Il diaconato in Italia n° 208
(gennaio/febbraio 2018)
CONTRIBUTO
Il lavoro e il riposo
di Giovanni Chifari
Libero, creativo, partecipativo e solidale, sono i quattro aggettivi che hanno declinato la 48a Settimana Sociale dei cattolici svolta dal 26 al 29 ottobre a Cagliari, sulla scorta della Evangelii Gaudium di Papa Francesco, testo programmatico del suo pontificato, che anche qui richiamiamo per suggerire alcune piste di riflessione per qualificare l'apporto dei diaconi e in genere del ministero diaconale al mondo del lavoro. In quell'occasione Papa Francesco ha rivolto un videomessaggio nel quale ha posto l'accento sul tema della dignità del lavoro: «Non tutti i lavori sono degni - ha detto il Pontefice - alcuni umiliano e offendono la dignità del lavoratore».
La questione del "lavoro degno", poiché solo lavorando l'uomo realizza la sua dignità, ha accompagnato i tempi congressuali e le relative proposte di ripensare la relazione tra Stato, mercato e società civile. Lavoro e dignità, stessa disciplina sulla quale s'incontrarono a suo tempo Dossetti e Togliatti, rompendo lo state d'empasse dell'assemblea costituente di fronte alla stesura dell'articolo 1 della Costituzione, come racconta spesso Pier Luigi Castagnetti. Per quanto riguarda invece gli spazi di una partecipazione del mondo ecclesiale, nelle dichiarazioni conclusive del congresso Monsignor Filippo Santoro ha insistito sul contributo dei laici in un clima di sinodalità, risorsa di «partecipazione, passione e profezia», puntando sulle esperienze delle "buone pratiche" (circa 400 quelle in atto, dai "Cercatori di LavOro" al Progetto "Policoro"), viste come segno del dialogo tra Chiesa e Ministero del Lavoro. Realtà che invita a «contagiare le forze presenti nelle nostre diocesi», creando «nuclei di comunione legati ad uffici e commissioni» che siano a servizio del territorio.
Mediazione diaconale
In questo scenario risulta quindi assolutamente inedita la possibilità di una mediazione diaconale, di un apporto che possa favorire la riscoperta della dimensione cristologica ed ecclesiale della diaconia del lavoro e di riflesso esprimere e accrescere la dignità del lavoro e dei lavoratori. Diaconi che, alla scuola della Parola e dell'Eucarestia, possano contagiare il segreto della prossimità e del servizio, magari correggendo quelle spinte troppo orizzontali che riducono la stessa sinodalità ad esercizio di buone pratiche relazionali e alla condivisione di progetti e percorsi. C'è invece qualcosa di più che un'indole diaconale può svelare, riuscendo realmente a presiedere a quell'operazione di discernimento spirituale di questo tempo. Del resto anche Papa Francesco sembra incoraggiare verso questa prospettiva, com'è emerso nel discorso tenuto alla Curia romana per i tradizionali auguri natalizi, quando tra denunce e sferzate, ha parlato di ministero diaconale della Chiesa. Scelta da non riportare secondo il gusto della citazione ma da riconoscere come il timbro della grazia particolare che assiste il successore di Pietro che qui sembra cosi intercettare quanto lo Spirito dice alle chiese da più di un cinquantennio.
Si tratta di un'esigenza che ritengo possa essere inserita nel cammino ecclesiale d'interpretazione autentica del Concilio. Lo dico leggendo la rinnovata sensibilità alla diaconia della Chiesa e nella Chiesa in sintonia con quanto aveva previsto don Giuseppe Dossetti, quando confidò al Cardinal Martini che quello del diaconato, quindi non solo la diaconia, sarebbe stato il tema «più importante dell'ecclesiologia concreta dell'avvenire». Dossetti aveva previsto che ciò sarebbe accaduto solo dopo che il ministero fosse stato vissuto per un certo tempo nella prassi e vita delle nostre Chiese, visto i secoli di atrofia, e aggiungiamo noi, tra gli alti e i bassi di questi decenni.
Per un diaconato irraggiato e decentrato
La possibilità di un contributo diaconale al mondo del lavoro, tradotto secondo una teologia del diaconato, significa riflettere sul compito ecclesiale di «localizzazione della grazia sacramentale», per Dossetti uno dei «modi che la tradizione divina ha già indicato come esistenti nel deposito della rivelazione e dell'istituzione e che si devono, quindi, a priori presumere ricchi ed efficaci». Per questa ragione il monaco di Monte Sole auspicava «l'introduzione di un diaconato molto largo», «irraggiato» e «decentrato», come «il punto terminale della inserzione dei carismi sacramentali nel tessuto concreto della comunità cristiana». Da qui si poteva generare una reale «trasformazione sociologica di una comunità cristiana» sempre «aderente alla tradizione sacramentale che la caratterizza».
Martini ricorda che Dossetti sperava in una «moltiplicazione dei punti di innervamento» e si augurava che il diaconato potesse essere conferito a soggetti che «vivono il più possibile nella condizione comune», valorizzando cosi, mi pare di poter dire, anche la diaconia di prossimità con il mondo del lavoro. Possibilità chiamata a superare alcuni paradossi, come quello che vede statisticamente il maggior numero di diaconi resi tali in età di pensione da quel mondo del lavoro che essi potrebbero effettivamente servire. Ritengo che in tal senso possa essere utile non solo un diaconato largo ma anche un diaconato lungo, che ricevuto poco dopo i quarant'anni, cosi come recita già il diritto, possa coprire un arco temporale più ampio. Non incoraggiando esclusivamente, nella fase del discernimento, quei criteri che prediligono il "protagonismo" liturgico del diacono, ma riconoscendo anche il diaconato che si spende di fatto in famiglia e al lavoro.
Diaconia e lavoro
Uno sguardo attento rileva che il lavoro, secondo la Scrittura, è possibilità di benedizione o di maledizione. Ciò può accadere a motivo del carattere instabile del cuore dell'uomo, difficile da conoscere perché luogo nel quale si possono annidare sia il bene che il male (cf. Mc 7,21-23). Discernimento complesso come suggerisce l'immagine evangelica dell'albero e dei frutti, perché il fare frutti non è una garanzia della presenza della benedizione divina; si dovranno infatti distinguere i frutti buoni da quelli cattivi, quelli immediati da quelli che nel tempo continuano a esprimere una fecondità che non si fonda sui soli sforzi umani. In questa luce ogni impresa umana, come riconoscono i testi sapienziali, corre il rischio di essere innalzata e glorificata come un idolo fatto dalle mani dell'uomo. Può esserci quindi una visione idolatrica del lavoro. Per esempio a Babel, gli uomini dichiarano di voler costruire una città «per non disperdersi e farsi un nome» (cf. Gn 11,1-4). Ma in realtà il "nome" l'avevano già, era quello che era stato assegnato da Dio al primo Adam, era in quella umanità, memore dell'impronta divina in essa presente, che si doveva ricercare l'identità del nome. E invece, caduta nell'oblio la parola, si punta sull'autoaffermazione di se stessi, secondo una forma deviante dell'umana operosità che i Padri della Chiesa hanno bene diagnosticato come "superbia". La reazione di Dio sarà quella di «confondere la loro lingua» (Gn 11,7-9). La difficoltà se non proprio l'impossibilità a capirsi, non esprimono una condanna verso il lavoro ma riguardano il peccato del cuore, la sua possibilità di traviarsi e di ritenersi autosufficiente, proteso verso le potenzialità tecniche del lavoro e dimentico della sua vocazione alla collaborazione e partecipazione al disegno di Dio sul mondo.
Il fermento della creazione
Il racconto del peccato significato nella torre di Babel, risulta ancor pi ù evidente nelle dichiarazioni programmatiche dei suoi architetti e inventori che intendevano collocare nella sommità della torre un idolo, in modo da poter "toccare" i Cieli. A Babel continua il peccato originale, chi osa farsi uguale a Dio in realtà si è fatto dio di se stesso. Invece il lavoro nasce dall'ascolto e si presenta come continuazione nella storia dell'ordine cosmico di Dio, prolungamento della benedizione delle origini che l'uomo è chiamato ad assecondare. Dio infatti non offre all'uomo un'opera o una creazione conclusa ma una realtà aperta, dinamica, in continuo cambiamento, ricca di fermenti, indirizzata verso una progressione. Proprio in questa luce, già nel testo di Genesi, al mandato del lavoro segue quello del riposo. Ad uno sguardo attento l'alternanza lavoro/riposo, presente anche nell'oggi, nelle cose penultime, e non rimandata a quelle ultime, realizza la possibilità di collaborazione e cooperazione dell'uomo all'attività creatrice di Dio.
Tuttavia è possibile osservare un'esperienza contraddittoria e contrastante, esiti ambivalenti e non sempre facili da interpretare. Se infatti il precipitare dell'uomo verso il peccato si traduce visibilmente in molteplici ferite inferte alle relazioni con Dio, con l'umanità e con il creato, la stessa creazione sembra invece conservare quella sua capacità di inquietare, come «in attesa dell'opera dell'uomo» (cf. Mc 12,27). L'esperienza storica ha mostrato che l'uomo né con la sua industriosità, né con la sua intraprendenza, ha potuto scoprire da dove viene la Sapienza, perché solo Dio la conosce (cf. Gb 28,1-23). E questo significa che l'agire umano, senza Dio, anche quello più intraprendente, diviene vanità e sterilità sociale.
Dono di sé
Ora l'esperienza del cristiano, del discepolo di Cristo, è che solo quando si è inseriti e si rimane in Lui si entra realmente nel riposo (cf. Eb 4,45.8-10). Il giudizio divino condanna l'orgoglio e la superbia dell'uomo, l'innalzare e l'innalzarsi come Dio ma senza Dio, che produce un progettare vano. Per il lavoro dell'uomo, entrare nel riposo significa avviarsi verso quella destinazione benedetta e voluta da Dio e non spendere innumerevoli fatiche ed energie verso l'autorealizzazione personale sempre espressione di un'orgogliosa superbia.
Assegnare il primato all'azione, subire l'incanto del fare, sovente può indurre allo sfruttamento dei deboli (Sal 14,10-11) e alla piena avversione contro i poveri (Gc 2,5-7). Invece, quando il lavoro nasce dall'aver riconosciuto quel sacrificio di offerta di sé e di auto-immolazione e donazione ai fratelli, che nella luce della Pasqua, si celebra nell'Eucarestia, e quindi se in quest'ultima si coglie la sorgente del servizio, e a partire da essa si rivolge lo sguardo ai poveri e agli ultimi, allora la diaconia che ne deriva sarà possibilità di unità (koinonia) tra i fratelli, e collaborazione all'opera di Dio.
La questione del "lavoro degno", poiché solo lavorando l'uomo realizza la sua dignità, ha accompagnato i tempi congressuali e le relative proposte di ripensare la relazione tra Stato, mercato e società civile. Lavoro e dignità, stessa disciplina sulla quale s'incontrarono a suo tempo Dossetti e Togliatti, rompendo lo state d'empasse dell'assemblea costituente di fronte alla stesura dell'articolo 1 della Costituzione, come racconta spesso Pier Luigi Castagnetti. Per quanto riguarda invece gli spazi di una partecipazione del mondo ecclesiale, nelle dichiarazioni conclusive del congresso Monsignor Filippo Santoro ha insistito sul contributo dei laici in un clima di sinodalità, risorsa di «partecipazione, passione e profezia», puntando sulle esperienze delle "buone pratiche" (circa 400 quelle in atto, dai "Cercatori di LavOro" al Progetto "Policoro"), viste come segno del dialogo tra Chiesa e Ministero del Lavoro. Realtà che invita a «contagiare le forze presenti nelle nostre diocesi», creando «nuclei di comunione legati ad uffici e commissioni» che siano a servizio del territorio.
Mediazione diaconale
In questo scenario risulta quindi assolutamente inedita la possibilità di una mediazione diaconale, di un apporto che possa favorire la riscoperta della dimensione cristologica ed ecclesiale della diaconia del lavoro e di riflesso esprimere e accrescere la dignità del lavoro e dei lavoratori. Diaconi che, alla scuola della Parola e dell'Eucarestia, possano contagiare il segreto della prossimità e del servizio, magari correggendo quelle spinte troppo orizzontali che riducono la stessa sinodalità ad esercizio di buone pratiche relazionali e alla condivisione di progetti e percorsi. C'è invece qualcosa di più che un'indole diaconale può svelare, riuscendo realmente a presiedere a quell'operazione di discernimento spirituale di questo tempo. Del resto anche Papa Francesco sembra incoraggiare verso questa prospettiva, com'è emerso nel discorso tenuto alla Curia romana per i tradizionali auguri natalizi, quando tra denunce e sferzate, ha parlato di ministero diaconale della Chiesa. Scelta da non riportare secondo il gusto della citazione ma da riconoscere come il timbro della grazia particolare che assiste il successore di Pietro che qui sembra cosi intercettare quanto lo Spirito dice alle chiese da più di un cinquantennio.
Si tratta di un'esigenza che ritengo possa essere inserita nel cammino ecclesiale d'interpretazione autentica del Concilio. Lo dico leggendo la rinnovata sensibilità alla diaconia della Chiesa e nella Chiesa in sintonia con quanto aveva previsto don Giuseppe Dossetti, quando confidò al Cardinal Martini che quello del diaconato, quindi non solo la diaconia, sarebbe stato il tema «più importante dell'ecclesiologia concreta dell'avvenire». Dossetti aveva previsto che ciò sarebbe accaduto solo dopo che il ministero fosse stato vissuto per un certo tempo nella prassi e vita delle nostre Chiese, visto i secoli di atrofia, e aggiungiamo noi, tra gli alti e i bassi di questi decenni.
Per un diaconato irraggiato e decentrato
La possibilità di un contributo diaconale al mondo del lavoro, tradotto secondo una teologia del diaconato, significa riflettere sul compito ecclesiale di «localizzazione della grazia sacramentale», per Dossetti uno dei «modi che la tradizione divina ha già indicato come esistenti nel deposito della rivelazione e dell'istituzione e che si devono, quindi, a priori presumere ricchi ed efficaci». Per questa ragione il monaco di Monte Sole auspicava «l'introduzione di un diaconato molto largo», «irraggiato» e «decentrato», come «il punto terminale della inserzione dei carismi sacramentali nel tessuto concreto della comunità cristiana». Da qui si poteva generare una reale «trasformazione sociologica di una comunità cristiana» sempre «aderente alla tradizione sacramentale che la caratterizza».
Martini ricorda che Dossetti sperava in una «moltiplicazione dei punti di innervamento» e si augurava che il diaconato potesse essere conferito a soggetti che «vivono il più possibile nella condizione comune», valorizzando cosi, mi pare di poter dire, anche la diaconia di prossimità con il mondo del lavoro. Possibilità chiamata a superare alcuni paradossi, come quello che vede statisticamente il maggior numero di diaconi resi tali in età di pensione da quel mondo del lavoro che essi potrebbero effettivamente servire. Ritengo che in tal senso possa essere utile non solo un diaconato largo ma anche un diaconato lungo, che ricevuto poco dopo i quarant'anni, cosi come recita già il diritto, possa coprire un arco temporale più ampio. Non incoraggiando esclusivamente, nella fase del discernimento, quei criteri che prediligono il "protagonismo" liturgico del diacono, ma riconoscendo anche il diaconato che si spende di fatto in famiglia e al lavoro.
Diaconia e lavoro
Uno sguardo attento rileva che il lavoro, secondo la Scrittura, è possibilità di benedizione o di maledizione. Ciò può accadere a motivo del carattere instabile del cuore dell'uomo, difficile da conoscere perché luogo nel quale si possono annidare sia il bene che il male (cf. Mc 7,21-23). Discernimento complesso come suggerisce l'immagine evangelica dell'albero e dei frutti, perché il fare frutti non è una garanzia della presenza della benedizione divina; si dovranno infatti distinguere i frutti buoni da quelli cattivi, quelli immediati da quelli che nel tempo continuano a esprimere una fecondità che non si fonda sui soli sforzi umani. In questa luce ogni impresa umana, come riconoscono i testi sapienziali, corre il rischio di essere innalzata e glorificata come un idolo fatto dalle mani dell'uomo. Può esserci quindi una visione idolatrica del lavoro. Per esempio a Babel, gli uomini dichiarano di voler costruire una città «per non disperdersi e farsi un nome» (cf. Gn 11,1-4). Ma in realtà il "nome" l'avevano già, era quello che era stato assegnato da Dio al primo Adam, era in quella umanità, memore dell'impronta divina in essa presente, che si doveva ricercare l'identità del nome. E invece, caduta nell'oblio la parola, si punta sull'autoaffermazione di se stessi, secondo una forma deviante dell'umana operosità che i Padri della Chiesa hanno bene diagnosticato come "superbia". La reazione di Dio sarà quella di «confondere la loro lingua» (Gn 11,7-9). La difficoltà se non proprio l'impossibilità a capirsi, non esprimono una condanna verso il lavoro ma riguardano il peccato del cuore, la sua possibilità di traviarsi e di ritenersi autosufficiente, proteso verso le potenzialità tecniche del lavoro e dimentico della sua vocazione alla collaborazione e partecipazione al disegno di Dio sul mondo.
Il fermento della creazione
Il racconto del peccato significato nella torre di Babel, risulta ancor pi ù evidente nelle dichiarazioni programmatiche dei suoi architetti e inventori che intendevano collocare nella sommità della torre un idolo, in modo da poter "toccare" i Cieli. A Babel continua il peccato originale, chi osa farsi uguale a Dio in realtà si è fatto dio di se stesso. Invece il lavoro nasce dall'ascolto e si presenta come continuazione nella storia dell'ordine cosmico di Dio, prolungamento della benedizione delle origini che l'uomo è chiamato ad assecondare. Dio infatti non offre all'uomo un'opera o una creazione conclusa ma una realtà aperta, dinamica, in continuo cambiamento, ricca di fermenti, indirizzata verso una progressione. Proprio in questa luce, già nel testo di Genesi, al mandato del lavoro segue quello del riposo. Ad uno sguardo attento l'alternanza lavoro/riposo, presente anche nell'oggi, nelle cose penultime, e non rimandata a quelle ultime, realizza la possibilità di collaborazione e cooperazione dell'uomo all'attività creatrice di Dio.
Tuttavia è possibile osservare un'esperienza contraddittoria e contrastante, esiti ambivalenti e non sempre facili da interpretare. Se infatti il precipitare dell'uomo verso il peccato si traduce visibilmente in molteplici ferite inferte alle relazioni con Dio, con l'umanità e con il creato, la stessa creazione sembra invece conservare quella sua capacità di inquietare, come «in attesa dell'opera dell'uomo» (cf. Mc 12,27). L'esperienza storica ha mostrato che l'uomo né con la sua industriosità, né con la sua intraprendenza, ha potuto scoprire da dove viene la Sapienza, perché solo Dio la conosce (cf. Gb 28,1-23). E questo significa che l'agire umano, senza Dio, anche quello più intraprendente, diviene vanità e sterilità sociale.
Dono di sé
Ora l'esperienza del cristiano, del discepolo di Cristo, è che solo quando si è inseriti e si rimane in Lui si entra realmente nel riposo (cf. Eb 4,45.8-10). Il giudizio divino condanna l'orgoglio e la superbia dell'uomo, l'innalzare e l'innalzarsi come Dio ma senza Dio, che produce un progettare vano. Per il lavoro dell'uomo, entrare nel riposo significa avviarsi verso quella destinazione benedetta e voluta da Dio e non spendere innumerevoli fatiche ed energie verso l'autorealizzazione personale sempre espressione di un'orgogliosa superbia.
Assegnare il primato all'azione, subire l'incanto del fare, sovente può indurre allo sfruttamento dei deboli (Sal 14,10-11) e alla piena avversione contro i poveri (Gc 2,5-7). Invece, quando il lavoro nasce dall'aver riconosciuto quel sacrificio di offerta di sé e di auto-immolazione e donazione ai fratelli, che nella luce della Pasqua, si celebra nell'Eucarestia, e quindi se in quest'ultima si coglie la sorgente del servizio, e a partire da essa si rivolge lo sguardo ai poveri e agli ultimi, allora la diaconia che ne deriva sarà possibilità di unità (koinonia) tra i fratelli, e collaborazione all'opera di Dio.
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