Il terzo figlio



Il diaconato in Italia n° 209
(marzo/aprile 2018)

IL PUNTO


Il terzo figlio
di Luigi Vidoni

Papa Francesco, all'Angelus di domenica 6 marzo 2016, commentando la parabola del Figlio prodigo (o meglio del Padre misericordioso), dopo aver parlato dell'atteggiamento che il Padre ha per i due figli, prosegue: «In questa parabola si può intravvedere anche un terzo figlio. Un terzo figlio? E dove? È nascosto! È quello che non ritenne un privilegio l'essere come [il Padre], ma svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo (Fil 2,6-7). Questo Figlio-Servo è Gesù! È l'estensione delle braccia e del cuore del Padre: Lui ha accolto il prodigo e ha lavato i suoi piedi sporchi; Lui ha preparato il banchetto per la festa del perdono. Lui, Gesù, ci insegna ad essere misericordiosi come il Padre. La figura del Padre della parabola svela il cuore di Dio. Egli è il Padre misericordioso che in Gesù ci ama oltre ogni misura, […] sempre pronto ad aprirci le sue braccia qualunque cosa sia successa».

Il diacono è segno e figura del Cristo
Nella figura di questo "terzo figlio", possiamo intravvedere l'identità teologica del diacono, segno e figura del Figlio-Servo. Questi è colui che "racconta" la parabola e ci parla del Padre, volendo rivelarci il suo volto. Un "terzo figlio" di cui non si parla direttamente, ma che è lui stesso che parla e ci svela che c'è un Padre, che dirà anzi che è «Padre mio e Padre vostro» (Gv 20,17). E parlando del Padre, egli parla di sé, non in maniera diretta, ma velatamente, perché le sue parole sono le parole del Padre: «Il Figlio da se stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa allo stesso modo» (Gv 5,19). Così, guardando a Lui, comprenderemo anche il senso profondo del messaggio insito nella parabola, della tragedia di questi "due figli" che, perdendo il senso della loro figliolanza hanno perso anche il senso vero della paternità di cui sono fatti figli.
«Colpisce - dice papa Francesco nel suo discorso - la tolleranza [del padre] dinanzi alla decisione del figlio più giovane di andarsene da casa: avrebbe potuto opporsi, sapendolo ancora immaturo, un giovane ragazzo, o cercare qualche avvocato per non dargli l'eredità, essendo ancora vivo. Invece gli permette di partire, pur prevedendo i possibili rischi. Così agisce Dio con noi: ci lascia liberi, anche di sbagliare…».
Il figlio più giovane decide di andarsene da casa con la parte di eredità ricevuta: se ne va, per non ritornare. Il "terzo figlio" invece, partendo pure lui non per non farvi più ritorno, ma per ritornare e "riportare alla casa del padre tutti figli dispersi", per far sentire ad ogni figlio, che ha lasciato la casa del padre, la voce del padre, essendo Lui stesso la Voce del Padre. Egli parte in ossequio alla volontà del Padre che «vuole che tutti gli uomini siano salvati» (1Tm 2,4), per riportare a casa il figlio che se ne era andato. Nel voler ridare il padre al figlio e il figlio al padre sa chiaramente che dovrà pagare un duro prezzo, il prezzo della croce, espressione massima dell'amore di un Dio che nel Figlio dà la sua Vita. È la voce di quel Padre che «fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli in giusti» (Mt 5,45).
Il Figlio uscito dal seno del Padre per farvi ritorno in compagnia di tutti noi, lo aveva promesso: «Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no ve l'avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io» (Gv 14,2-3).

Quale eredità cercano i figli di Dio?
Egli è il Figlio che non può tenersi il Padre tutto per sé e non dimentica il figlio che se ne è andato da casa lasciando un vuoto che bisogna colmare, una ferita nel cuore di Dio che bisogna ricucire. Questo "terzo figlio" non è uscito dalla casa del Padre per separasi da Lui, portando con sé parte dell'eredità, quasi un ladro con il sacco della refurtiva, ma si è lui stesso volontariamente "spogliato" della "sua eredità" (che è il suo essere col Padre). Infatti, egli «pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini» (Fil 2,6-7).
Al ritorno del figlio «che era perduto», il figlio maggiore, che era sempre rimasto nella casa del padre, ha una reazione che non solo infrange il legame di fraternità, ma lo stesso legame di figliolanza, negando in qualche modo il valore della paternità di quel padre che non è "giusto". Infatti, volendo tenere tutta la figliolanza per sé, rinnega la stessa fraternità. Ma «il padre - continua papa Francesco - riserva lo stesso atteggiamento anche al figlio maggiore, che è sempre rimasto a casa e ora è indignato e protesta perché non capisce e non condivide tutta quella bontà verso il fratello che aveva sbagliato. Il padre esce incontro anche a questo figlio e gli ricorda che loro sono stati sempre insieme, hanno tutto in comune, ma bisogna accogliere con gioia il fratello che finalmente è tornato a casa».
L'atteggiamento del padre è indirizzato a voler ricomporre la frattura che si è prodotta tra paternità, figliolanza e fraternità. «Il padre esce incontro anche a questo figlio»: il "terzo figlio" è l'espressione concreta di questo nuovo "uscire" del padre e del vero senso di quel "essere stati sempre insieme". Ma il figlio maggiore ritiene, con il suo atteggiamento, che la casa del padre è fatta per i perfetti e non già per quelli che cedono alle proprie fragilità.
Il "terzo figlio", invece, che è l'espressione concreta della volontà paterna, sa di essere uscito dalla casa del padre per andare incontro agli ultimi, a coloro appunto che non sono stati in grado di farcela, che si sono persi e ora si trovano nella condizione di essere esclusi dalla comunità e lontani dalla Legge: «Il Figlio dell'uomo, infatti, è venuto a cercare ciò che era perduto» (Lc 19,10). Per Dio, infatti, nulla è perduto. Il "nulla" stesso, assunto da Lui nello stesso Figlio, nella sua kenosi, è riempita di profondo significato. Il figlio maggiore, al contrario, incarna quella "cultura dello scarto" che il "terzo figlio" rifiuta a priori. Fanno eco, a questo proposito, le parole di papa Francesco: «Abbiamo dato inizio alla cultura dello "scarto" che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell'oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l'esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l'appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono "sfruttati" ma rifiutati, "avanzi"» (EG 53).

Prigionieri delle piccole mura delle chiese
Il figlio maggiore, non lasciandosi coinvolgere dall'atteggiamento del padre che "esce" comunque, ci mostra un tipo di chiesa che non vuole uscire per cercare coloro che si sono allontanati e si sono persi. Il "terzo figlio" invece ama una "Chiesa in uscita" perché nel suo cuore ha la certezza che "nulla è perduto". «La Chiesa "in uscita" - scrive ancora papa Francesco - è una Chiesa con le porte aperte. Uscire verso gli altri per giungere alle periferie umane non vuol dire correre verso il mondo senza una direzione e senza senso. Molte volte è meglio rallentare il passo, mettere da parte l'ansietà per guardare negli occhi e ascoltare, o rinunciare alle urgenze per accompagnare chi è rimasto al bordo della strada. A volte è come il padre del figliol prodigo, che rimane con le porte aperte perché quando ritornerà possa entrare senza difficoltà» (EG 46).
«La Chiesa "in uscita" è la comunità di discepoli missionari che prendono l'iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano […] e per questo essa (la chiesa) sa fare il primo passo, sa prendere l'iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell'aver sperimentato l'infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva» (EG 24). A questo "uscire" del "terzo figlio" si contrappone l'immobilità e la staticità del figlio maggiore che non vuole compromettersi con l'uscita del fratello minore né col suo ritorno; che non vuole sporcarsi le mani né vuole contaminarsi con la "puzza dei porci" di cui suo fratello è impregnato.

L'odore delle pecore
Il "terzo figlio" invece ama "l'odore delle pecore" e non disdegna la povertà di coloro che sono privi della grazia. Anzi, «da ricco che era, si è fatto povero per fare noi ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9). L'orgoglio del figlio maggiore è tale che, pur nel suo "ritorno" - non da lontano ma dai campi di sua proprietà -, non è in grado di entrare in casa perché "bloccato" dall'invadenza di chi non ha meritato tutta quella festa, il figlio minore. Si sente padrone: lui è rimasto e quindi accampa diritti indiscutibili che nessuno può negargli.
Vi abita da figlio e da proprietario, non da servo. Mangia alla mensa del padre; è un figlio obbediente che lavora e porta frutto. I suoi meriti sono le sue capacità, il suo "capitale", che ostenta a suo padre che dovrà alla fine tenerne conto. È così sicuro di sé che vuole tenere le distanze e, non entrando in casa, chiede ad un servo notizie di quello che sta accadendo dentro. La reazione di questo figlio è simile a quella del racconto della parabola di quel fariseo che, entrando al tempio, ringrazia Dio di non esser come quel pubblicano che, restando in fondo, non ha nemmeno il coraggio di alzare il capo (cf. Lc 18,9-14).
Il figlio maggiore rifiuta ciò che il padre ha fatto, perché non vuole che il fratello dissoluto sieda con lui alla mensa del banchetto, considerandolo non più come fratello. Con quel «tuo figlio», rivolto al padre riferendosi al fratello che ha sperperato tutto, infrange il legame insito tra figliolanza e fraternità.

Figli e fratelli: legami smarriti
Il "terzo figlio" invece vuole che i figli persi ritornino e siano partecipi della stessa eredità: «Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch'essi con me dove sono io» (Gv 17,24). Perché non può esserci figliolanza senza fraternità, pena la compromissione della stessa paternità. Il "terzo figlio", infatti, chiede al Padre di accogliere i figli dispersi nell'intima comunione con Lui: «E la gloria che tu hai dato a me io l'ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me» (Gv 17, 22-23). Qual è in fondo la ragione della "vicenda" di questi figli che escono, ritornano, non vogliono entrare e sono in dissonanza tra di loro? L'eredità. L'eredità dei due fratelli è fatta di cose. L'eredità di cui parla il "terzo figlio" è la vera eredità, è il padre stesso; quel padre che nella parabola è metafora del Padre suo che è nei cieli. In verità il vero erede è Lui, il "terzo figlio"! Col suo uscire dalla casa del Padre e farvi ritorno, Egli fa entrare anche i "suoi fratelli". Così anche noi, entrati con Lui nella casa del Padre siamo fatti partecipi, nello Spirito, della sua stessa, unica, eredità: il Padre. Infatti, «tutti quelli che sono guidati dallo Spirito, costoro sono figli di Dio. E se siamo figli siamo anche eredi; eredi di Dio, coeredi di Cristo» (Rm 8,14.17).

Il diacono è estensione delle braccia e del cuore del Padre
In conclusione, ritornando alle parole di papa Francesco sulla presenza del "terzo figlio" nella parabola del padre misericordioso, del Figlio-Servo Gesù, di colui che «è l'estensione delle braccia e del cuore del Padre…, che ha accolto il prodigo e ha lavato i suoi piedi sporchi e preparato il banchetto per la festa del perdono», vengono alla mente le parole di Ignazio di Antiochia: «Tutti onorino i diaconi come Gesù Cristo, così anche il vescovo che è tipo del Padre…». E di quanto si legge nella Didascalia Apostolorum: «Il diacono è l'occhio del vescovo, la sua bocca, il suo cuore, la sua anima, come dire due con una sola volontà: in questa comunione la Chiesa avrà pace». Il diacono, infatti, a cui sono imposte le mani per il "servizio" di cui il Vescovo è titolare, «è nella Chiesa segno sacramentale specifico di Cristo servo» (Ratio 4).


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