Lectio divina
Abbazia di Santa Maria di Pulsano (FG)
(7 maggio 2018, riproposta il 10 maggio 2021)
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ANNO B – Ascensione del Signore
DOMENICA «DELL'ASCENSIONE DEL SIGNORE»
Atti 1,1-11 • Salmo 46 • Efesini 4,1-13 • Marco 16,15-20
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L'evento dell'ascensione, ultimo della vita terrena di Gesù, compie e illumina tutta la sua opera di salvezza.
L'ascensione, che rappresenta la dimensione cosmica e universale della risurrezione (cf. Ef. 1,20-5; Sal 47,3.9s.; 68,19.29ss.), ed è già prefigurata nella trasfigurazione (Lc 9,31s.), è insieme l'esodo di Cristo (Lc 9,31) e il suo ritorno al Padre (Gv 13,1; 14,12.28; 16,28; 20,17), l'approdo alla gloria (Gv 13,31s.; 17,1.5) e la piena realizzazione del suo sacerdozio (Eb 8,1ss.; 9,11s.-24), la promessa per il dono dello Spirito (Gv 15,26; 16,7) nell'attesa della parusia (Mc 14,62 par.; Lc 21,27; Dn 7,13s.).
Venuto dal Padre, Gesù vi ritorna; l'ascensione passa per la morte accettata per obbedienza, per l'annientamento al cui fondo si attua la glorificazione (Fil 2,7ss.).
L'ascensione non è tanto un fatto, quanto un modo di essere; essa è un evento perenne: continuamente il Figlio fatto uomo, ritornando nel seno del Padre, ascende alla gloria di lui (Gv 10,17s.). E poiché il Figlio, in quanto uomo, include e personifica l'intera umanità, l'ascensione è l'immissione nell'eterno di tutto l'uomo; è l'accoglienza da parte di Dio dell'umano che non sale verso qualche dimensione altra da sé, ma è riportato, oltre il velo delle apparenze, alla sua dimensione originaria, alla sua positività iniziale ripristinata da Cristo. Il cielo non è una prospettiva di spazio, quasi un luogo dove si giunga, né una misura di tempo, quasi un dopo a cui si acceda; non è un mito, ma il mistero. Se «non si può giungere presso il Padre senza prima essersi elevati ascendendo fino alla divinità del Figlio» (Origene, Comm. Gv. 1,27), Dio solo può condurci ad essa. Ogni volta che percepiamo, con trepidazione e meraviglia, l'inafferrabilità della nostra condizione di uomini, sia attraverso un comportamento che sfugga alla nostra logica umana e ci sorprenda per una sua ragione segreta al di là di ogni motivazione apparente; sia attraverso l'apprensione del bello, che ci folgori e ci si imponga con la sua inappellabile presenza; sia attraverso l'incontro, certo di una certezza evidente, con una realtà che non abbia più rimandi e ci appaghi con la sicurezza della verità; noi entriamo nel cielo della santità di Dio, nel regno che è Dio stesso, la vita sua (Gv 6,47) alla quale si ascende quanto più ci si cala con interezza, oltre i limiti che lo costringono e lo sfigurano, nel cuore dell'umano che Cristo ha redento (Lc 17,20). È in esso, colto per grazia al di là della deformazione operata dal peccato, che risulta la divinità del Figlio, «mediante la quale si può essere condotti come per mano fino alla beatitudine paterna» (Origene, o. c, I, 27).
Gesù che ascende al cielo è il Figlio di Dio che sale al Padre, il fratello dell'uomo che apre la sua intimità con lui a tutti noi. Ma la nostra familiarità, in Cristo, col Padre, non è una relazione nuova che si stabilisca a un tratto, quanto un rapporto cosi essenziale e primordiale da costituire il fondamento stesso delle nostre relazioni.
Se noi gustiamo le gioie ineffabili dell'amicizia e dell'amore; se conosciamo la bellezza, la ricchezza, la profondità della comunione umana; se siamo sorretti, nutriti e trasformati dal mistero dell'amore che ci penetra e ci forma: è perché Dio ci tiene nella sua dilezione che, in Cristo, è divenuta la più concreta tenerezza umana. L'incarnazione è il momento primo, che pure racchiude già tutto in sé, della comunicazione della grazia che è Dio stesso; l'ascensione è il momento eterno del nostro accesso alla comunione con lui, la risalita dalla dimensione scaduta del peccato a quella nuova della purezza acquistata dalla redenzione.
Quando usciamo da noi stessi, vincendo l'egoismo che ci stringe nell'apertura ai fratelli; se un avvenimento, un'occupazione, una persona infrangono completamente le nostre barriere e ci inducono alla comunicazione e alla donazione di noi senza più riserve; entriamo nel mistero dell'ascensione: siamo portati, dalle concrete situazioni in cui ci troviamo inseriti, a incontrare, nell'oblio di noi stessi, il Cristo che vive nel mondo per aprirlo tutto all'assunzione operata dal Padre.
«Ecco, ho messo davanti a te una porta aperta che nessuno potrà chiudere» (Ap 5,8).
L'espansione creatrice, la gioia fecondatrice, e sempre, soprattutto, l'amore: ci conducono al cielo, alla presenza unica di Cristo Signore, il principio della purezza, della comunicazione, dell'elevazione nel cuore del mondo.
La nostra ascensione non è così dal mondo, ma col mondo: è immersione in tutte le realtà umane fino ad aprirle, oltre i limiti che le rinserrano, alla luce vera che irradia dal Cristo che ascende al Padre e a stabilirle nella corrente di grazia che percorre il mondo che egli continua a redimere.
Non c'è fine in questa salita, né ci sono ostacoli all'assunzione, che non siano la nostra deliberata chiusura nella prigione dell'io. La liberazione da noi stessi non ha termine; la nostra ascensione, se siamo disposti, con vigore, ad assecondarla, è una continua ascesa, uno stato di ininterrotta attrazione verso «ciò che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrò in cuore di uomo, ciò che Dio ha preparato a quelli che lo amano» (1Cor 2,9).
L'ascensione è l'eterno ritorno dell'umanità, rigenerata dalla grazia, a Dio; il ritorno dei figli di Adamo che Cristo, «l'uomo nuovo», ha salvato.
Ma Gesù ha attirato tutti a sé solo dalla croce (Gv 12,32); ha salvato morendo. La nostra ascesa passa per la rottura, il distacco operati dalla croce: si ascende entrando nelle cose fino al punto in cui esse causano dolore, accogliendo l'umano con la magnanimità, la generosità, la profusione d'amore di Cristo: «egli ha preso la forma di schiavo per donarci la libertà, è disceso per elevarci, è stato tentato perché noi vinciamo, è stata disprezzato per glorificarci, è morto per salvarci, è salito al cielo per sollevarci dal peccato» (s. Gregorio di Nazianzo, Oraz. 1,5).
Come Gesù, nell'atto di ascendere al cielo, ci è tolto (Atti 1,11; Mc 16,19), sottratto mediante una rottura, così noi saliamo alla nostra realtà di uomini a misura che, rompendo quanto c'è in essa di esteriore e di apparente, superiamo, attraverso la sofferenza, la caducità del suo limite e la riscopriamo radicata nella divina umanità di Cristo.
Antifona d'Ingresso At 1,11
«Uomini di Galilea,
perché fissate nel cielo lo sguardo?
Come l'avete visto salire al cielo,
così il Signore ritornerà». Alleluia.
Oggi celebriamo l'Ascensione del Signore. L'icona dell'Ascensione, che rappresenta il Risorto sollevato dalla Nube dello Spirito Santo e portato sullo scudo della vittoria da due angeli è la medesima icona della Venuta ultima. Contemplare Lui asceso significa attenderlo che venga. È la contemplazione della Chiesa fino alla sua Venuta.
La discussa finale dell'Evangelo di Marco riassume l'evento dell'Ascensione di Gesù con una formula lapidaria: «fu assunto in cielo», e poi quasi a specificare il significato e lo scopo del simbolico viaggio dalla terra al cielo, ne fissa la destinazione: «e sedette alla destra di Dio».
Marco ci offre così due precise indicazioni per entrare nel mistero:
a) l'immagine '"ascensionale" indica l'ingresso di Gesù nell'area del divino, cioè il ritorno al fulgore della sua divinità;
b) la "destra di Dio" è un'immagine di tipo regale e presenta il Cristo intronizzato come si proclama nel Credo.
Se l'Ascensione indica una partenza, essa annuncia anche un ritorno e un'attesa; a quelli che rimasero a guardare il cielo fu detto: «Questo Gesù, che è stato tra di voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui lo avete visto andare in cielo» (cfr. I Lett.).
Più volte Gesù ha parlato del mistero della sua Ascensione al cielo, perché non si tratta d'un episodio da poco, ma d'un avvenimento carico di mistero, che confrontato con lo stesso mistero eucaristico sembra perfino essere maggiore. Ai suoi discepoli infatti, che dicevano duro il discorso del pane disceso dal cielo e che non si poteva intendere, Gesù disse interrogandoli: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell'uomo salire là dov'era prima?» (cfr. Gv 6,59-62). Proprio nell'evangelo di Giovanni troviamo ripetuti riferimenti da parte di Gesù alla sua Ascensione e ritorno al Padre, riferimenti che costituiscono quasi delle catechesi allusive al compimento totale del mistero della Resurrezione, che dovrà completarsi con la Pentecoste, ma che richiede la Sua Ascensione al cielo.
Gesù annunzia la sua prossima partenza da questo mondo e prepara i suoi discepoli raccomandando loro di non avere timore (cfr. Gv 14,27b-29; vedi anche Gv 7,33-34 e 8,21-22; altra allusione nel colloquio con Nicodemo, Gv 3,13, e apertamente nel discorso con i discepoli in Gv 16,28). È chiaro che non si tratta di una partenza normale: l'Ascensione di Gesù al cielo è un avvenimento storico e trascendente insieme.
Canto all'Evangelo Mt 28,19a.20b
Alleluia, alleluia.
Andate e fate discepoli tutti i popoli, dice il Signore.
Ecco, io sono con voi tutti i giorni,
fino alla fine del mondo.
Alleluia.
L'Ascensione comprende di necessità l'invio dei discepoli in missione alle nazioni pagane, con la promessa solenne della Presenza del Signore sempre. Così leggiamo ora la pericope evangelica.
I vv. 15-20 di Mc 16, che chiudono questo evangelo, vanno confrontati con i vv. 16-20 di Mt 28, che chiudono quest'altro evangelo. Marco in modo chiaro e netto è posteriore a Matteo, ne segue lo schema, per lo più abbreviando l'imponente narrazione matteana, talvolta spiegandone qualche punto, talvolta introducendo anche variazioni significanti.
La finale di Marco sono i vv. 9-20 del cap. 16. Nei vv. 9-14 Marco annota alcuni fatti importanti: il Signore Risorto appare alla Maddalena (v. 9), la quale corre a portare il messaggio della Resurrezione ai discepoli (v. 10); l'incredulità di questi (v. 11); i due di Emmaus, e il loro messaggio ai discepoli (qui, abbreviando Lc 24,13-35), ancora con l'incredulità di questi (Mc 16,12-13); poi l'apparizione del Risorto ai discepoli nel cenacolo (qui, abbreviando Lc 24,36-49), e ben due volte ancora l'incredulità dei discepoli (Mc 16,14).
Allora, alla fine, è narrato che il Signore invia i discepoli al «mondo intero», per «predicare l'Evangelo all'intera creazione» (v. 15).
ESAMINIAMO IL BRANO DELL'EVANGELO
v. 15 - «Andate»: È il verbo della missione apostolica (cfr. Mt 10,7; 28,19) che non è più limitata ai confini della Palestina e neppure ai soli figli di Israele (cfr 6,7-13; 7,27) ma "tòn kósmo" il mondo intero e ad "ogni essere creato" (ktísei). È così rivelato che la salvezza è destinata universalmente agli uomini, che interpella tutti, e nessuno esclude. Tuttavia alla condizione esigente e ostativa, che per conseguire la salvezza divina si deve già prima avere la fede, e si deve accettare in conseguenza anche il battesimo. Perciò chi non crede, e quindi non si fa battezzare, riceverà la condanna eterna (v. 16).
«predicate l'evangelo»: Proprio come aveva fatto Gesù iniziando il suo ministero pubblico (1,14); devono ripetere il suo messaggio di salvezza, di cui Cristo da questo momento non è più il soggetto annunciante ma l'oggetto annunciato.
v. 16 - «Chi crederà»: La predicazione apostolica non ha per scopo la formazione delle intelligenze, ma la salvezza delle anime mediante la partecipazione al mistero di Cristo. Al mandato conferito agli apostoli deve corrispondere l'adesione personale degli ascoltatori; come già all'annunzio di Cristo seguiva l'esortazione a «credere all'evangelo» (Mc 1,15). Adesione piena: non solo dell'intelligenza, ma anche della volontà e del cuore, espressa mediante un atteggiamento interiore che Paolo chiama «ubbidienza della fede» (Rm 1,5; 16,26).
La fede, pur importante, da sola non basta: si richiede pure il rito esterno del battesimo. Per esso chi ha già aderito esprime la sua volontà di rinnovarsi interiormente in Cristo e di fatto viene inserito nel mistero della sua morte e della sua resurrezione, quel mistero che solo assicura la salvezza.
«sarà salvato... sarà condannato»: Nella netta opposizione dell'uno all'altro, i due verbi fanno comprendere che davanti al messaggio evangelico non esistono che due modi di reagire ad esso: o la fede o l'incredulità. Qui s'impone ora una piccola riflessione che faremo con una lunga citazione da T. Federici (cf Cristo Signore Risorto Amato e Celebrato, Eparchia di Piana degli Albanesi, Palermo 2001, pp. 1336-1338):
«Questo tratto suona duro oggi ai nostri orecchi divenuti sordi, abituati ormai come si è da una parte all'attenuazione del senso della fede divina soprannaturale e del significato del battesimo come opera del Padre con lo Spirito Santo, che fa conmorire con Cristo e conrisorgere con Lui; dall'altra, e a causa di questo larvato indifferentismo verso la propria fede, a una specie di attenuante confusione della sorte finale di chi ha fede e della sorte finale di chi non ha fede, in pratica non distinte più ma assimilate tra esse. Anche per colpa di piccoli autori impudenti, che sfidano la fede cattolica, il buon senso cristiano e le autorità rassegnate, si considera abolita la differenza tra le religioni, considerate in fondo tutte eguali «vie autonome di salvezza» per gli uomini. Si predica il «metodo dello stuzzicadenti» derivato dall'albero frondoso, ossia si criticano e si abbandonano via via le Realtà divine della Rivelazione divina, come Cristo Signore e lo Spirito Santo, l'Incarnazione, la Croce e la Resurrezione e la Pentecoste, la redenzione, il Regno, di Dio, la Chiesa, l'Economia dei Misteri sacramentali, la dottrina salvifica, il magistero della Chiesa, l'escatologia rivelata. Si spinge verso un "dio" vago, senza volto né nome, senza fisionomia, dove tutti si ritrovino con comodo, in una vaga religiosità senza storia, senza dogmi. E così in conclusione ritenendo e sostenendo che per la "salvezza" sia sufficiente una vita morale per cui non si faccia danno a nessuno, e si sia solidali con tutti.
Rifiutata la redenzione, non si spiega in che consista la "salvezza".
Tutta questa congerie di falsità sta facendo un'irreparabile devastazione nel campo missionario cattolico, dove ormai molti non annunciano l'Evangelo e non amministrano la grazia dei Misteri, bensì si danno solo alle opere sociali, e al massimo al dialogo interreligioso. E stanno assumendo tale atteggiamento, in modo autonomo e contestatario, anche diverse grandi comunità cattoliche. La fede è in disarmo.
Esistevano idee simili nella cultura ellenistica ai tempi del N. T. e anche dopo. Ma è stato dimostrato in modo documentato e indiscutibile da H. de Lubac che l'iniziatore di questa predicazione insensata fu il monaco visionario avveniristico Gioachino da Fiore (+ 1202). Questi lasciò molti "eredi", influenzando in modo misterioso, immediato, sorprendente, disastroso il suo secolo, ispirando tutte le correnti dissolutrici degli "spirituali" fino alla fine del medio evo, e via via, cita per nomi H. de Lubac, quanti a lui apertamente si ispirarono, dalla riforma protestante, all'idealismo, al marxismo con il suo «sole dell'avvenire», che ha desunto proprio da Gioacchino, alle più varie correnti moderne. Non consta che chi oggi in campo protestante e cattolico predica il «dio anonimo» presentato sopra, conosca le opere del monaco calabrese, ma almeno quanto allo spirito e agli effetti dissolventi gli è più che fedele.
I Padri della Chiesa videro il pericolo nelle correnti gnostiche dei secoli 2° e 3°, e sulla base delle Scritture, che non si possono mutare come lettera, né interpretare adattandole alle esigenze delle epoche, riaffermarono duramente che «fuori della Chiesa, nessuna salvezza». Il che valeva come spinta missionaria urgente, ma provocava ostilità e resistenza. Oggi a questo ci si oppone per istinto e paura, con irritazione non motivata, e del resto nella coscienza cristiana comune, che si sta disarmando in modo suicida, si attenua, fino quasi a scomparire.
Ma così la Croce e la Resurrezione e la missione apostolica della Pentecoste delle nazioni sono senza più senso. È la morte della fede soprannaturale. Così si sono costruite molte teorie infondate, come quella bislacca dei «cristiani anonimi», ossia dei non cristiani considerati «come se» fossero cristiani battezzati, a tutti gli effetti. Altra questione è che la Chiesa annuncia l'Evangelo a tutti, e prega per la salvezza di tutti come «resto orante» posto per la salvezza eterna di tutti gli uomini, secondo l'imperscrutabile Disegno sapienziale divino.
Il Signore al momento della sua Assunzione al Padre delinea ai suoi discepoli la condizione di quelli che accetteranno la fede. E anzitutto gli Apostoli saranno gratificati di "segni" potenti. Nel Nome suo espelleranno i demoni, strappando lo spazio al Nemico e estendendo il Regno di Dio nelle anime. Parleranno «lingue nuove» (v. 17), uno dei segni della Pentecoste, e della presenza dello Spirito Santo (At 2,4). Un "segno" strano è «prendere i serpenti» con le mani, fatto adombrato a favore dei fedeli già dal Sal 90,13, e che si verificò di fatto nella vita di Paolo, a Malta (At 28,3-6). Un altro segno è bere veleni mortali senza danno. E un altro, grande, è imporre le mani ai malati per guarirli (v. 18). Nel suo ministero messianico il Signore aveva imposte le mani sui malati, e aveva inviato i suoi discepoli con simile potere (Mc 6,12-13)».
v. 17 - «i segni che accompagneranno i credenti»: La mancanza dell'articolo al termine greco (sēmeîon) pone in risalto la natura e l'indole di questi segni e indica chiaramente che si tratta di segni derivanti da poteri straordinari o carismatici (Mc 8,11-12; Mt 12,38; 16,1.4; Lc 11,16.29; ecc.).
Cristo se ne era servito per confermare la sua predicazione (cfr Mc l,23ss; 2,10-12; ecc.); ne aveva concesso il potere anche agli apostoli (3,15; 6,7,13; ecc.); ora estende tale potere a tutti i credenti (cfr Gv 14,12), purché lo pratichino «nel suo nome» (cfr 9,38; Lc 10,17).
I segni specificati sono 5 e, ad eccezione della resistenza ai veleni, sono tutti largamente attestati nelle storia e nella vita della comunità primitiva (demoni At 8,7; 16,18; per le lingue At 2,4.11; 10,46; 19,6; 1Cor 12,10,28; 14,2-40; per i serpenti Lc 10,19; At 28,3-6; per le guarigioni At 4,30; 5,16; 8,7; 1Cor 12,9.28; Gc 5,14-15).
v. 19 - «Il Signore Gesù»: Solo ora l'autore di questa conclusione indica col suo nome il soggetto della narrazione, attribuendogli il titolo di «Signore».
«dopo aver loro parlato»: Non necessariamente da riferirsi al breve discorso tenuto or ora, come se l'ascensione fosse avvenuta nello stesso giorno di Pasqua.
«fu assunto»: Il verbo è quello già usato dai LXX per il «rapimento di Elia» (2Re 2,11); altrove si usano altri termini, come «essere sollevato», «andare in cielo», «salire» e «penetrare i cieli» (Gv 6,62; 20,17; At 1,9; Eb 4,14; 1 Pt 3,22).
La tradizione latina ha preferito il verbo «ascendere» trovato anche in numerosi testi biblici (cfr. At 2,34; Rm 10,6; Ef 4,8-10; Ap 11,12) da cui ha poi derivato il sostantivo «Ascensione» perché più adatto ad esprimere la virtù propria per la quale il Figlio di Dio entra nella gloria dei cieli.
«si assise alla destra di Dio»: La destra nel mondo semitico è segno di benessere, di felicità, di onore, di forza: Giacobbe chiamerà il figlio avuto dalla moglie Rachele, Beniamino, che in ebraico significa "figlio della destra", quindi figlio fortunato e amato (Gen 35,18).
La "destra di Dio" è, invece, segno di potenza e di signoria sulla storia. L'espressione appare soprattutto quando si celebra la liberazione dell'esodo (leggi Es 15,6).
"Sedere alla destra di Dio" è, invece, una locuzione riservata al re ebraico e significa la sua dignità e concretamente anche la cerimonia di incoronazione con il sovrano insediato alla destra dell'arca (anche il palazzo reale era alla destra del tempio). Si legge, infatti, nel Sal 110: «Oracolo del Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra» (v. 1).
Cristo con l'ascensione e l'intronizzazione alla destra del Padre si rivela in pienezza come Messia e Figlio, Signore dell'universo.
La frase «assiso alla destra di Dio» verrà ripetuta spesso nel NT come professione di fede pasquale nel Cristo.
Il Sal 16 ricorda che tutti i fedeli saranno ammessi a gustare «la dolcezza senza fine alla destra di Dio» (v. 11). Ricordiamo anche il significato dell'icona della Madre di Dio («la sposa in ori di Ofir» del Sal 44), la Chiesa, posta alla destra dello Sposo, l'icona del Cristo pantocratore, nell'iconostasi delle Chiese orientali.
v. 20: Il brano si chiude riferendo l'esecuzione del mandato del v. 15 e offrendo uno sguardo panoramico sui successi della prima predicazione apostolica.
«operava insieme»: Gesù è più presente tra noi dopo l'Ascensione che prima; sembra un paradosso, ma è vero . L'assenza visibile accresce la presenza invisibile, l'assenza nella carne intensifica quella nello Spirito.
Il Concilio Vaticano II ha provato ad elencare alcune presenze quando dice (SC 7): «Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche. È presente nel sacrificio della messa, sia nella persona del ministro, essendo egli stesso che, «offertosi una volta sulla croce, offre ancora se stesso tramite il ministero dei sacerdoti», sia soprattutto sotto le specie eucaristiche. È presente con la sua virtù nei sacramenti, al punto che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza. È presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura. È presente infine quando la Chiesa prega e loda, lui che ha promesso: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro» (Mt 18,20)».
È presente inoltre nei bambini che sono accolti nel suo nome (Mt 18,5); nei sofferenti, malati, carcerati, forestieri, affamati, assetati (Mt 25,35-40).
L'Ascensione, oltre a collegarsi con la Resurrezione, è pure in riferimento all'incarnazione (la venuta del Figlio di Dio nel mondo) e al compimento della Pentecoste.
L'Ascensione è causa di pienezza, la pienezza di tutte le cose; Lui non è l'assente ma il Presente nello Spirito. Ecco perché la sua ascesa non genera tristezza ma gioia grande!
L'Ascensione è una tipica "selezione per accentuazione". Il Mistero unico e indivisibile del Figlio di Dio incarnato morto risorto assunto alla gloria e sempre presente alla sua Chiesa, che si celebra per intero in ogni momento ed aspetto della Liturgia - che sono i divini Misteri, i Misteri sacramentali, le Ore sante, l'Anno liturgico -, è stato esplorato ed in un certo senso parcellizzato per farne risaltare ogni splendore. È ovvio, l'Anamnesi dell'Anafora lo riassume con instancabile regolarità, mostrando che "la Festa" è la Resurrezione domenicale, "le Feste" ulteriori sono "le Parti" che si richiamano e vogliono esprimere sempre "il Tutto".
Per sé va segnalato che il N.T. non separa mai nelle visuali, e dunque tanto meno nei testi, gli aspetti dell'Evento centrale: Resurrezione, Ascensione, intronizzazione alla Destra, glorificazione del Signore avvengono all'istante della Resurrezione, che è il passaggio dell'Umanità del Crocifisso all'eone eterno, alla sfera divina, alla Gloria dello Spirito Santo. Che in diretta conseguenza sarà donato agli uomini.
Aspetto fondamentale dell'Ascensione è la Regalità del Risorto e l'inizio dell'esercizio del suo Sacerdozio eterno presso il Padre.
La Chiesa apostolica aveva la forte coscienza che l'Ascensione era un evento necessario, indispensabile, condizionante ogni altra forma di vita della Comunità. Pietro lo afferma fortemente davanti al popolo nel tempio, che aveva assistito al miracolo dello storpio alla Porta bella, operato dall'Apostolo "nel Nome di Gesù Cristo il Nazareno" (At 3,1-9), affermando con un discorso kerygmatico che il Cielo doveva accogliere Gesù, Crocifisso ma risorto, affinché potessero venire "i tempi del refrigerio", della dispensazione della Redenzione (At 3,21).
Non era altro, questo, che prendere coscienza di quanto aveva promesso il Signore stesso, con insistenza. La sua glorificazione era la condizione necessaria per ricevere i Fiumi dell'Acqua della Vita (Gv 7,37-38, specialmente v. 39).
In specie nella Cena l'annuncio dell' "andata al Padre" si fa insistente. Anzitutto Gesù annuncia la glorificazione sua e del Padre (Gv 13,31), e alla domanda impaurita di Pietro sul "dove" vada, risponde che per ora nessuno può seguirlo, poi anche Pietro Lo seguirà (Gv 13,36). Quando promette le "dimore" presso il Padre, che deve andare a preparare per farvi risiedere con lui i discepoli, i quali "conoscono la via" (Gv 14,1-4), Tommaso gli obietta che non sanno "dove" vada (v. 5), e Gesù gli risponde che Egli stesso è "la Via e la Verità e la Vita" (v. 6). Infine rivela ai discepoli sempre attoniti, che deve andare, altrimenti non potrà inviare ad essi il Paraclito (16,7).
Anche dopo la Resurrezione, ad Emmaus, ribadisce che "era necessario" (verbo déi, si doveva secondo il Disegno divino) che il Cristo soffrisse ma poi "entrasse nella sua Gloria" (Lc 24,26). Quella Gloria con cui sarebbe tornato alla fine dei tempi, e Gloria del Padre (Lc 9,26).
L'Ascensione non è un fatto accessorio, non è un "lusso" che il Signore si permette. È una condizione. Come la Croce. Dalla Croce, dalla glorificazione nell'Ascensione come conseguenza della Resurrezione, discenderà con infinita supereffluenza lo Spirito del Padre sugli uomini. E per gli uomini, la recezione dello Spirito Santo è l'unica condizione della salvezza, come proclamerà Pietro la mattina di Pentecoste terminando il suo primo discorso kerigmatico: At 2,38-39.
L'ascensione di Gesù al Padre, proprio in quanto Gesù è il Figlio del Padre e fratello nostro, non è conclusione, sosta, ma donazione al mondo ed effusione del suo amore attraverso la missione universale della chiesa, suo corpo.
Elevato per intercedere presso il Padre e regnare sull'universo, Cristo continua, attraverso lo Spirito, la sua opera di salvezza. Associato alla gloria del Padre, partecipa al suo dominio su tutta la creazione mediante la Chiesa, sua pienezza. Noi, che formiamo la Chiesa, siamo così la comunità di coloro che, uniti in un vincolo universale, ascendono, con Cristo e in Cristo, verso il Cristo totale, che terrà in sé, nella completa espansione della sua pienezza, l'umanità trasformata dallo Spirito.
A misura che ascendiamo con lui, ci assediamo con lui nei cieli (Ef 2,6), dove è la nostra patria (Fil 3,20). Il movimento è perenne: infatti l'uomo celeste (1Cor 15,48), il Cristo glorioso (Fil 3,21) di cui aspiriamo a rivestirci (2Cor 5,1ss.), non ci trae fuori dalla storia - «perché restate a guardare il cielo?» -, ma ci fa operare in essa nel modo nuovo inaugurato dalla sua ascensione: sollevando noi, e mediante noi il mondo, verso il futuro che è lui stesso.
La Chiesa pellegrina, che cammina dalla pasqua alla parusia, va incontro a «nuovi cieli e una terra nuova» (2Pt 3,13), salendo insieme al suo Signore, che continua ad ascendere al Padre con tutta l'umanità, verso la gloriosa trasformazione a cui è orientato l'universo (2Cor. 3, 18).
La preghiera di Colletta ci invita alla gioia grande per la Gloria del Capo, Cristo Risorto e per la speranza, divenuta anch'essa immortale che anche il "suo corpo", noi umanità redenta, sposa purificata, segua la medesima sorte, che è la divinizzazione.
Esulti di santa gioia la tua Chiesa, o Padre,
per il mistero che celebra in questa liturgia di lode,
poiché nel tuo Figlio asceso al cielo
la nostra umanità è innalzata accanto a te,
e noi, membra del suo corpo,
viviamo nella speranza di raggiungere Cristo,
nostro capo, nella gloria.
Egli è Dio...
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