discepoli, ma soprattutto per lo sconvolgimento di cui saranno vittime tra poco a causa della croce, essi non hanno la forza di "portarle"; qui il verbo è bastàio, che indica assumersi un gravoso peso e portarlo, come è usato per il gravoso lavoro degli scaricatori. Si tratta in effetti di un peso insopportabile per le loro fragili forze di "adesso", e tuttavia questo suppone e promette già un "dopo" positivo.
Paolo (1Cor 3,1-2) oppone ai Corinzi le stesse parole di Gesù: «ancora non potevate» ricevere dottrine dello Spirito Santo, e perciò per ora parla pedagogicamente di rudimenti, in attesa che l'intelligenza che dà lo Spirito Santo salga in essi di livello. Lo stesso contesta un discepolo geniale di Paolo, questa volta parlando a Ebrei, che conoscono almeno l'A. T.: «di questo [ossia della redenzione operata da Cristo Sommo Sacerdote], il discorso è ingente e da parlare con difficile interpretazione, poiché voi siete diventati deboli nell'ascoltare, e mentre dovreste essere maestri per il tempo trascorso, avete sempre necessità di essere istruiti...», e prosegue con un motivato rimprovero, che con loro occorre partire sempre dall'elementarità, senza poter salire verso «le realtà più perfette» (Eb 5,11-6,3). Ma lo stesso avviene anche nelle comunità petrine (1Pt 2,2). E, in forma macroscopica e nonostante tutto, nelle nostre comunità oggi. Ma allora, che si deve fare, anzi: che cosa serve? Gesù lo sa bene, e adesso lo annuncia e lo spiega. Occorre attendere quando sarà venuto "Lui", lo Spirito Santo, anzitutto, in un Evento che dà per scontato.
v. 13 - «Quando verrà lui»: In secondo luogo chiama lo Spirito Santo con il pronome maschile ekéinos, per indicare che si tratta di un'autentica Persona, e non di una "cosa", di una specie di flusso, che vorrebbe il pronome al neutro. Quindi, si tratta della Terza Persona divina, nell'Unità vivente e sussistente che forma insieme con il Padre e con il Figlio. In terzo luogo, il verbo «viene, érchomai», è uno dei tipici verbi attivi della Divinità. Già nell'A. T. il Signore Vivente "viene" di continuo in mezzo al suo popolo, come si afferma in testi senza numero, dall'esodo per risalire alla creazione e giungere alla vita del popolo nella terra promessa, fino a dopo l'esilio. Nel N. T. Gesù, tra i nomi con cui è designato dalla Comunità, è chiamato «ho Erchómenos, il Veniente», Colui che viene da presso il Padre, per riportare tutti, con azione irresistibile, nella sua Umanità al Padre. Adesso anche lo Spirito del Signore si serve della sua libertà sovrana, propriamente divina, e con iniziativa personale "viene", al tempo aoristo per indicare la storia inevitabile, precisa, puntuale, con effetti permanenti.
«lo Spirito della verità»: Lo Spirito Santo che è la Verità di Dio, come è esplicitamente affermato in 1Gv 5,6. Poiché la Verità divina, che è la Vita eterna, è da donare agli uomini. Tale Verità si manifesta appunto in Cristo stesso anche come «la Via» e «la Vita» (14,6). È anche Cristo stesso con tutto il suo Evento e la sua Parola che comunica da parte del Padre. E anche il Padre è la Verità (Gv 3,33), Principio e la Fonte di essa. Lo Spirito Santo è in specie addetto a Cristo, Persona divina a Persona divina. E la sua azione precisamente consiste nel condurre.
«vi guiderà a tutta la verità»: La meta è «la Verità intera». È condurre a Cristo nella sua totalità. Il rapporto dei discepoli con Gesù che vedono, è ancora parziale. Esiste ancora in loro un diaframma spirituale e mentale da cui debbono liberarsi per l'adesione di amore pieno al Signore. Questa sarà opera solo dello Spirito Santo. Quest'opera tuttavia si presenta in forma strana per gli uomini.
«non parlerà da se stesso…»: È interessante notare che in questo ultimo brano l'evangelista descrive il dinamismo dello Spirito utilizzando una carrellata di verbi: venire, guidare, parlare, dire, annunziare, prendere. Tuttavia, lo Spirito non gode di autonomia alcuna nella sua funzione di annuncio: non parla da sé, ma 'prende' quanto è proprio di Gesù, ciò che lo costituisce Figlio inviato dal Padre. La 'gloria' di Dio, rivelata nel volto del Figlio, continuerà ad essere svelata dalla presenza dello Spirito. La gloria non appartiene al Figlio come la rivelazione dello Spirito non ha la sua origine in Gesù: entrambi conducono ad un 'oltre', a Colui che li ha inviati: il Padre (14,16.26; 15,26).
Lo Spirito Santo "viene" in modo autonomo, sovrano, eppure «non parla a partire da se stesso». È autonomo nell'operare divinamente, non è autonomo quanto ai contenuti della sua operazione. È Dio umile e obbediente a Dio, in vista della «Verità intera». La quale è una Persona parlata per così dire dal Padre, è il Verbo del Padre, che lo Spirito Santo "ascolta" presso il Padre, nel divino indicibile eterno Dialogo tripolare interpersonale interreciproco interinfinito. E così lo Spirito Santo parla solo «quanto ascolta». Colui che ascolta, agli uomini, i discepoli fedeli, parla solo di Cristo, il Verbo del Padre, «la Verità».
«le cose future»: I commentatori non sono concordi sull'interpretazione del ruolo del Paráclito nell'annunciare «le cose che devono ancora venire» (ta erchomena):
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DOMENICA «DELLA SANTISSIMA TRINITÀ»
Proverbi Pr 8,22-31 • Salmo 8 • Romani 5,1-5 • Giovanni 16,12-15
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Celebrare la SS. Trinità sollecita in noi il desiderio di conoscerla e questa ci risponde, perché Dio fa sempre il primo passo verso di noi. Quest'anno, viene accentuato in modo particolare il fatto che Dio si manifesta, si rivela, si fa conoscere e ci offre una conoscenza «personale».
Gli uomini poi hanno sempre bisogno di speranza. Questa speranza gli uomini l'hanno concreta nel Cristo. Dio li ha «giustificati» nel Figlio suo: in lui ha compiuto quest'opera di liberazione, di restaurazione, di «rettifica», che è la «redenzione». Questa è «cosa fatta», non più da sperare perché già realizzata, e capace di influire su tutto il futuro; di essa sono segno e frutto la pace, la fede, la grazia. Speranza certa, di cui Dio ci ha dato la garanzia, e questa garanzia è l'amore che è stato infuso nei nostri cuori ad opera dello Spirito di Dio. Il dinamismo della rivelazione di Dio sta in questo: Dio ha impegnato tutto se stesso per salvarci. Si sono impegnate le tre Persone divine, con aspetti e modalità personali distinte, per un'opera che è un tutt'uno come un tutt'uno è Dio. Padre, Figlio e Spirito Santo si rivelano proprio facendoci conoscere ciò che ciascuno fa per noi.
Gli apostoli si sono lasciati prendere dalla tristezza: Gesù sta per lasciarli. Sono più impressionati di questo che non delle cose meravigliose che egli ha detto loro nell'ultima cena; sono preoccupati più dei fatto che egli li «lascia», che non del perché e del «senso» che ha questo «lasciarli». Gesù spiega il profondo significato della sua partenza: è più una trasformazione che non un distacco, più una manifestazione che non un nascondersi. Gesù che «va», è Gesù che «manda» da parte del Padre lo Spirito. E lo Spirito è la perenne manifestazione di Gesù, del Figlio di Dio fatto Figlio dell'uomo per salvare gli Uomini. Lo Spirito testimonierà con la sua luce e la sua forza di amore che Cristo è sempre presente e operante, che Cristo sempre comunica lo Spirito, perché lo Spirito faccia conoscere che l'opera di Cristo è opera di amore: amore di lui che si è offerto, amore del Padre che lo ha dato. La Trinità si manifesta massimamente nel comunicare agli uomini lo Spirito di amore, perché gli uomini, amandosi come Cristo li ha amati, amino Dio ed entrino in intimità con la divina Comunità di amore.
Dall'eucologia:
Antifona d'Ingresso
Sia benedetto Dio Padre,
e l'unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito Santo:
perché grande è il suo amore per noi.
Canto all'Evangelo Ap 1,8
Alleluia, alleluia.
Gloria al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo:
a Dio che è, che era e che viene.
Alleluia.
L'antifona d'ingresso è la classica benedizione ebraica rivolta al Signore Unico che opera verso l'uomo la Bontà sua dell'alleanza divina. Il Signore Unico è acclamato nella Trinità delle Persone, nelle quali tutto e per intero sussiste in eterno, si manifesta agli uomini ed essi lo amano, contemplano, adorano con un atto unico indivisibile.
Il canto all'Evangelo è la dossologia trinitaria più più nota ed usata: il «Gloria al Padre» integrato con Ap 1,8.
Compiuti i giorni pasquali, portati a pienezza dal giorno di Pentecoste, si chiude il Tempo di Pasqua e si riapre quello Ordinario.
Le prime due domeniche sono dedicate a due solennità che non hanno una data fissa nel calendario e la loro celebrazione è fissata nelle due domeniche seguenti la domenica di Pentecoste: la Santissima Trinità e il Ss. Corpo e Sangue di Cristo. Il tempo durante l'anno o Tempo Ordinario è considerato come un tempo minore o «non forte», come se i periodi privilegiati di Avvento, di Quaresima e di Pasqua fossero gli unici ad avere diritto di cittadinanza nell'anno liturgico. È un tempo che sembrerebbe meno importante degli altri; è chiamato «ordinario» perché non è caratterizzato da nessuna festa particolare, tuttavia è un tempo importante perché senza di esso la celebrazione del mistero di Cristo e la progressiva assimilazione dei cristiani a questo mistero sarebbero ridotte a puri episodi isolati invece di impregnare tutta l'esistenza dei fedeli e delle comunità.
In un certo modo la forza di tale tempo non sta solo in qualche Domenica chiave, ma in tutte le trentatré o trentaquattro Domeniche in cui il mistero di Cristo viene contemplato nella sua globalità.
L'attuale calendario liturgico, per rivalorizzare il giorno del Signore, garantire continuità e progressivo approfondimento, ha escluso l'assegnazione perpetua alla domenica di qualsiasi celebrazione, fatta eccezione per le solennità della Ss. Trinità, il Corpo di Cristo e Gesù Cristo Re.
Naturalmente, tutte queste solennità, dalla loro particolare prospettiva, sono celebrazioni dell'unico mistero pasquale che determina tutto l'anno liturgico.
La riforma liturgica ha dotato queste solennità di tre serie di letture, una per ogni anno, così che ogni solennità ha nove letture. Nei tre anni del ciclo liturgico la lettura evangelica, della solennità della Ss. Trinità, evidenzia successivamente ciascuna delle tre Persone divine. In quest'anno C, il brano preso da Giovanni propone soprattutto lo Spirito Santo. In questo brano del secondo discorso dell'ultima cena Gesù torna sulla promessa dello Spirito Santo: mentre nel primo discorso aveva annunciato l'opera a favore della comunità dei discepoli (14,16-17.25-26), adesso ne prospetta la testimonianza di fronte al mondo, che opererà in un duplice modo (cf Gv 14,6):
- come diretto accusatore del mondo nelle coscienze umane (16,5-11);
- come guida nella testimonianza che anche i discepoli devono dare nell'impegnativo sviluppo della loro esistenza dentro il mondo (la nostra pericope).
La pericope di oggi narra della quinta volta di questo evento (cfr Gv 14,15-17; 14,25-26; 15,26-27; 16,5-11). I destinatari del messaggio furono allora le comunità cristiane del primo secolo ma, insieme con loro, sono tutte le successive comunità impegnate nella lotta contro il male e nella propria crescita; anche noi quindi qui ed oggi.
La prima lettura parla della Sapienza divina creatrice del mondo, che nella tradizione cristiana è riletta come simbolo del Cristo «per mezzo del quale tutto è stato fatto e senza del quale nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste» (cf Gv 1,3). La tradizione cristiana orientale ha invece intravisto in quella personificazione anche i lineamenti dello Spirito Santo sulla scia del Salmo 104,30 («Mandi il tuo Spirito ed essi sono creati e rinnovi la faccia della terra»).
La presenza divina nella creazione è tuttavia il vero tema di questo inno del libro dei Proverbi; la Sapienza di Dio è dipinta con una vera e propria cascata di immagini cosmiche che incarnano 1'armonia del progetto divino. Ma la raffigurazione più originale è quella finale in cui la Sapienza è rappresentata mentre danza con i figli dell'uomo.
Per Dio creare è una festa, è gioia, è pace; l'uomo che sa scoprire il mistero dell'essere partecipa a questa armonia e a questa felicità divina (cf Salmo responsoriale dove l'orante deduce, stupito dalla contemplazione del creato, la sublime dignità dell'uomo, molto vicina a quella della Sapienza). Anche la seconda lettura, il brano della lettera ai Romani, è di ampio respiro trinitario, ma in particolare Paolo ricorda che lo Spirito Santo sta alla radice della speranza e della carità diffuse nei nostri cuori.
Nel complesso le letture di questa domenica non sono facilissime, come del resto non è facile la verità teologica che oggi viene celebrata: il mistero della Trinità; noi affermiamo ogni domenica nel Credo la nostra fede trinitaria, ma molti anche praticanti confessano, se non proprio dubbi, per lo meno l'insignificanza di questa dottrina per la vita quotidiana del credente.
Occorre sgomberare il campo da un diffuso senso del mistero che è confuso con un falso senso di rispetto che ci tiene a distanza da Dio.
«Mistero» non significa, come comunemente si pensa, «qualcosa che non si capisce» e che quindi ben difficilmente può avere senso per noi, ma piuttosto la realtà salvifica che Dio liberamente rivela, come ci ricorda il Concilio Vaticano II [Nota: «Piacque a Dio far conoscere il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini, per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono così resi partecipi della sua divina natura» (Dei Verbum n. 2).]. Così pensando noi siamo ancora prigionieri dell'immagine distorta che di Dio fornisce il serpente: un Dio geloso che vorrebbe precluderci la via della conoscenza (cf Gen 3,4-5). Dio invece vuole darsi a conoscere: tutta la Bibbia ne è testimonianza.
I santi e i mistici non si sono mai fatto scrupolo e non hanno mai avuto timore di indagare il mistero della Trinità; Sant'Agostino che pure afferma: «se lo comprendessi, non sarebbe Dio» (cf Sermones 52,6,16), dedica a questo tema una delle sue opere più belle, il De Trinitate.
Proprio Agostino ci ha lasciato una splendida intuizione della Trinità d'amore: «Le persone divine sono tre, la prima che ama quella che da lei nasce, la seconda che ama quella da cui nasce e la terza che è lo stesso amore» (cf De Trinitate VI,5,7). Possiamo anche trovare formule nuove ma il messaggio centrale ci dice che Dio è relazione, già in se stesso è un Dio che si comunica e che ama, un Dio che si apre all'altro da sé: crea, si rivela, si incarna.
Già Paolo nella seconda lettura ha operato una delle sue audaci sintesi: la fede, la grazia, la gloria, la speranza, l'amore sono interdipendenti, in una circolarità che è la stessa tra le persone divine.
Gesù Cristo ci ha riconciliati, lo Spirito d'amore fonda la nostra speranza, la gloria del Padre è la realtà della salvezza promessa: pur nella difficoltà delle parole, ci sentiamo come circondati in un abbraccio che ci sostiene. Dio non è un idolo, non è una filosofia, non è una formula: è comunione, partecipazione, dialogo e per questo non ci opprime, ma ci viene incontro con infinite manifestazioni. Questa è la «Trinità economica»: un movimento d'amore con cui Dio ci chiama a sé, ci «divinizza», come spesso dicono i cristiani delle Chiese orientali.
La pericope evangelica (ancora una scelta operata dopo per sostenere il tema della Domenica) è inserita nel gruppo di versetti 4-20 dove l'argomento e la forma letteraria di questo passo sono dominati dalle parole di Gesù sul Paráclito nei vv. 7-15. A queste parole è premessa una breve introduzione nella quale Gesù insiste sulla sua partenza (vv. 4-6) e riprende questo tema dopo le sue parole sul Paráclito per concludere questa suddivisione (vv. 16-20). I vv. 4-20 presentano quindi il seguente svolgimento:
- La partenza di Gesù (vv. 4-6). Questa parte inizia e termina con l'espressione tauta lelalēka hymin (v. 4 e v. 6: «vi ho detto queste cose»). Gesù parla della sua partenza dicendo che la tristezza dei discepoli è dovuta alla loro ignoranza.
- Il ruolo del Paráclito (vv. 7-15). Questa parte è dominata da ciò che Gesù ha da dire sul Paráclito. La partenza di Gesù è a tutto vantaggio dei discepoli perché è la condizione indispensabile per poter mandare il Paráclito, che guiderà il mondo e approfondirà la rivelazione di Gesù.
- La partenza di Gesù (vv. 16-20). Questa parte è caratterizzata dalla insistente ripetizione dell'espressione «un poco» mikron (vv. 16 [2 volte], 17 [2 volte], 18[1 volta], 19 [2 volte]:) e termina con l'uso del doppio «amen». Gesù ritorna sul tema della sua partenza parlando a discepoli che continuano a non capire.
ESAMINIAMO IL BRANO DELL'EVANGELO
v. 12 - «Molte cose ho ancora da dirvi…»: Gesù avverte i discepoli che avrebbe ancora da rivelare e spiegare «polla, molti fatti», il suo parlare, légo, potrebbe proseguire all'infinito. Però arti, adesso, a queste condizioni di preparazione dei discepoli, ma soprattutto per lo sconvolgimento di cui saranno vittime tra poco a causa della croce, essi non hanno la forza di "portarle"; qui il verbo è bastàio, che indica assumersi un gravoso peso e portarlo, come è usato per il gravoso lavoro degli scaricatori. Si tratta in effetti di un peso insopportabile per le loro fragili forze di "adesso", e tuttavia questo suppone e promette già un "dopo" positivo.
Paolo (1Cor 3,1-2) oppone ai Corinzi le stesse parole di Gesù: «ancora non potevate» ricevere dottrine dello Spirito Santo, e perciò per ora parla pedagogicamente di rudimenti, in attesa che l'intelligenza che dà lo Spirito Santo salga in essi di livello. Lo stesso contesta un discepolo geniale di Paolo, questa volta parlando a Ebrei, che conoscono almeno l'A. T.: «di questo [ossia della redenzione operata da Cristo Sommo Sacerdote], il discorso è ingente e da parlare con difficile interpretazione, poiché voi siete diventati deboli nell'ascoltare, e mentre dovreste essere maestri per il tempo trascorso, avete sempre necessità di essere istruiti...», e prosegue con un motivato rimprovero, che con loro occorre partire sempre dall'elementarità, senza poter salire verso «le realtà più perfette» (Eb 5,11-6,3). Ma lo stesso avviene anche nelle comunità petrine (1Pt 2,2). E, in forma macroscopica e nonostante tutto, nelle nostre comunità oggi. Ma allora, che si deve fare, anzi: che cosa serve? Gesù lo sa bene, e adesso lo annuncia e lo spiega. Occorre attendere quando sarà venuto "Lui", lo Spirito Santo, anzitutto, in un Evento che dà per scontato.
v. 13 - «Quando verrà lui»: In secondo luogo chiama lo Spirito Santo con il pronome maschile ekéinos, per indicare che si tratta di un'autentica Persona, e non di una "cosa", di una specie di flusso, che vorrebbe il pronome al neutro. Quindi, si tratta della Terza Persona divina, nell'Unità vivente e sussistente che forma insieme con il Padre e con il Figlio. In terzo luogo, il verbo «viene, érchomai», è uno dei tipici verbi attivi della Divinità. Già nell'A. T. il Signore Vivente "viene" di continuo in mezzo al suo popolo, come si afferma in testi senza numero, dall'esodo per risalire alla creazione e giungere alla vita del popolo nella terra promessa, fino a dopo l'esilio. Nel N. T. Gesù, tra i nomi con cui è designato dalla Comunità, è chiamato «ho Erchómenos, il Veniente», Colui che viene da presso il Padre, per riportare tutti, con azione irresistibile, nella sua Umanità al Padre. Adesso anche lo Spirito del Signore si serve della sua libertà sovrana, propriamente divina, e con iniziativa personale "viene", al tempo aoristo per indicare la storia inevitabile, precisa, puntuale, con effetti permanenti.
«lo Spirito della verità»: Lo Spirito Santo che è la Verità di Dio, come è esplicitamente affermato in 1Gv 5,6. Poiché la Verità divina, che è la Vita eterna, è da donare agli uomini. Tale Verità si manifesta appunto in Cristo stesso anche come «la Via» e «la Vita» (14,6). È anche Cristo stesso con tutto il suo Evento e la sua Parola che comunica da parte del Padre. E anche il Padre è la Verità (Gv 3,33), Principio e la Fonte di essa. Lo Spirito Santo è in specie addetto a Cristo, Persona divina a Persona divina. E la sua azione precisamente consiste nel condurre.
«vi guiderà a tutta la verità»: La meta è «la Verità intera». È condurre a Cristo nella sua totalità. Il rapporto dei discepoli con Gesù che vedono, è ancora parziale. Esiste ancora in loro un diaframma spirituale e mentale da cui debbono liberarsi per l'adesione di amore pieno al Signore. Questa sarà opera solo dello Spirito Santo. Quest'opera tuttavia si presenta in forma strana per gli uomini.
«non parlerà da se stesso…»: È interessante notare che in questo ultimo brano l'evangelista descrive il dinamismo dello Spirito utilizzando una carrellata di verbi: venire, guidare, parlare, dire, annunziare, prendere. Tuttavia, lo Spirito non gode di autonomia alcuna nella sua funzione di annuncio: non parla da sé, ma 'prende' quanto è proprio di Gesù, ciò che lo costituisce Figlio inviato dal Padre. La 'gloria' di Dio, rivelata nel volto del Figlio, continuerà ad essere svelata dalla presenza dello Spirito. La gloria non appartiene al Figlio come la rivelazione dello Spirito non ha la sua origine in Gesù: entrambi conducono ad un 'oltre', a Colui che li ha inviati: il Padre (14,16.26; 15,26).
Lo Spirito Santo "viene" in modo autonomo, sovrano, eppure «non parla a partire da se stesso». È autonomo nell'operare divinamente, non è autonomo quanto ai contenuti della sua operazione. È Dio umile e obbediente a Dio, in vista della «Verità intera». La quale è una Persona parlata per così dire dal Padre, è il Verbo del Padre, che lo Spirito Santo "ascolta" presso il Padre, nel divino indicibile eterno Dialogo tripolare interpersonale interreciproco interinfinito. E così lo Spirito Santo parla solo «quanto ascolta». Colui che ascolta, agli uomini, i discepoli fedeli, parla solo di Cristo, il Verbo del Padre, «la Verità».
«le cose future»: I commentatori non sono concordi sull'interpretazione del ruolo del Paráclito nell'annunciare «le cose che devono ancora venire» (ta erchomena):
- Alcuni sostengono che ha un significato del tutto escatologico ossia che il Paráclito darà ai discepoli istruzioni sulla fine dei tempi
- Per altri si tratta di un'indicazione della natura apocalittica della profezia cristiana primitiva.
- Per altri ancora è un riferimento agli eventi dell'«ora» che stanno per accadere nella storia di Gesù.
- Lo Spirito Santo sovrano viene come Condottiero divino. Insegna la Verità. Non parla del "suo", bensì ascolta e insegna. Annuncia il futuro che come Signore conosce e attua. Glorifica Cristo Signore di continuo.
- Prende da Lui e dal Padre, e lo annuncia e spiega. In un'unica operazione divina, imponente, definitiva. Ma operazione che costituisce tra i Tre un'infinita relazione. Lo Spirito Santo Verità, come si è visto poco sopra, sta in rapporto con la Verità che è Cristo, il quale porta tutto al Padre Verità, e dal Padre fa derivare tutto.
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